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La morte della piccola Ginevra per covid racconta l’inadeguatezza della sanità calabrese

È morta a due anni con il covid e non, o almeno non soltanto, per il covid. Perché la storia di Ginevra Soressa, la bimba calabrese morta ieri all’ospedale Bambin Gesù di Roma, racconta dell’inadeguatezza delle strutture ospedaliere calabresi dove ancora non esiste un reparto pediatrico.

Partiamo dai fatti. Venerdì mattina Ginevra ha iniziato a sentirsi male costringendo i genitori a portarla il più in fretta possibile all’ospedale più vicino: quello di Crotone, a 50 km da Mesoraca. Un’ora di macchina. È questo il primo, lungo viaggio a cui è stata sottoposta la bambina le cui condizioni, nel frattempo, erano in rapido peggioramento. Al San Giovanni di Crotone è arrivata già in condizioni gravi con febbre alta, tosse e problemi respiratori costringendo i medici ad un ricovero immediato in attesa dell’esito del tampone che ha confermato la positività della piccola. Ma la struttura di Crotone non è attrezzata per la cura di casi del genere e così, dopo una notte al San Giovanni in cui le condizioni sono precipitate con l’acuirsi di una polmonite interstiziale bilaterale e una saturazione ormai oltre la soglia critica, si è reso necessario un nuovo trasferimento. Una corsa in ambulanza di 70 km verso l’ospedale Pugliese Ciacco di Catanzaro dove è stata immediatamente sottoposta a ventilazione assistita e ricoverata nel reparto di rianimazione. Ma, anche in questo caso, il nosocomio era impreparato ad un caso come il suo. Perché a Catanzaro, come a Crotone, come in tutto il resto della regione non esiste un reparto di terapia intensiva pediatrica. Esistono reparti di rianimazione neonatale, certo, ma funzionano per i neonati che hanno al massimo una quarantina di giorni di vita. Per chi li ha superati non esistono in tutta la Calabria reparti appositi e figure specializzate. E così, mentre le condizioni di Ginevra si fanno disperate, deve intervenire la Prefettura che dispone il trasferimento immediato al Bambin Gesù di Roma su un volo dell’Aeronautica Militare. Trasferimento inutile perché, a causa delle cure inadeguate e dei ritardi dei giorni precedenti, Ginevra è arrivata a Roma in condizioni disperate ed è deceduta nel giro di poche ore.

La tragica storia di Ginevra riapre la ferita profonda dell’assenza di un piano organico per la gestione dell’emergenza urgenza in età pediatrica e, soprattutto, della mancata attivazione di un’unità operativa complessa di Terapia Intensiva pediatrica regionale. I bambini calabresi, insomma, vengono ad oggi trattati impropriamente nei reparti di terapia intensiva per adulti. Ma il bambino, si sa, è un paziente delicato e con esigenze completamente diverse da quelle di un adulto che richiedono la presenza di macchinari appositi e personale specializzato. Due cose che, in Calabria non ci sono. Una mancanza che di fatto lascia aperte due vie: una cura impropria in reparti per adulti o il trasferimento fuori regione che comporta, come nel caso della piccola Ginevra ritardi che possono avere conseguenze devastanti sul paziente. La presenza di un reparto di terapia intensiva pediatrica in Calabria avrebbe, forse, potuto salvare la vita alla piccola Ginevra che è invece stata vittima di continui trasferimenti che hanno comportato una risposta tardiva all’acuirsi dei suoi sintomi. 

Una mancanza ancor più grave alla luce del fatto che nell’accordo Stato-Regioni del 21 dicembre 2017 era stata disposta l’attivazione in Calabria di di una Unità operativa di Terapia intensiva Pediatrica ad alta specialità con quattro posti letto. Una disposizione recepita nel Decreto commissariale 89/2107 firmato da Massimo Scura che ne autorizzava l’attivazione. Quel decreto, però, è rimasto soltanto sulla carta e in una regione in cui la sanità resta un buco nero nonostante il commissariamento. Ginevra è morta, anche, per colpa della sanità calabrese. Ginevra è morta. Ma ci auguriamo che la sua storia possa risvegliare le coscienze e smuovere finalmente i vertici della sanità calabrese. Perché in Calabria non si debba più morire di sanità.   

Quirinale giorno 1: Tra schede bianche e serietà in attesa della rumba

Cosa è successo nella giornata di ieri e cosa si attende per quella di oggi. La serietà dei partiti, l’inaffidabilità dei cinque stelle e la ricerca spasmodica di un nome più per Palazzo Chigi che per il Quirinale. 

Non c’è stato accordo, e questo si sapeva. C’è stata serietà, e questa è una sorpresa. Perché se sette anni fa dall’insalatiera uscirono nomi improbabili buttati dentro solo per farli pronunciare all’allora presidente della Camera, Laura Boldrini, e far ridere più se stessi che gli italiani, questa volta il bianco ha trionfato su qualsiasi nome ridicolo. A parte qualche sporadico Bruno Vespa, un paio di Alberto Angela, un Amadeus ed un Alfonso Signorini. Ma nulla in confronto aa sette anni fa quando tra gli altri uscirono decine di nomi come Rocco Siffredi, Giancarlo Magalli o Sabrina Ferilli. Per quanto possa contare, ad uscire trionfante dalla prima votazione, con 36 schede a favore, è stato Paolo Maddalena: nemico delle multinazionali e del liberismo, fautore dell’uscita dall’euro, promotore di scenari per la partecipazione diretta dei cittadini alla politica e candidato di bandiera degli ex M5S.

I voti espressi ieri, come quelli che saranno espressi oggi, lasciano però il tempo che trovano in attesa di un accordo che possa sbloccare la situazione dalla quarta votazione, quando il quorum si abbasserà da 672 a 505 grandi elettori. Un accordo che dovrà essere necessariamente trovato tra il centrodestra ed il Partito Democratico perché, oramai, il Movimento 5 Stelle sembra essere sempre più fuori da ogni possibile consultazione. Un’esclusione frutto dell’incapacità, almeno in questa fase, di Conte di tenere uniti i suoi parlamentari e quindi di garantire un pacchetto di voti ad un possibile candidato comune. Se nel 2013 e nel 2015 i parlamentari grillini, che votarono in blocco Rodotà e Imposimato dopo le “Quirinarie”, giocarono un ruolo centrale oggi sembrano inaffidabili ed incapaci di dare garanzie. Pur essendo il gruppo parlamentare più ampio, con 234 grandi elettori, i parlamentari cinque stelle sembrano muoversi in autonomia senza seguire le istruzioni del leader e, probabilmente, senza capire in che direzione si stia andando in quello che da movimento anticasta sembra essersi ormai trasformato nel più tradizionale partito politico.

Così la palla passa agli altri e, al netto di un improbabile dietrofront di Mattarella, all’orizzonte sembra sempre più delinearsi un derby. Un derby tra tecnici e politici. Un derby tra Draghi e Casini. Sono loro i due nomi più quotati al momento. Da un lato l’attuale premier, che sembra essere pronto a lasciare Palazzo Chigi per salire al Quirinale. Dall’altro l’eterno centrista Pierferdinando Casini che da mesi evita di esporsi, forse proprio in attesa di questi giorni. Il nodo da sciogliere, a quanto si apprende dalle varie dichiarazioni e dalle notizie che filtrano dai palazzi romani, è uno soltanto: il futuro del governo. Nelle ultime ore il premier ha dato una decisa accelerata intavolando colloqui con tutti i leader politici nel tentativo di sciogliere finalmente questo nodo e spianarsi la strada verso il Colle. Vorrebbe chiudere al più presto la partita, possibilmente al terzo scrutinio, o comunque poco dopo. Di certo non si farà trascinare in un ping pong devastante tra partiti, perché non ha voglia di sottoporsi a un doloroso logoramento. E poi, soprattutto, c’è un Paese da governare. Tanto che a sera, nel Pd, si diffonde il timore che senza una rapida soluzione, presumibilmente nelle prossime 24-36 ore e comunque non oltre la quarta votazione, l’ex banchiere possa addirittura meditare un clamoroso ritiro dalla corsa quirinalizia. In questo scenario il centrodestra non sembra in grado di proporre un nome condivisibile dal Pd e viceversa. E se saltasse Draghi l’unico nome trasversale, come sottolinea il Sole 24 Ore, sarebbe quello di Pierferdinando Casini. Al momento “nessuno dei due schieramenti può considerarsi maggioranza nel paese” continua il quotidiano di Confindustria “Tanto più che una larga fetta dell’elettorato non si riconosce né nell’uno né nell’altro. Per questo la cosa giusta in questo momento complicato e difficile è puntare su leader che non siano di una parte o dell’altra e che consolidino la credibilità che abbiamo guadagnato nell’ultimo anno”. Matteo Renzi secondo la Stampa ha detto chiaramente ad alcuni amici fidati di Italia Viva come la vede: “Da giovedì si inizia a ballare la rumba e sapete chi è il miglior ballerino? Pierferdinando Casini”.

In attesa della rumba di venerdì, dunque, oggi si assisterà ad un’altra votazione in bianco. Tuttavia, dietro le attese schede bianche di oggi, si cela in realtà un’altra giornata di febbrili trattative in cerca di un nome o di un accordo sul nuovo governo. Un’altra giornata di dubbi ed incertezze, in attesa di un nome. Un nome che potrebbe essere diverso da tutti quelli usciti finora, sia ben chiaro. Se nel 2015, ad esempio, il nome di Mattarella fu sin dall’inizio tra quelli indicati da partiti e stampa, nel 2006 Napolitano spuntò un po’ all’ultimo sbloccando una situazione intricata in cui il centrodestra puntava su Gianni Letta ed il centrosinistra su Massimo D’Alema. E dunque non ci resta che aspettare e goderci questa seconda giornata di votazioni.


Le tre foto che resteranno

Tre le immagini simbolo di questa prima giornata di votazioni:

  1. Il drive-in: per la prima volta nella storia è stato allestito un seggio “drive-in” per permettere ai grandi elettori positivi o in quarantena di esprimere il proprio voto.
  2. Bossi: dopo due anni senza apparire in pubblico Umberto Bossi è il primo ad essere chiamato. Il “Senatur”, accompagnato in carrozzina, vota e si ferma a chiacchierare con vecchi amici e cronisti con il suo solito completo grigio con cravatta verde Padania e fazzoletto dello stesso colore nel taschino. È quello di sempre. Come se il tempo si fosse fermato.
  3. Cunial: Si presenta senza green pass e pretende di votare. Al rifiuto minaccia di chiamare i carabinieri e di far sospendere le votazioni. Mentre in aula prosegue la chiama, la deputata Sara Cunial improvvisa il suo show no-vax fuori dal palazzo.

Verso il voto: la galassia complottista e no-vax candidata alle amministrative

Con la chiusura delle liste per le prossime amministrative si è definito il quadro dei candidati. Tra di loro, soprattutto nelle città principali, spicca la presenza di liste e candidati apertamente contrari a vaccini e green pass che fanno leva su teorie complottiste.

La corsa alle amministrative del 3 ottobre entra nel vivo. Dopo la presentazione delle liste e dei candidati sindaco nei 1.349 comuni chiamati al voto, le campagne elettorali entrano nel vivo con la presentazione dei programmi e dei temi a cui ogni lista vuole dare la priorità. Tra i tanti temi al centro dei dibattiti, soprattutto nelle grandi città, c’è inevitabilmente quello legato alla pandemia ed alla campagna vaccinale. E così tra i candidati spunta una schiera di complottisti, “no green pass” e “no vax” raccolti, quasi sempre nel “Movimento 3V – Vacini, vogliamo verità”.

Nato nel 2019 come partito antisistema, il Movimento 3V ha trovato nuova linfa per i suoi slogan grazie alla pandemia. Sul loro sito si presentano come “l’unico partito che mette al centro il benessere del cittadino” pronto a porsi come “baluardo contro le vessazioni degli attuali provvedimenti politici contrari alla Costituzione, ai diritti umani e a qualsiasi forma di etica”. Il primo nemico è, ovviamente, la campagna vaccinale portata avanti dal governo e definita “una guerra lampo in cui a crollare sono i diritti fondamentali dell’uomo riconosciuti dalla Costituzione”. Sul sito del movimento, poi, è presente la lista delle “15 ragioni di medici e scienziati che ci convincono a non vaccinarci” con al primo posto una motivazione che sembra aver poco a che fare con la scienza: “io non sono una cavia”. Ma ad animare il Movimento 3V non sono solo i vaccini e l’opposizione ad una fantomatica “dittatura sanitaria”. Tra le ultime battaglie si registrano anche quelle contro i pagamenti con carte di credito, con tanto di hashtag #iopagoincontanti “contro la moneta elettronica in difesa della libertà e dell’economia delle persone reali”, e contro il 5G e l’aumento dell’elettrosmog.

Dopo gli scarsi risultati ottenuti nelle regionali del 2020, il Movimento 3V sembra pronto per un salto di qualità che potrebbe portarlo ad approdare in qualche consiglio comunale cavalcando l’orda ribelle che nelle ultime settimane sta agitando le piazze di diverse città. Così, in vista delle amministrative in quasi tutte le principali città sono presenti candidati sindaci di questo schieramento: da Trieste, dove il candidato sindaco Ugo Rossi si fregia di aver collaborato con Silvia Cunial per fermare il 5G, a Bologna, dove Andrea Tosatto non ha dubbi: “La politica ha cambiato il concetto di pandemia dipingendo un virus perfettamente curabile come un killer fantasma”. Poi Milano, Rimini, Torino, Roma, Napoli e così via con un totale di 9 candidati sindaci “no-vax” che tenteranno l’assalto ai consigli comunali.

Ma in molte città, il movimento 3V dovrà contendersi i voti della galassia no vax con tutti quei partiti che strizzano l’occhio a negazionisti e complottisti. In primis “ItalExit”, guidato dall’ex 5 stelle Gianluigi Paragone che pur puntando tutto sull’uscita dall’euro facendo leva sulle difficoltà economiche dei cittadini sta cavalcando da settimane l’onda delle proteste contro vaccini e green pass. E se a Milano il candidato sindaco sarà proprio Paragone, per Torino ItalExit ha scelto Ivano Verra che di recente ha affermato che “c’è chi è pronto a baciare i malati di Covid per contrarre il virus piuttosto che vaccinarsi”, e che “Carla Fracci e Raffaella Carrà dimostrano le conseguenze del vaccino essendo morte dopo averlo fatto”.

Ma se il movimento 3V e ItalExit rappresentano i casi più estremi di “anti sistema” e non nascondono le loro idee complottiste e no vax, c’è anche una parte della politica “istituzionale” pronta a raccogliere i voti dei ribelli del vaccino. Lega e Fratelli d’Italia, infatti, mentre pubblicamente condannano le teorie complottiste non hanno mai smesso di ammiccare alle posizioni opposte. Non solo intervenendo più volte in modo ambiguo su questioni come vaccini e green pass ma anche, e soprattutto, candidando in diversi comuni esponenti di quella stessa galassia negazionista e no vax. Il caso più estremo è senza dubbio quello di Francesca Benevento, candidata a sostegno di Michetti nella capitale, apertamente antisemita e no-vax che si è scagliata contro il ministro Speranza definendolo “il ministro ebreo ashkenazita formato dalla McKinsey, che riceve ordini dall’élite finanziaria ebraica”.

Una schiera di no vax e no green pass, insomma, si contenderà i voti di chi nelle ultime settimane scendi in piazza per ribadire la propria contrarietà alle regole pensate per arginare una pandemia che ha già fatto oltre 130mila vittime nel nostro paese. Resta da vedere quale seguito avranno e quanti, effettivamente, saranno pronti a sostenerli alle urne. 

Santa Maria Capua Vetere e quelle mele marce che in Italia sono sistema

A Santa Maria Capua Vetere è stata tradita la Costituzione
-Marta Cartabia-


Un’orribile mattanza. Le immagini riprese dalle telecamere di sicurezza del carcere di Santa Maria Capua Vetere non lasciano dubbi su quello che è stato. Violenza gratuita e brutale da uomini in divisa ai danni di quegli stessi detenuti che avevano in custodia e avrebbero dovuto tutelare. Una rappresaglia inumana, indiscriminata e che non può ammettere nessuna giustificazione. Non può essere giustificata con lo stress, con la pressione dopo le proteste di quei giorni, con il virus che dilaga e fa paura. Nessuna attenuante può rendere meno crude e disarmanti quelle immagini.

Mele marce? – Immediata la difesa del corpo di Polizia Penitenziaria da parte di diversi schieramenti politici che si sono affrettati a sottolineare come quelle intervenute a Santa Maria Capua Vetere fossero “mele marce” nate da un albero sano. Ma si può davvero giustificare il tutto con la solita retorica delle mele marce? Il primo a non crederci è l’ex senatore Luigi Manconi, ex Presidente della commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani, che in un’intervista di qualche giorno fa non ha avuto dubbi: “Come è potuto accadere che oltre 50 persone abbiano commesso misfatti del genere? Io non ritengo che tutti gli agenti siano dei criminali ma non credo neanche alla retorica delle mele marce. Il problema risiede nel sistema carcerario, nella sua natura profonda e nel suo complessivo funzionamento: è un fatto culturale.”

Senza andare troppo indietro nel tempo, rievocando i fatti del G8 di Genova di cui ricorre il 20esimo anniversario tra pochi giorni, basta guardare al recente passato del nostro paese per capire quello che intende Manconi. Nel nostro paese in questo momento ci sono sette indagini aperte contro agenti di polizia penitenziaria accusati di tortura, reato introdotto nel Codice penale solo nel 2017. In due casi ulteriori, per fatti verificatisi nelle carceri di Ferrara e San Gimignano, si è già arrivati alla condanna di undici persone con rito abbreviato mentre altri cinque sono in attesa di giudizio. Undici condanne, cinque rinviati a giudizio e un centinaio di agenti indagati per tortura. Sono dati che rappresentano solo la punta dell’iceberg e che devono aiutare a comprendere come la violenza sia spesso elevata a sistema e non limitata alle sole “mele marce”. Perché se a Genova si registrarono per tre giorni violenze indiscriminate ed episodi di tortura su larga scala, quella mentalità sembra continuare oggi a macchiare la quotidianità delle carceri del nostro paese. Questo non vuol dire, certo, che l’intero apparato di polizia italiano sia composto da torturatori o sadici. Ma le violenze che si registrano quotidianamente in diverse parti del paese sono sintomo di un qualcosa che non funziona.

Cultura – C’è nei corpi di polizia italiani un vero e proprio problema culturale. Anzi, ce ne sono molteplici. Le violenze nelle carceri sembrano essere figlie di una tradizione di impunità che, da Genova in poi, sembra caratterizzare gli episodi simili. Dal 2001 ad oggi i passi avanti sono stati pochi. Se per approvare una legge contro la tortura si sono dovuti attendere 16 anni e i numerosi richiami delle istituzioni europee, per un’altra misura di buonsenso come i numeri identificativi sui caschi e le divise degli agenti potrebbero volercene altrettanti vista la strenua opposizione di diverse forze politiche. Quelle stesse forze politiche che accorrono a portare solidarietà agli agenti indagati e che reputano il reato di tortura una limitazione per gli le forze dell’ordine che a causa di quella legge si troverebbero nelle condizioni di non poter più svolgere il proprio lavoro.

Ma c’è anche un ulteriore problema: l’omertà. Se le brutalità di Santa Maria Capua Vetere, come di altri penitenziari, sono state possibili e sono emerse a un anno di distanza è anche e soprattutto colpa di un diffuso senso di cameratismo che rende l’omertà una virtù apprezzata e riconosciuta. Una virtù che sembra ritrovarsi ad ogni livello della scala gerarchica. Dagli agenti che fecero irruzione fino all’allora sottosegretario alla giustizia Vittorio Ferraresi che, consapevole o meno di quanto accaduto realmente, definì l’azione della polizia penitenziaria una “doverosa azione di ripristino di legalità e agibilità dell’intero reparto”. Nel mezzo ci sono le decine di funzionari e dirigenti della polizia penitenziaria che avrebbero cercato di coprire le violenze con prove false e relazioni scritte per dimostrare che il 6 aprile la reazione delle forze dell’ordine era stata provocata dai detenuti. E, ancora, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) che pur avendo ricevuto decine di esposti da parte di detenuti che denunciavano le violenze subite a seguito delle rivolte della primavera scorsa ha preferito non intervenire lasciando cadere nel vuoto quelle parole. E se il ministro Bonafede, rimasto in silenzio sul caso in Parlamento, poteva non sapere di cosa fosse accaduto nella realtà, risulta difficile immaginare che non lo sapessero tutti gli altri.

Rieducazione – Come sarebbe un errore convincersi che la violenza è frutto solo di alcune mele marce senza vederne la portata effettiva, come se si trattasse di schegge impazzite e isolate dal resto del corpo, sarebbe un errore altrettanto grande non capire il quadro generale che quelle violenze indicano. Perché quello che si consuma in molti penitenziari italiani è il fallimento del sistema carcerario. Un sistema in cui, come sottolinea ancora Manconi, “la rieducazione del condannato viene in genere sacrificata in nome della sicurezza: ovvero della custodia coatta dei corpi dei detenuti. È così che si spiegano episodi come quello di S. M. Capua Vetere: alcuni agenti si trasformano in aguzzini perché è la struttura del carcere, ispirata alla segregazione e alla mortificazione del condannato, che induce a questo. Perché, nei fatti, l’esito della detenzione è quello di de-responsabilizzare il detenuto, privarlo dell’indipendenza, della sua autonomia e controllarlo in tutti i suoi atti”. Servirebbe un cambio culturale per riportare la rieducazione del detenuto al centro della filosofia carceraria. Basterebbe poco, forse. Basterebbe rimettere al centro della scena non più controllori in divisa ma figure professionali quali educatori, assistenti sociali, animatori, mediatori, psicologi in grado di accompagnare il detenuto in un percorso utile a lui e alla società.

Una pandemia di plastica: come il covid-19 sta avvelenando l’ambiente

Felicità è trovarsi con la natura, vederla, parlarle”
-Lev Tolstoj-


L’uscita dalla pandemia sarà lunga e tortuosa. Non tanto dal punto di vista sanitario, dove grazie ai vaccini si inizia ad intravedere una luce in fondo al tunnel, quanto dal punto di vista ambientale. Guanti, mascherine, calzari, tute monouso, gel igienizzanti e chi più ne ha più ne metta. Siamo di fronte ad una vera e propria invasione di prodotti monouso che stanno sommergendo il mondo di plastica.

I DPI – Con la Direttiva 2019/904 l’Unione Europea aveva deciso di vietare a partire dal 1° gennaio 2021 la vendita in Europa di stoviglie monouso con lo scopo di promuovere un approccio circolare ai consumi, privilegiando prodotti riutilizzabili, sostenibili e non tossici. Una direttiva che avrebbe reso l’Unione Europea una zona “plastic free” ma che, avendo preso le mosse nel 2018, non poteva prevedere quello che sarebbe successo da lì a un anno. L’arrivo della pandemia ha portato infatti con sé l’utilizzo di massa di Dispositivi di Protezione Individuale, gli ormai arcinoti DPI, che non solo sono costituiti principalmente da materiale composito ma essendo potenzialmente infetti non possono essere differenziati né riciclati. A ciò si aggiunge un aumento di confezioni in plastica per il mercato alimentare conseguente da un lato ad un aumento vertiginoso delle consegne a domicilio di piatti già pronti conservati in vaschette monouso e dall’altro al massiccio ritorno di imballaggi in plastica nei supermercati per motivi di igiene. Così, dopo anni di calo e di scelte volte ad eliminarla dalle nostre vite, il mercato della plastica torna a crescere in modo vertiginoso grazie alla pandemia: dai 900 miliardi di dollari del 2019 alla cifra stellare di 1.012 miliardi nel 2021.

Secondo un recente studio del Politecnico di Torino si stima che solo in Italia vengano utilizzate ogni mese un miliardo di mascherine usa e getta e 500 milioni di guanti monouso. A livello globale il conto sale a 129 miliardi di mascherine e 65 miliardi di guanti ogni mese. Una vera e propria ondata di plastica che sta sommergendo il mondo provocando un pericoloso aumento dell’inquinamento, soprattutto in fiumi e mari, che mette a rischio milioni di specie animali e vegetali. Un’ondata di plastica monouso che sta avendo effetti tangibili anche nel nostro paese con gli impianti di smaltimento ormai ai limiti e mascherine gettate un po’ ovunque nelle nostre città e non solo da qualche incivile. In presenza i rifiuti con una vita brevissima come i DPI, come d’altronde per tutti gli altri rifiuti anche al di fuori della pandemia, il corretto smaltimento diventa di cruciale importanza. Guanti e mascherine monouso utilizzati dalla popolazione vanno smaltiti come rifiuti urbani e gettati nell’indifferenziata, mentre tutti i rifiuti provenienti da ospedali o strutture sanitarie in generale vanno considerati come rifiuti pericolosi a rischio infettivo e devono essere smaltiti mediante termodistruzione in impianti autorizzati. Ma a lanciare l’allarme su questo punto è stata la Presidente del WWF Donatella Bianchi: “se anche solo l’1% delle mascherine venisse smaltito non correttamente e magari disperso in natura, questo si tradurrebbe in ben 10 milioni di mascherine al mese disperse nell’ambiente, che corrispondono a oltre 40 mila chilogrammi di plastica in natura”.

Il riciclo – All’aumento della domanda di prodotti plastici monouso, sia DPI che imballaggi, è corrisposto però un calo del riutilizzo e del riciclo. Da un lato i dispositivi di protezione individuale non possono essere differenziati e dunque non sono destinati ad alcun tipo di recupero, dall’altro, come testimoniato da un report della Reuters, il calo della produzione durante i lockdown ha fatto calare drasticamente il prezzo del petrolio come conseguenza del calo della domanda ed ha reso così più conveniente produrre plastica vergine che da materiali riciclati. Alla luce della minore domanda di plastica riciclata, molte amministrazioni locali europee hanno avuto difficoltà nel gestire lo smaltimento dei rifiuti plastici in modo sostenibile. Con la conseguenza che sempre più plastica rischia di essere smaltita nelle discariche o peggio dispersa nell’ambiente. Un circolo vizioso che ha di fatto incentivato la nascita di miliardi di tonnellate di materiali plastici vergini e non destinati al riciclo.

Vi è poi un ulteriore elemento emerso da un’importante inchiesta trasmessa l’anno scorso dalla Pbs e dalla National public radio (Plastic wars) secondo cui il riutilizzo ed il riciclo sarebbero un’illusione: per molti composti non c’è alcuna possibilità di riuso e per altri è raramente conveniente, ad oggi, sul piano economico o energetico. Nei documenti delle grandi aziende petrolchimiche esposti dai giornalisti il marketing legato al riciclo assume una nuova faccia: pensare che sia possibile dare nuova vita a vestiti o pacchetti fatti di materiali plastici tiene in piedi il consumo. Far credere ai consumatori che per la plastica che stanno utilizzando vi sia la possibilità di una seconda vita fa aumentare le vendite anche se poi quella plastica non vedrà mai alcun tipo di riutilizzo.

La pandemia ha reso poi di fatto reso secondaria la questione ambientale. La necessità di una maggior protezione personale e l’illusione di una maggior igiene data dagli imballaggi monouso hanno fatto schizzare a livelli al limite del catastrofico. Eppure, i danni ambientali riconducibili a un uso sconsiderato della plastica- dimostrati da anni di studi e ormai sotto gli occhi di tutti- non sono cambiati. Montagne di rifiuti, biodiversità danneggiata, risorse contaminate sono solo alcuni dei risvolti negativi di un materiale che, anche a fronte di lunghissimi tempi di degrado, può essere considerato a ragione uno dei maggiori nemici pubblici dell’ambiente.

Guerriglia a Tripoli: Le tre crisi che stanno mettendo in ginocchio il Libano

“Tutti noi per la patria, la gloria e la bandiera”


Guerriglia, fuoco e feriti. Dopo le proteste che hanno segnato la fine del 2019 e i primi mesi del 2020 e che si sono riacutizzate dopo le tragiche esplosioni al porto di Beirut, il 4 agosto scorso, il Libano torna ad essere teatro di violente manifestazioni. Da giorni, infatti, a Tripoli migliaia di persone scendono in piazza sfidando le forze dell’ordine e le misure anti-contagio per esprimere la propria rabbia per le crisi che attanagliano il paese.

Le proteste – È stata una settimana di vera e propria guerriglia quella che si è appena conclusa a Tripoli, seconda città del Libano per popolazione e tra le più povere del paese. Per giorni, ogni sera, migliaia di persone sono scese in piazza sfidando i blindati e le camionette delle Internal Security Forces (Isf) schierati a piazza Al Nour in attesa di una nuova esplosione della rabbia popolare. A caratterizzare questa settimana di proteste, infatti, è stata proprio la violenza che ha portato a violenti scontri tra esercito e manifestanti con ripercussioni altissime. Il bilancio provvisorio degli scontri, quasi ininterrotti dal 25 gennaio, è di due manifestanti uccisi e più di 300 feriti, tra cui una trentina di militari e agenti di polizia ma l’episodio più eclatante è stato l’assalto al municipio di Tripoli. L’antico edificio che ospita il governo della città è stato dato alle fiamme dai manifestanti nell’ultima notte di scontri.

Le Isf hanno tentato di reprimere le proteste utilizzando idranti, gas lacrimogeni e proiettili di gomma a cui i manifestanti hanno risposto con pietre, copertoni in fiamme e molotov. Molti cittadini, però, hanno denunciato l’utilizzo da parte delle forze dell’ordine di armi da fuoco caricate con proiettili veri ed il quotidiano “Orient Today” riporta di diversi manifestanti portati in ospedale con ferite d’arma da fuoco alle gambe. Quello che prima era solamente un sospetto è divenuto certezza dopo la morte di un manifestante, colpito al torace da un proiettile sparato dai militari.

Crisi – Ma gli abitanti di Tripoli non hanno nulla da perdere. In un paese che sta affrontando la peggior crisi economica della sua storia ed ha dichiarato un default tecnico a causa del mancato pagamento di 1,2 miliardi di eurobond, nella città settentrionale la situazione sembra essere peggiore che nel resto del Libano con un tasso di disoccupazione che sfiora il 60%. Secondo il Fondo monetario internazionale, lo scorso anno il prodotto interno lordo del Libano è diminuito del 25%, mentre i prezzi sono aumentati del 144% causando un aumento esponenziale della povertà anche estrema. Ad aggravare la situazione, le banche hanno impedito ai depositanti di accedere ai propri risparmi in valuta estera, consentendo loro di convertirli nella valuta locale solo alla metà del tasso di mercato, causando una perdita sostanziale. Si stima che circa metà della popolazione totale del Libani, di quasi 7 milioni di abitanti, viva in una condizione di povertà.

Come se non bastasse la crisi economica è arrivata la pandemia ad aggravare ulteriormente una situazione già drammatica. A scatenare la rabbia della popolazione ed innescare le proteste di questa settimana è stata infatti la decisione del governo di imporre un nuovo lockdown totale fino all’8 febbraio. Una decisione che, seppur necessaria visto l’incremento dei contagi e delle morti nelle ultime settimane, rischia di mettere definitivamente in ginocchio l’economia del paese costringendo imprenditori e commercianti a chiudere, forse per sempre. Il lockdown si è però reso necessario a causa dell’aumento esponenziale dei casi confermati che dall’inizio dell’anno ad oggi sono stati quasi quanti quelli registrati nei primi dieci mesi di emergenza sanitaria con una media di quattromila contagi al giorno su un territorio grande all’incirca quanto l’Abruzzo. Una crescita che ha messo in ginocchio il sistema sanitario, con i pochi ospedali pubblici al collasso costretti a rifiutare pazienti mentre quelli privati sono un privilegio per pochi con prezzi che arrivano fino a 2,5 milioni per posto letto.

Una situazione difficilmente risolvibile, a maggior ragione perché intrecciata con un’altra profonda crisi che attanaglia il paese: quella politica. Dal novembre 2019 a oggi si sono succeduti quattro premier (Hariri, Diab, Adib e ancora Hariri) e da ottobre scorso il Libano è in attesa che si formi un nuovo governo, appoggiato dalla Francia, che faccia uscire il paese dalla crisi. Dopo l’esplosione al porto dello scorso agosto, infatti, si è giunti alle dimissioni del governo con l’apertura di una nuova crisi politica ancora irrisolta. Lo stallo politico, però, sta avendo effetti drammatici sulla situazione del paese non potendo garantire una risposta immediata alle crisi economiche e sociali che attraversano il paese. Fino a quando durerà lo stallo politico, il Libano non potrà sperare di contrastare efficacemente pandemia e crisi economica e non potrà richiedere aiuti internazionali per interventi decisi sull’economia del paese.

La formazione di un governo stabile ed in grado di guidare il paese appare dunque come la precondizione necessaria affinchè il libano possa sperare di rialzarsi. Senza una guida politica il paese non sembra in grado di uscire da un vortice che sta pericolosamente trascinando nel baratro l’intera popolazione facendola sprofondare sempre di più.

L’anno che verrà: cosa tenere d’occhio nel 2021

Ma la televisione ha detto che il nuovo anno
Porterà una trasformazione
E tutti quanti stiamo già aspettando

-Lucio Dalla-


Dopo un anno in cui la pandemia da coronavirus ha monopolizzato la scena è iniziato un anno in cui, si spera, il mondo proverà a trovare una nuova normalità. Dopo avervi raccontato gli eventi salienti del 2020 nel nostro riassunto, oggi proviamo a tracciare un quadro di quello che sarà il 2021 attraverso alcuni elementi chiave che abbiamo individuato per voi. Fermo restando che uno dei temi principali sarà la lotta al coronavirus e la campagna vaccinale più grande di tutti i tempi, oggi non vogliamo parlare di pandemia.

La svolta politica dell’anno: Germania – A livello politico tutti gli occhi saranno inevitabilmente puntati sulla Germania e la data cerchiata in rosso sul calendario è una sola: il 26 settembre 2021. In quella data, infatti i tedeschi andranno alle urne per eleggere il proprio governo e, per la prima volta da 16 anni, tra i candidati alla cancelleria non ci sarà Angela Merkel. Erano le 16:00 del 22 novembre 2005 quando la Merkel giurò diventando per la prima volta Cancelliere Federale, un ruolo che lascerà per la prima volta a settembre dopo quattro mandati consecutivi e 5782 giorni ininterrotti alla guida della Germania.

La fine dell’era-Merkel porta con sé innumerevoli punti interrogativi. Il primo riguarda inevitabilmente il suo successore che verrà deciso il 16 gennaio dal congresso della CDU che dovrà anche fare i conti con la decisione di Annegret Kramp-Karrenbauer, già individuata come erede della Merkel, di non candidarsi dopo la sconfitta delle scorse amministrative in Turingia. Al momento sembrano essere in tre a contendersi il ruolo: l’ultraconservatore Friedrich Merz, l’ex Ministro dell’ambiente Armin Laschet e il Ministro presidente della Renania Settentrionale-Vestfalia Norbert Röttgen. Nessuno dei tre sembra però essere in grado di riempire il vuoto che lascerà la cancelliera, ancora capace di raccogliere da sola un terzo delle preferenze dei tedeschi. Gli interrogativi sono molteplici anche su come sarà la politica tedesca post-Merkel e sul ruolo che il paese avrà nell’Unione Europea dopo l’uscita di scena di quella che per anni è stata il vero leader dell’UE.

Lo scontro dell’anno: Taiwan – Per qualcuno è “l’isola che non c’è” visto che, con i suoi 23 milioni di abitanti in 35mila Km2, molti stati non hanno relazioni diplomatiche con Taipei. Ma quest’anno Taiwan potrebbe trasformarsi in un nuovo focolaio di tensione con la Cina che, dopo Hong Kong, vorrebbe portare sotto il proprio controllo anche quella “provincia ribelle” che negli anni ha sviluppato una forte identità e un’autonomia sempre maggiore. Le relazioni tra i due stati non sono certo mai state semplici tanto che, dopo la cessione dell’isola alla Cina da parte del Giappone nel 1945, già nel 1947 iniziarono i primi moti indipendentisti che portarono due anni dopo ad una sostanziale indipendenza da Pechino. Dopo anni di guerra aperta e decenni di stallo diplomatico e militare, le relazioni sembravano essersi stabilizzate alla fine degli anni ’90. Lo scorso anno, però, Taiwan è stato terreno di scontro per tre motivi: lo scoppio di proteste anticinesi, il supporto del governo dell’Isola ai movimenti democratici di Hong Kong e le relazioni sempre maggiori con gli USA.

Imponendo la sua legge su Hong Kong, ponendo di fatto fine all’esperienza “un paese due sistemi” che avrebbe voluto applicare anche a Taiwan, Pechino ha mostrato il suo vero volto esasperando la situazione. Da un lato Taiwan non è disposta a fare la fine dell’ex colonia britannica e vuole a tutti i costi affermare la propria autonomia, dall’altro la Cina vorrebbe definitivamente porre fine alle mire indipendentiste e per questo ha fatto salire tensioni e allarmismo, intensificando la pressione militare su Taiwan ad un livello senza precedenti per decenni. Negli ultimi mesi le forze armate di Pechino hanno condotto una fitta serie di esercitazioni militari, aeree e terrestri, insolitamente vicino all’isola per intimidire i suoi leader e la sua popolazione. A differenza di quanto accaduto ad Hong Kong, però, se decidesse di forzare la mano con Taiwan la Cina troverebbe una situazione ben diversa con un governo che non ha intenzione di piegarsi a Pechino e che è disposto a schierare il proprio esercito per resistere. Per questo motivo Xi Jinping si è fino ad ora trattenuto da un attacco frontale ma è improbabile che le tensioni si riducano. Saranno invece sempre maggiori, con Pechino che ha compreso la necessità di una maggiore coercizione e intimidazione per mettere in ginocchio una Taiwan sempre più capricciosa e che potrebbe dunque fare del 2021 l’anno della stretta finale.  

Summit dell’anno: COP26 – Dall’1 al 12 novembre 2021 andrà in scena la 26° conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (cop26). Rinviata di un anno a causa della pandemia, sarà organizzata congiuntamente da Italia e Regno Unito anche se avrà luogo, se mai sarà possibile svolgerla in presenza, esclusivamente al SEC Center di Glasgow mentre nel nostro paese avranno luogo appuntamenti ad essa collegati. Il summit di Glasgow avrà l’arduo compito di riportare le tematiche ambientali al centro delle strategie degli stati dopo un anno in cui tutte le attenzioni sono state concentrate sulla pandemia. Come previsto nell’Accordo di Parigi sul Clima, siglato nel 2015, verrà attivato il cosiddetto “meccanismo a cricchetto” che porterà ad una rivalutazione delle strategie e degli obiettivi delineati nella capitale francese. Nell’Accordo era infatti previsto che ogni cinque anni, divenuti sei a causa della pandemia, gli stati presentassero un rapporto su quanto fatto per calibrare la strategia comune e verificare l’attualità e la fattibilità degli obiettivi. Ad oggi, secondo il monitoraggio effettuato da Climate Action Tracker, tutti i principali stati avrebbero fatto sforzi insufficienti o gravemente insufficienti per raggiungere gli obiettivi di Parigi.

Da monitorare nel corso dell’anno per avvicinarsi al summit di Glasgow sarà senza dubbio la posizione degli Stati Uniti. Dopo la decisione del Presidente Donald Trump di uscire dall’accordo di Parigi, infatti, sembra possibile un’inversione di rotta con Joe Biden che ha già annunciato di voler incrementare gli sforzi in ambito ambientale e di voler rientrare immediatamente negli accordi internazionali sul clima, Parigi incluso. Se dovesse mantenere fede alle promesse fatte in ambito green, il nuovo presidente potrebbe affrontare la COP26 ponendosi come guida per gli altri paesi nel tracciare la linea da seguire.

L’addio dell’anno: Raul Castro – Per chi ha sempre guardato a Cuba come alla terra di Fidel Castro e Che Guevara, il 2021 sarà un anno di grande cambiamento. Dopo la svolta del 2019 con la decisione di cedere la presidenza a Miguel Díaz-Canel, Raul Castro ha infatti già annunciato una decisione che porrà definitivamente fine alla Cuba castrista. In occasione del Congresso del Patrito Comunista Cubano, che si terrà tra il 16 e il 19 aprile, Il fratello di Fidel dirà addio alla scena politica dimettendosi da leader del partito e passando il testimone all’attuale presidente. Per la prima volta dalla sua creazione nel 1965, il Partito Comunista Cubano sarà guidato da qualcuno di esterno alla famiglia Castro ponendo fine ad un’era che durava dalla rivoluzione cubana. “Sarà il congresso della continuità, espressa attraverso il passaggio progressivo e ordinato delle principali responsabilità del Paese alle nuove generazioni” scrive il quotidiano ufficiale del partito Granma. Ma ciò che è certo è che, continuità o meno, sarà un momento storico per l’isola socialista che vedrà per la prima volta fuori dalla politica nazionale i principali fautori della rivoluzione che rese celebre Cuba.

Evento sportivo dell’anno: Olimpiadi Tokyo – Sarà l’anno buono? Non lo possiamo sapere ancora, ma tutto lascia presagire che i Giochi Olimpici andranno in scena regolarmente. Al di là delle competizioni sportive, quelle di Tokyo saranno Olimpiadi che rimarranno nella storia per diversi motivi. Un primo dato a renderle uniche sarà innanzitutto la data: pur continuando a chiamarsi Tokyo 2020, saranno i primi Giochi Olimpici della storia a svolgersi in un anno dispari. Se durante le guerre le olimpiadi vennero annullate a mai recuperate, è infatti la prima volta che la rassegna olimpica viene posticipata di un anno. Curioso che sia toccato proprio a Tokyo che già nel 1940 dovette rinunciare alle olimpiadi, già assegnate ed organizzate, a causa dello scoppio della guerra. Ma al di là delle date sarà un evento che rimarrà nella storia come il primo grande evento sportivo post pandemia, un segnale di ripresa e speranza per il mondo che dovrà essere completamente ripensato e riorganizzato per renderlo compatibile con l’emergenza sanitaria che, presumibilmente, non sarà ancora del tutto terminata.

Il 2021 sarà dunque un anno pieno di momenti chiave e ricorrenze. Sarà l’anno del 700° anniversario della morte di Dante e del 75° della nascita della Repubblica Italiana, sarà l’ultimo anno di Mattarella come Presidente della Repubblica e il primo di Joe Biden come Presidente degli Stati Uniti d’America. Insomma, sarà un anno pregno di eventi e di spunti che, speriamo, potrà farci dimenticare un 2020 monopolizzato dalla pandemia. Forse.

2020: l’anno che ha cambiato il mondo

“Rimaniamo distanti oggi per abbracciarci con più calore, per correre più veloci domani.
Tutti insieme ce la faremo.”
-Giuseppe Conte-


Sta per terminare il 2020. Un anno che molti vorranno dimenticare, cancellandolo dai propri ricordi per ricominciare a sperare nel futuro, ma che inevitabilmente resterà per sempre impresso in chi lo ha vissuto. Un anno che, a modo suo, rimarrà nella storia per quello che è successo. La pandemia, certo, ma non solo.

Gennaio – Già a gennaio, infatti, era chiaro che il 2020 non sarebbe stato un anno come tutti gli altri. All’1.00 del 3 gennaio quattro missili lanciati da un drone dell’esercito statunitense colpiscono un convoglio di auto all’aeroporto di Baghdad uccidendo dieci persone tra cui il vero obiettivo dell’attacco: il generale iraniano Quasem Soleimani. La morte del generale scatenò una serie di reazioni violentissime e l’Iran, dopo tre giorni di lutto cittadino con dieci milioni di persone in piazza a salutare “il martire Soleimani”, passò al contrattacco pochi giorni dopo colpendo con missili a lunga gittata due basi americane e ferendo un totale di 109 soldati statunitensi. Per giorni si temette per l’inizio di una nuova guerra ma, per fortuna, le scaramucce durarono poco.

Non sono durati poco invece gli incendi che per settimane hanno devastato l’Australia bruciando, a cavallo tra il 2019 e il 2020, sedici milioni di ettari e provocando la morte di 33 persone e oltre un miliardo di animali. Un evento che rappresenta uno dei disastri più grandi di sempre per l’ambiente e per l’ecosistema australiano che è però passato sottotraccia a causa degli eventi che vi si sono sovrapposti. Oltre al rischio di una terza guerra mondiale, paventata da media ed opinione pubblica dopo gli scontri tra USA ed Iran, l’ecatombe australiana viene oscurata da una notizia che arriva dalla Cina: il 23 gennaio, a seguito della diffusione incontrollata di un nuovo coronavirus, la città di Whuan e in seguito tutta la regione di Hubei vengono messe in quarantena. È l’inizio di un incubo che sarà mondiale come avvertì l’OMS che il 30 gennaio dichiara il nuovo virus “emergenza sanitaria pubblica di interesse internazionale”.

Febbraio – Nonostante gli avvertimenti, però il virus continua ad essere visto come un problema cinese e il mondo continua con la vita di sempre. Così, mentre negli USA il senato respinge l’impeachment del presidente Donald Trump, in Italia il Festival di Sanremo condotto da Amadeus viene vinto da Diodato con la canzone “Fai rumore”. E mentre l’Italia si preoccupa di cosa sia successo tra Bugo e Morgan, in Egitto il 7 febbraio viene arrestato lo studente dell’Università di Bologna Patrick Zaki, ancora detenuto senza nessuna accusa.

Ma la data che cambierà per sempre questo 2020, facendoci capire che il virus non era solo un problema cinese, è una: venerdì 21 febbraio 2020. All’ospedale di Codogno, in provincia di Lodi, si registra il primo caso di covid-19 in Italia.

Marzo-Aprile – è l’inizio del periodo più buio della recente storia dell’umanità. All’improvviso il mondo si scopre fragile. Nel nostro paese dopo una settimana in cui si assiste quasi impotenti all’aumento esponenziale dei casi si decide di chiudere tutto: è il 9 marzo 2020, è l’Italia entra nel primo lockdown della sua storia. Sono passati 70 giorni da quando il virus è stato annunciato dalla Cina. 1680 ore. Tanto ci ha messo ad essere individuato anche in Italia e far crollare il paese nella sua “ora più buia”. Una settimana dopo anche il resto del mondo avrebbe iniziato a chiudere. Mentre tornano le frontiere europee per la prima volta, il presidente Macron il 16 marzo parla alla nazione annunciando: “da oggi siamo in guerra”. Nel mondo sono però sempre più diffusi i leader politici che sostengono che la pandemia non esista e che sia solo un’influenza. Tra di loro c’è Boris Johnson, primo ministro della Gran Bretagna, che colpito da un karma immediato il 7 aprile si ritrova ricoverato in terapia intensiva dopo aver contratto il covid-19. Ne uscirà senza conseguenze.

Le immagini di quei mesi le abbiamo ancora davanti agli occhi: supermercati assaltati, strade deserte, medici ed infermieri esausti, gli obitori intasati, le terapie intensive al collasso. L’Italia aspetta le conferenze del sabato sera e quello con il premier Conte diventa un appuntamento quasi fisso per milioni di persone. Due istantanee però rimarranno per sempre nella storia, indelebili nella memoria di chi le ha vissute: una colonna di mezzi militari che porta via da Bergamo decine di bare e un Papa solo in una piazza deserta che prega per il mondo. Ma mentre tutto sembra crollare si inizia a diffondere una solidarietà senza precedenti con medici che partono volontari verso i paesi più colpiti, gente comune che si ritrova unita nella lotta ad un “nemico invisibile” cantando ed applaudendo dai balconi.

Maggio-Giugno – Dopo due mesi e mezzo di chiusure, Il nostro paese inizio una timida riapertura. Il premier Giuseppe Conte annuncia la possibilità dal 4 maggio di rivedere i propri “congiunti”, rendendola all’istante una delle parole più googlate dell’anno. È l’inizio della ripresa che sancisce la fine della fase più acuta. I contagi calano e la pressione sulle terapie intensive scende. L’Europa lentamente si risveglia da un incubo. Il 3 giugno nel nostro paese si respira una nuova normalità, con mascherine guanti e gel igienizzanti ma con la possibilità di nuovo di muoversi tra regioni e andare per negozi. Lo stesso accade gradualmente in tutto il mondo che superato il periodo spera, sbagliando, che sia già tutto finito.

Ma una nuova scossa alle coscienze arriva dagli USA. Il 25 maggio il giovane afroamericano George Floyd viene ucciso da un poliziotto a Minneapolis innescando proteste violentissime che si protrarranno per giorni. Il movimento “Black Lives Matter” attraversa tutto il pianeta e in ogni paese si organizzano manifestazioni contro il razzismo. Ma è negli stati Uniti che la situazione degenera: i manifestanti assaltano e bruciano stazioni di polizia e negozi arrivando persino davanti alla Casa Bianca da dove il presidente Trump è costretto a fuggire nonostante un muro di due metri eretto a protezione del presidente per l’occasione.

Luglio-Agosto – Assaporando la nuova libertà in Italia e nel resto del mondo le località turistiche tornano ad essere affollate. Come se non ci fosse alcun virus, senza distanziamento e spesso senza dispositivi di protezione, milioni di persone partono per le vacanze approfittando dell’allentamento delle misure di contenimento.

Mentre senza accorgersene il mondo soffiava sul fuoco della seconda ondata, una scintilla è sufficiente per distruggere una città. Il 4 agosto una violentissima esplosione al porto di Beirut distrugge un’area vastissima facendo crollare diversi edifici e causando oltre 200 morti, 7.000 feriti e decine di migliaia di sfollati. Morte e devastazione spingono il popolo libanese a tornare in piazza a manifestare contro la corruzione nel governo. In piazza scendono anche i bielorussi dopo l’ennesima elezione che ha visto il trionfo, viziato da brogli, del leader Lukashenko contro cui milioni di persone hanno deciso di manifestare in tutto il paese venendo represse duramente. Ma il mondo sembra troppo preso dalla partenza dello Space-X, lo shuttle di Elon Musk che riporta gli Stati Uniti nello spazio, per accorgersi dei problemi dei due stati.

Settembre-Ottobre – L’illusione di aver sconfitto il virus si infrange contro i numeri in rapida ascesa. Mentre scuole e uffici ripartono in presenza i contagi crescono e con loro i ricoveri e i decessi. Nel giro di poche settimane ci si rende conto di essere di fronte ad una seconda ondata. In tutta Europa ricominciano le chiusure, ma quel senso di solidarietà che aveva caratterizzato la prima lascia il posto alla rabbia e alla disperazione di qualcuno. Nascono in tutto il continente movimenti di protesta che mettono a ferro e fuoco le città per dimostrare la propria contrarietà alle nuove chiusure. Da Parigi a Berlino, passando per Napoli Milano e Roma dove le manifestazioni sono guidate dall’estrema destra e dai negazionisti, migliaia di persone scendono in piazza per diversi giorni nella loro personale guerra contro lo stato.

Meno personale è invece la guerra che scoppia nella regione caucasica del Nagorno Karabakh dove per settimane si affrontano forze armate armene e azere causando morti e sfollati anche tra i civili. Il tutto mentre il 2 ottobre, a un mese dalle elezioni presidenziali, Donald Trump annuncia la sua positività al covid-19.  Dopo aver criticato le mascherine, paragonando ripetutamente il virus all’influenza e continuato a tenere comizi elettorali viene trasportato in un’ospedale militare per precauzione. Ne uscirà pochi giorni dopo senza conseguenze.

Novembre-Dicembre – Il 3 novembre Joe Biden sconfigge un Donald Trump che non si rassegna e gridando a presunti brogli elettorali fa causa in diversi stati nel tentativo di ribaltare il risultato. Non sarà così. Tutti i tribunali a cui si rivolge respingono i suoi ricorsi e il 20 dicembre la vittoria di Biden viene certificata dai Grandi Elettori che lo incoronano nuovo Presidente degli Stati Uniti d’America. Lo sconfitto Trump, da sempre particolarmente permaloso, cerca di ostacolare in tutti i modi Biden per rendergli il lavoro più difficile e grazia a ripetizione i suoi alleati condannati in questi anni concedendo nelle ultime settimane decine di perdoni presidenziali a suoi fedelissimi.

Intanto l’anno scivola via. I contagi continuano a crescere e novembre vede chiusure diffuso in tutto il mondo con il nostro paese di nuovo in prima linea. Ma dalle aziende farmaceutiche arriva un segnale di speranza: il vaccino. Mai una piccola fiala ha tenuto così tanto il mondo sospeso. Il suo viaggio dal Belgio allo Spallanzani di Roma viene seguito in diretta da migliaia di italiani nel giorno di Natale. E oggi, con un’immagine che da speranza per un futuro senza mascherine e distanziamento, 9.750 dosi in tutta Italia vengono somministrate a medici e infermieri.

25 dicembre 1918: come la pandemia colpì il Natale

Nel gennaio 1918 iniziò a diffondersi nel mondo l’influenza spagnola che, in due anni, avrebbe provocato oltre 50 milioni di morti. Tra lockdown, mascherine e no-mask il Natale del 1918 sembra essere incredibilmente simile a quello che stiamo vivendo in questo 2020.

“Quest’anno mostrerete più amore per vostro padre e vostra madre, per vostro fratello, vostra sorella e il resto della famiglia rimanendo a casa anziché andandoli a visitare per Natale, o tenendo feste o riunioni familiari. Per una volta, queste feste possono essere rimandate.”. No, non si tratta di uno dei tanti appelli che in questi giorni si rincorrono in tutto il mondo per un Natale distanziato. Quello che vi abbiamo riportato è un estratto di un articolo apparso il 21 dicembre 1918 sull’Ohio State Journal con cui il Commissario alla Sanità invita i lettori a rinunciare ad alcune tradizioni natalizie per far fronte alla pandemia che quell’anno stava causando centinaia di migliaia di morti: la Spagnola.

Non è infatti la prima volta nella storia che il mondo si ritrova a dover affrontare una pandemia nel periodo delle festività natalizie. L’influenza spagnola fece la sua apparizione nel gennaio 1918 e negli ultimi mesi dello stesso anno, a partire da ottobre, raggiunse il suo picco causando quasi sei milioni di morti morti in tutto il mondo in soli tre mesi. Solo in Italia la spagnola causò 600.000 vittime, l’1,6% della popolazione totale dell’epoca. Distanziamento sociale e mascherine si iniziarono a diffondere già allora e nel tentativo di limitare la diffusione del virus vennero prese misure restrittive per le festività natalizie. Dopo la fine della Grande Guerra, terminata ufficialmente l’11 novembre 1918, la voglia di festeggiare riabbracciando i propri cari era alle stelle ma proprio il ritorno dei soldati dal fronte fu uno dei principali veicoli di diffusione dell’influenza che si diffuse in modo incontrollato. Iniziarono dunque gli appelli a non organizzare feste e riunioni familiari e addirittura a rinunciare alla tradizione del bacio sotto il vischio limitandoli a quelli tra marito e moglie. E ci fu anche il primo tentativo di ridurre gli assembramenti e chiudere le attività in quello che fu una sorta di primo lockdown della storia: negli USA a partire dal 3 ottobre, molti stati chiusero scuole, chiese, teatri e luoghi di ritrovo pubblici.

Oltre alle restrizioni, però, un altro elemento sembra accomunare il Natale 2020 a quello di oltre un secolo fa. Nei tre mesi più duri della pandemia (ottobre – dicembre) iniziò a diffondersi in molti stati l’obbligo di indossare una mascherina e, insieme ad esso, presero piede anche i primi no-mask. In molti, infatti, si rifiutarono di indossare quella particolare protezione fatta da diversi strati di garza legati insieme e fatti bollire per sterilizzarli. In una situazione che sembra quanto mai attuale c’era chi adduceva motivazioni religiosi sostenendo che fosse vietato dal proprio credo, chi si lamentava della scomodità e chi denunciava l’obbligo di mascherina come una violazione dei propri diritti. A San Francisco addirittura nacque la “lega anti mascherine” formata da cittadini comuni, medici, politici e liberali alla cui prima riunione presero parte quasi 5.000 persone che protestarono contro l’introduzione dell’obbligo da parte del sindaco della città che fu costretto a fare marcia indietro nel febbraio 1919.

Al di là delle proteste, sporadiche, di chi si rifiutava di rispettare gli obblighi imposti dai governi e dai sindaci la curva epidemiologica dell’influenza spagnola mostra come i contagi siano calati drasticamente dopo le limitazioni della fine del 1918. Pur continuando la sua diffusione in tutto il mondo, con la fine ufficiale della pandemia nel 1920 dopo 50.000.000 di morti, già nei primi mesi del 1919 ci fu un brusco calo dei contagi. Le misure funzionarono e qualche sacrificio in più durante il periodo natalizio, nonostante la voglia di festeggiare il rientro delle proprie truppe, contribuì in maniera significativa a contenere i contagi.

Tra reazione allergiche e dosi in eccesso: guida rapida al vaccino

“Sono morti più 260 mila americani e mi rivolgo alle famiglie che hanno perso i loro cari.
So che cosa significa ritrovarsi a tavola con una sedia vuota, specie in giorni come questi.”
-Joe Biden-


Pronti, via. Dopo l’annuncio dell’agenzia europea del farmaco di voler anticipare dal 29 al 21 la riunione per la valutazione e l’approvazione del vaccino Pfizer-Biontech in tutta Europa ci si prepara a vaccinazioni su larga scala come già sta accadendo da una settimana circa nel Regno Unito e negli Stati Uniti. In Italia si dovrebbe partire tra una settimana esatta con le prime 9750 dosi di vaccino che verranno somministrate in tutta in tutte le regioni italiane: ad avere il maggior numero di dosi per la prima somministrazione simbolica sarà la Lombardia, con 1.620 dosi, seguita dall’Emilia Romagna (975), dal Lazio (955), dal Piemonte (910) e dal Veneto (875). Le regioni che riceveranno meno dosi sono la Valle d’Aosta (20), il Molise (50) e l’Umbria (85). In questi giorni, però, le campagne lanciate in Gran Bretagna e USA sono tenute in osservazione da tutto il mondo che studia i modelli applicati e i problemi rilevati.

Dosi – La prima, buona, notizia arriva dagli Stati Uniti dove le dosi dei vaccini sarebbero più di quanto era stato ipotizzato. Se inizialmente si pensava che ogni fiala di vaccino contenesse cinque dosi, ora gli operatori sanitari impegnati nella campagna statunitense stanno sottolineando come in ogni fiala vi siano fino a due dosi in più rispetto a quanto dichiarato. Se in condizioni normali le dosi in eccesso verrebbero scartate, in una situazione critica come quella attuale la FDA ha autorizzato l’utilizzo di tutte le dosi presenti nelle fiale in possesso degli operatori portando ad un aumento del 40% dei vaccini a disposizione. L’unico paletto messo dall’FDA è il divieto assoluto di miscelare dosi di fiale diverse, qualora infatti in una fiala dovesse rimanere meno di una dose intera sarà vietato prelevarne parte da una fiala diversa per evitare contaminazioni potenzialmente pericolose.

A mettere le mani avanti in questo caso è stata la stessa casa produttrice dell’unico vaccino attualmente somministrabile, la Pfizer, che ha sottolineato come non sia automatica la presenza di sette dosi per ogni fiala. “La quantità di vaccino rimanente nella fiala multidose dopo la rimozione di cinque dosi” ha fatto sapere in un comunicato “può variare, a seconda del tipo di aghi e siringhe utilizzati”. L’importante, insomma, sarà somministrare sempre la giusta dose senza sforzarsi per far uscire da ogni fiala sette dosi. Il consiglio, infatti, è quello di verificare sempre al termine delle cinque dosi ufficiali se vi sia sufficiente materiale per ricavarne un’altra o più.

Reazioni – Sotto i riflettori negli ultimi giorni sono però finite anche le reazioni che hanno avuto alcuni dei primi pazienti sottoposti a vaccino. Preoccupante ed ampiamente ripreso in tutto il mondo è stato il caso di un’operatrice sanitaria del Bartlett Regional Hospital di Juneau, nell’Alaska meridionale. Una decina di minuti dopo la somministrazione del vaccino la donna, che non presentava altre patologie ne allergie pregresse, ha iniziato ad accusare una reazione anafilattica con fiato corto e l’aumento della frequenza cardiaca. L’intervento dei medici che le hanno somministrato adrenalina ha calmato la reazione che però si è ripresentata nel giro di poche ore costringendo i medici a somministrarle steroidi ed altra adrenalina e a trasferita per precauzione in terapia intensiva. Il giorno seguente la reazione era terminata del tutto e dopo un paio di giorni di osservazione è stata dimessa. Una reazione che ha alimentato il dibattito pubblico portando ad una nuova ondata di esternazioni da parte dei movimenti “no vax” che hanno immediatamente strumentalizzato il caso per rilanciare la tesi di un vaccino insicuro e pericoloso.

In realtà quello che è successo in Alaska è un caso particolarmente isolato. Non si segnalano, infatti, altri casi di reazioni così gravi da richiedere un ricovero mentre le reazioni allergiche gravi si sono registrati solo in pochissimi casi. Nel Regno Unito solo due operatori sanitari hanno sviluppato reazioni gravi ma in entrambi i casi, come ha sottolineato l’NHS, si trattava di persone che già in passato avevano avuto reazioni simili a precedenti vaccini o farmaci. Negli USA, dove le autorità stanno monitorando da vicino la situazione catalogando i casi di reazioni per programmare il prosieguo della campagna vaccinale, si sono registrati sei casi di reazioni gravi su 272.000 dosi somministrate ai pazienti. Circa un migliaio invece sarebbero i pazienti che hanno manifestato reazioni di media entità entro la finestra di osservazione mentre sintomi lievi (febbre, mal di testa e brividi) sono frequenti nelle prime 24 ore ma una volta manifestati si esauriscono nel giro di poche ore.  Pur restando la raccomandazione, come d’altronde per ogni tipo di farmaco, di evitare la somministrazione a persone che già in passato abbiano manifestato reazioni allergiche, il vaccino Pfizer sembra essere ad oggi abbastanza stabile e con effetti collaterali limitati tanto da spingere i paesi che hanno già lanciato le proprie campagne vaccinali a non modificarle.

Test – Come dimostrano i documenti, pubblici e consultabili sul sito della Food and Drug Administration (FDA), il vaccino è stato testato seguendo tutti i protocolli previsti dalle autorità sanitarie. La fase di sperimentazione è durata mesi ed ha coinvolto 44 mila volontari che si sono sottoposti a test clinici e vaccinazioni negli scorsi mesi per permettere un perfezionamento delle dosi da somministrare su larga scala. Le centinaia di pagine di documentazione fornite dalla Pfizer-BioNTech presentano i risultati dei tre test clinici che hanno portato all’appprovazione definitiva di un vaccino che presenta un’efficacia del 95% in seguito alla seconda somministrazione che deve essere fatta entro 3-4 settimane dalla prima. L’efficacia del vaccino risulta buona già dopo la prima dose (52%) mentre è definita molto buona ed al di sopra delle aspettative al termine del ciclo di due dosi. Particolarmente rilevante è poi il dato relativo all’efficacia nelle varie fasce: dai test risulta infatti che il livello di efficacia si è mantenuto alto a prescindere dal genere, dall’età, dalla provenienza geografica e dalla presenza di problemi di salute nei volontari.

I documenti forniti all’agenzia da Pfizer-BioNTech indicano che diversi volontari hanno segnalato qualche segno di malessere temporaneo nelle ore dopo la somministrazione della seconda dose. Nella fascia tra i 16 e i 55 anni, più della metà ha indicato una sensazione di affaticamento e mal di testa; un terzo ha segnalato di avere i brividi e il 37 per cento di avere dolori muscolari. Tra gli over 55, circa la metà ha detto di avvertire un certo affaticamento, un terzo mal di testa e/o dolori muscolari e un quarto i brividi. Gli effetti avversi sono stati temporanei e si sono risolti nella maggior parte dei casi a un giorno di distanza dal ricevimento della seconda dose. Altri vaccini impiegati da tempo contro diverse malattie causano effetti transitori di questo tipo, e non costituiscono quindi una preoccupazione per quanto riguarda il nuovo vaccino. Alcuni medici ritengono che alla somministrazione della seconda dose potrebbe essere associato un giorno di malattia per i lavoratori, in modo da ridurre i rischi e incentivare il completamento della vaccinazione.

I dati sperimentali e le campagne di vaccinazione già avviate con il vaccino Pfizer sembrano dunque smentire, o quantomeno ridimensionare, le tesi di no mask, no vax e gilet arancioni. Ma mentre i vari soggetti anti “dittatura sanitaria”, da qualche giorno confluiti insieme all’estrema destra di Forza Nuova nel nuovo partito Italia Libera, continuano a gridare alla pericolosità dei vaccini l’Italia si prepara a somministrare le prime dosi. Chissà se anche loro ne vorranno una.

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