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Emergenza carcere: mai così tanti suicidi tra i detenuti come in questo 2022

Nei primi otto mesi di questo 2022 si registra un aumento esponenziale nel numero dei suicidi all’interno del carcere. Se è vero che ogni detenuto ha una storia a sé e difficoltà che vanno al di la della carcerazione, è anche vero che il sistema penitenziario non protegge da gesti estremi.

È uno stillicidio senza fine. L’ultimo caso è stato segnalato il 1° settembre a Bologna dove un detenuto cinquantatreenne di origine slava, con problemi psichiatrici, si è tolto la vita impiccandosi con i pantaloni della tuta. Si tratta del 59° suicidio di questo drammatico 2022 che sta facendo segnare numeri record per quanto riguarda i suicidi nelle carceri italiane con una media di circa una vittima ogni quattro giorni con un picco preoccupante nel mese di agosto con 15 suicidi in un mese. Sono numeri che lasciano sbigottiti e che confermano come nel nostro paese ci sia un problema serio con il sistema penitenziario.

Basta infatti confrontare i dati di questi primi otto mesi con quelli relativi agli ultimi anni per rendersi conto di quanto la situazione sia drammatica. A due terzi dell’anno in corso è già stato superato il totale dei casi del 2021, pari a 57 decessi, e siamo ben oltre i 45 suicidi nei primi otto mesi del 2010 che fino ad oggi erano il dato più alto di sempre. Delle 59 persone che si sono tolte la vita in carcere nei primi 8 mesi di quest’anno, 4 erano donne: un numero particolarmente alto se consideriamo che la percentuale della popolazione detenuta femminile rappresenta solo il 4,2% del totale. Ancora più impressionante se paragonato agli anni passati. Secondo i dati pubblicati dal Garante Nazionale, sia nel 2021 che nel 2020 soltanto una donna si era tolta la vita in carcere. Nel 2019 non si era verificato invece nessun caso di suicidio femminile. È chiaro che ogni vittima ha una storia a sé, fatta di disagi e sofferenze personali non per forza di cose legate alla detenzione, ma con numeri così alti non è possibile non guardarli con un’ottica di insieme prendendoli come indicatori della presenza di problemi strutturali nel sistema penitenziario italiano.

Ma quali sono questi problemi? Quando si parla di carcere la prima, e più evidente, problematica è senza dubbio quella relativa al sovraffollamento degli istituti italiani che inevitabilmente influisce sul tasso di suicidi. Non è un caso se il penitenziario dove si sono registrati il maggior numero di decessi, con quattro detenuti che si sono tolti la vita da inizio anno, sia quello di Foggia dove da anni si assiste ad una situazione divenuta ormai insostenibile con una capienza superata del 150%. A ciò si aggiungono le difficoltà nella gestione di detenuti affetti da problemi psichiatrici che, a causa delle carenze strutturali nel personale delle carceri italiane, spesso non vengono seguiti adeguatamente. Non è un caso, infatti, che molti dei detenuti suicidatisi in questi primi otto mesi di 2022 fossero affetti da disturbi di questo tipo. Allo stato attuale i pazienti psichiatrici detenuti vengono trattati nei reparti di osservazione psichiatrica e riportati in cella solo quando vengono ritenuti idonei ed innocui per sé e per gli altri. Sempre più spesso, però, questo protocollo non può essere seguito a causa del sovraffollamento e delle carenze di personale che rendono di fatto impossibile un trattamento adeguato e costringono a ricorrere solamente a cure farmacologiche che non risolvono il problema ma che puntano a tamponarlo. In queste condizioni sempre più spesso le patologie psichiatriche invece di migliorare vanno peggiorando portando spesso il detenuto a vivere una condizione insopportabile fino a ricorrere a soluzioni estreme. 

Ma oltre alle condizioni all’interno del carcere sembra emergere sempre più un disagio legato al mondo esterno. Molti dei detenuti che si sono tolti la vita, tra cui l’ultimo caso al carcere Dozza di Bologna, erano ormai vicini alla propria scarcerazione. Ma proprio quella che dovrebbe essere una notizia positiva viene sempre più spesso accolta con poco entusiasmo da chi è recluso da lungo tempo all’interno di un carcere. Troppo spesso si instaura nei detenuti quella sensazione di essere precipitato in un ‘altrove’ esistenziale, in un mondo separato, totalmente ininfluente o duramente stigmatizzato anche nel linguaggio dei media e talvolta anche delle istituzioni in un mondo in cui sempre più spesso si ignora la funzione rieducativa che ha, o dovrebbe avere, il carcere. Uno stigma che rischia di condizionare le vite di chi esce dal carcere più che teme di essere per sempre bollato come “ex detenuto” e di non poter per questo più condurre una vita normale. Così il sentimento più forte che prova chi inizia una nuova vita dopo un’esperienza di carcere non è tanto la felicità della condizione di uomo libero, quanto piuttosto l’ansia, uno stato di ansia continuo, la paura di non farcela, la fretta di recuperare quello che si è perso, le difficoltà a ritrovare un ruolo all’Interno della propria famiglia. L’esterno, alla fine della detenzione, inizia a far più paura dell’interno e l’idea di uscire dalla cella in cui si è stati reclusi per periodi più o meno lunghi diventa più opprimente che quella di rimanere in carcere. E se da un lato i permessi, le misure alternative, i percorsi di reinserimento sono fondamentali per un reinserimento graduale che permetta al detenuto di riabituarsi alla vita in un mondo sicuramente profondamente diverso da come lo aveva lasciato, dall’altro è necessario un cambio culturale e di mentalità che porti a non vedere più chi esce dal carcere come un soggetto da emarginare. 

È chiaro, dunque, che i problemi del sistema penitenziario italiano siano gravi e debbano essere affrontati con un dibattito serio sulla questione perché non è pensabile che in un paese civile 59 ogni quattro giorni un detenuto si tolga la vita. Uno Stato che nel punire non impedisce la morte del condannato perde infatti parte delle funzioni che ne giustificano la potestà punitiva confermando come sia assai lontano l’ideale della pena immateriale che agisce sullo spirito, così come teorizzata dai filosofi illuministi.

Cos’è la sentenza “Roe v. Wade” e perché il diritto all’aborto negli USA è in pericolo

Secondo quanto riportato dal quotidiano “Politico”, la Corte Suprema potrebbe ribaltare la sentenza “Roe v. Wade” su cui si basa il diritto all’aborto riportando gli USA indietro di cinquant’anni in materia di interruzione di gravidanza. 

L’indiscrezione che arriva dal quotidiano “Politico” è di quelle che lasciano senza parole: La Corte Suprema degli Stati Uniti si prepara a ribaltare la storica sentenza “Roe vs. Wade” del 1973 con la quale si è di fatto legalizzato l’aborto in gra parte degli stati americani. Stando a quanto riportato dal quotidiano, che cita fonti interne alla Corte, la maggioranza dei giudici che compongono la corte sarebbero pronti ad approvare una decisione presentata da Samuel Aito il 10 febbraio con l’obiettivo di ribaltare la storica sentenza. Qualora la decisione venisse approvata così com’è stata diffusa da Politico, essa rappresenterebbe la fine del diritto d’aborto negli Stati Uniti e spingerebbe verso legislazioni più severe su questo tema eliminando di fatto gli effetti della storica sentenza e riportando la situazione a com’era fino al 1973.

Prima della sentenza “Roe vs. Wade”, infatti, l’aborto negli Stati Uniti era disciplinato in modo autonomo da ciascuno stato con leggi nazionali senza che vi fossero indicazioni a livello federale. La conseguenza era che in oltre la metà degli stati, prevalentemente a guida repubblicana, l’aborto era considerato totalmente illegale, in altri tredici stati era consentito solo in caso di stupro, incesto, malformazioni fetali o in caso di pericolo per la madre mentre solo in quattro stati era considerato legale. In questo contesto si colloca la storia di Jane Roe,pseudonimo di Norma Leah McCorvey scelto per tutelarne la privacy. Dopo la separazione dei suoi genitori, Norma abbandonò la scuola e si sposò a 16 anni con un uomo violento da cui venne più volte maltrattata. Mentre era incinta del terzo figlio, a soli 18 anni, decise di fare causa all’uomo per interrompere la gravidanza. Così, con il supporto tra le altre delle avvocatesse Sarah Weddington, Linda Coffee e Gloria Allred, decise di avviare un processo davanti alla Corte Distrettuale contro le leggi anti-aborto del Texas. La sua richiesta venne accolta sulla base di un’interpretazione dell’Emendamento IX della Costituzione americana che recita: “L’interpretazione di alcuni diritti previsti dalla Costituzione non potrà avvenire in modo tale da negare o disconoscere altri diritti goduti dai cittadini”. Il rappresentante legale dello Stato del Texas, l’avvocato Henry Menasco Wade, decise di appellarsi alla Corte Suprema. Il suo nome, assieme allo pseudonimo della querelante, ha dato il nome al processo che divenne così il caso “Roe vs. Wade”. Il 22 gennaio 1973, la Corte Suprema riconobbe così il diritto della donna ad interrompere la gravidanza anche in assenza di malformazioni fetali o pericoli per la sua salute riconoscendo l’aborto come un vero e proprio diritto e facendolo così entrare per la prima volta nella legislazione federale.

Se la Corte Suprema oggi decidesse di ribaltare quella sentenza, stabilendo dunque che il diritto all’aborto non è più riconosciuto a livello federale, la palla passerebbe nuovamente agli stati che potrebbero così decidere in autonomia come legiferare sul tema. Se ciò dovesse accadere in tutti gli stati, in assenza di nuove norme sul tema, tornerebbe in vigore la legislazione precedente alla sentenza “Roe vs. Wade”. Sarebbe dunque necessario rivedere la legislazione di ogni stato per garantire il diritto all’aborto, un tema su cui, però, i Repubblicani non intendono fare passi indietro e sembrano intenzionati a mantenere in essere i divieti negli stati che governano. Si tratterebbe, in questo caso, del cupo culmine di una campagna sempre più conservatrice attuata dai Repubblicani e dalle varie organizzazioni anti-aborto che negli ultimi anni hanno più volte tentato invano di rovesciare la sentenza per impedire l’interruzione di gravidanza. Il tutto mentre gli sforzi dei Democratici per codificare la decisione, inserendola definitivamente in una legge federale e non solo in una sentenza della corte, sono sempre naufragati vista l’impossibilità di trovare voti a favore dell’aborto tra i Repubblicani al Senato. Una mano alle donne americane, intanto, è già stata tesa dal Canada con Karina Gould, ministro per la famiglia canadese, che ha sottolineato come “se le donne americane volessero abortire, qui troverebbero certamente accoglienza”.

Politici corrotti, ‘ndrangheta e Vaticano: i clienti segreti (e protetti) di Credit Suisse

Politici corrotti, narcotrafficanti e trafficanti di uomini, l’Obolo del papa destinato alle opere pie accanto a medi e grandi evasori italiani e delinquenti, anche in odore di ‘ndrangheta. Sono solo alcuni dei personaggi che hanno conti nel secondo istituto bancario svizzero.

Il sistema bancario svizzero torna a tremare. Nel mirino è finito il colosso “Credit Suisse”, secondo istituto bancario del paese coinvolto in una inchiesta giornalistica dell’Organized Crime and Corruption Reporting Project, consorzio di 47 testate internazionali che collaborano alla realizzazione di inchieste e reportage, che ha portato alla luce l’opacità della banca. Il lavoro di inchiesta, durato oltre un anno e nato da una segnalazione anonima, ha riguardato 18.000 conti correnti riconducibili a circa 30.000 correntisti per un patrimonio totale di 88 miliardi di euro. 

Quanto emerge dall’inchiesta è sostanzialmente la totale opacità dell’istituto svizzero che, nonostante vent’anni di proclami sulla trasparenza, continua ad ospitare conti di soggetti non propriamente immacolati. E non solo. Proprio a quei correntisti, con conti milionari, l’istituto avrebbe garantito privilegi speciali permettendogli di godere di regole diverse da quelle previste per tutti gli altri. L’inchiesta rivela dunque un secondo aspetto inquietante: nonostante il segreto bancario sia formalmente archiviato, la “cultura della segretezza” e la legge bancaria svizzera difendono ancora i patrimoni di chi possiede un conto sostanzioso presso una banca svizzera. E tra chi possiede un conto alla Credite Suisse, a quanto emerge dall’inchiesta, emergono figure di una certa caratura criminale: dal generale algerino che ha guidato le torture durante la guerra civile all’imprenditore dello Zimbabwe noto come “il Napoleone d’Africa” accusato di sottrazione di fondi pubblici, corruzione, evasione e finanziamento del conflitto in Repubblica Democratica del Congo. Da Pavlo Lazarenko, ex premier ucraino condannato per riciclaggio negli Stati Uniti, a Honsi Mubarak figlio del dittatore egiziano. Ma nell’elenco dei soggetti te non mancano i correntisti italiani. Sarebbero 700 gli italiani con conti alla Credit Suisse. Non tutti criminali, ovviamente, ma tra di loro molti avrebbero goduto del trattamento di favore riservato ai migliori clienti dell’isituto.  

Tra i nomi italiani presente in questo gruppo “La Stampa”, parte dell’OCCRP, cita l’imprenditore Mario Merello, residente in Venezuela e marito della cantante Marcella Bella. Secondo la procura di Milano Merello era a capo di un’organizzazione a delinquere che avrebbe frodato al fisco italiano circa 450 milioni di euro. Presso Credit Suisse Merello deteneva 13 conti, oggi chiusi. Tra i clienti del gruppo svizzero anche Antonio Velardo a cui si sono interessate almeno due procure per i possibili legami tra le sue attività e i soldi delle Ndrine della costa jonica calabrese. Nella lista dei clienti privilegiati compare poi l’Obolo di San Pietro, dove finiscono le donazioni raccolte dal Vaticano. Tramite questo conto sono state gestite le operazioni che hanno portato all’acquisto dell’immobile londinese in Sloane Avenue oggi al centro di un procedimento nei confronti del cardinale Angelo Becciu.

Non si tratta del primo scandalo che coinvolge Credit Suisse, già travolta in passato da polemiche per la presenza di conti correnti collegati a criminali. Si tratta però di un’inchiesta che porta alla luce un sistema distorto che, nonostante proclami in senso opposto, continua ad esistere rendendo la Svizzera un paradiso bancario per medi e grandi evasori. Come sottolineato da “IrpiMedia” questa inchiesta rivela almeno due aspetti inquietanti: da un lato, nonostante il segreto bancario non sia più un dogma indiscusso, la cultura e la legge bancaria svizzera difendono ancora i patrimoni nascosti in quel paese, dall’altro i clienti più a rischio, lungi dall’essere analizzati più a fondo, beneficiano di un’attenzione particolare e i loro conti sono gestiti esclusivamente da un’elite all’interno della banca stessa.

Stai andando bene Giovanni. Ode a Truppi e al suo Sanremo

Nel Festival degli eccessi dominato da look estremi, “Papalina” e “Fantasanremo”, c’è un artista che ha portato sul palco nient’altro che se stesso. Giovanni Truppi e la sua musica troppo spesso non sono stati capiti ma hanno regalato emozioni.

“Stai andando bene Giovanni, dai che ce la puoi fare” canta Truppi in uno dei suoi brani. Stai andando bene Giovanni. Ed è proprio così. Giovanni Truppi ha portato sé stesso sul palco dell’Ariston contro tutto e contro tutti. Contro le critiche del web che per una settimana ha sottolineato quella sua timidezza, quel suo modo di vestire così lontano dai canoni di un Festival in cui gli eccessi sono diventati la regola. Contro un Amadeus che nella serata finale ha provato in ogni modo, senza riuscirci, a farlo uscire da quei binari rincarando la dose su un look sempre uguale a sé stesso ma unico e potente come mai. Perché quello è Giovanni Truppi. Ed è stato proprio lui a spiegarlo a tutti una volta per tutte: “Io mi esibisco con la canotta da quando sono ragazzo, e perché cambiare adesso”. Come a dire “io sono questo, e su questo palco voglio portare me stesso”. E su quel palco, Giovanni, ha portato sé stesso per davvero.

Nato a Napoli nel 1981, a sette anni inizia suonare muovendo i primi passi in un mondo che non lascerà mai diventando con il tempo polistrumentista, cantante ed autore. Ad oggi Giovanni Truppi è uno degli artisti più completi del panorama italiano, con le radici ben salde nella tradizione del cantautorato italiano degli anni ’70. Da De Andrè, non a caso portato sul palco dell’Ariston nella serata delle cover, a Conte e Battiato. La musica di Truppi rimanda a tempi lontani con testi profondi che alternano il cantato al parlato con un’armonia antica che sa di tradizione. A 40 anni ha già all’attivo cinque album, uno più bello dell’atro, di ispirazione romantica, personale. Intima. Con una qualità sopraffina e melodie da club Tenco Giovanni Truppi descrive il suo mondo a modo suo. Un modo quasi fatato che accompagna chi lo ascolta a scoprirne gli angoli più profondi e ad accarezzare sensazioni uniche. Quello di Truppi è un cantautorato così lontano da derive moderne da essere senza tempo. E per questo, forse, non capito.

Non capito da quel pubblico che per giorni ha criticato una canottiera senza, troppo spesso, capire la profondità di un testo che fa emozionare. Una canzone d’amore sincera e ricca di chiaroscuri, scritta con Niccolò Contessa de I Cani, Pacifico, Marco Buccelli e Giovanni Pallotti. Una canzone che parla di lui, della sua vita. Una dichiarazione d’amore unica e profonda alla moglie e alla figlia Lucia. Perché è da li che devono nascere le canzoni, dall’esperienza di ciascuno. E lo ha spiegato benissimo lo stesso Truppi in un’intervista a Fanpage: “La vedo come una canzone in connessione con le cose che ho scritto e sicuramente è legata all’avanzamento della mia età, ma in senso buono, faccio esperienze e mi incuriosiscono cose diverse e nuove.” E dalla sua esperienza Giovanni ha pescato sempre, anche in una serata cover in cui coraggiosamente ha deciso di portare sul palco uno dei brani più belli di Fabrizio de Andrè. Con un gigante della musica come Vinicio Capossela al suo fianco, Truppi è rimasto sé stesso. Con una canotta rossa il un cuore anarchico di Goliardo Fiaschi puntato sul petto ha reinterpretato in maniera sublime il testo di Faber.

Nell’era degli influencer lo spazio per un artista come Truppi, insomma, sembra risicato. E lo dimostra una classifica ingrata al termine del’ultima serata. Ma la sua musica rimane uno dei gioielli più preziosi di questa edizione del Festival. Per cui non ti preoccupare: “Stai andando bene, Giovanni”.

La morte della piccola Ginevra per covid racconta l’inadeguatezza della sanità calabrese

È morta a due anni con il covid e non, o almeno non soltanto, per il covid. Perché la storia di Ginevra Soressa, la bimba calabrese morta ieri all’ospedale Bambin Gesù di Roma, racconta dell’inadeguatezza delle strutture ospedaliere calabresi dove ancora non esiste un reparto pediatrico.

Partiamo dai fatti. Venerdì mattina Ginevra ha iniziato a sentirsi male costringendo i genitori a portarla il più in fretta possibile all’ospedale più vicino: quello di Crotone, a 50 km da Mesoraca. Un’ora di macchina. È questo il primo, lungo viaggio a cui è stata sottoposta la bambina le cui condizioni, nel frattempo, erano in rapido peggioramento. Al San Giovanni di Crotone è arrivata già in condizioni gravi con febbre alta, tosse e problemi respiratori costringendo i medici ad un ricovero immediato in attesa dell’esito del tampone che ha confermato la positività della piccola. Ma la struttura di Crotone non è attrezzata per la cura di casi del genere e così, dopo una notte al San Giovanni in cui le condizioni sono precipitate con l’acuirsi di una polmonite interstiziale bilaterale e una saturazione ormai oltre la soglia critica, si è reso necessario un nuovo trasferimento. Una corsa in ambulanza di 70 km verso l’ospedale Pugliese Ciacco di Catanzaro dove è stata immediatamente sottoposta a ventilazione assistita e ricoverata nel reparto di rianimazione. Ma, anche in questo caso, il nosocomio era impreparato ad un caso come il suo. Perché a Catanzaro, come a Crotone, come in tutto il resto della regione non esiste un reparto di terapia intensiva pediatrica. Esistono reparti di rianimazione neonatale, certo, ma funzionano per i neonati che hanno al massimo una quarantina di giorni di vita. Per chi li ha superati non esistono in tutta la Calabria reparti appositi e figure specializzate. E così, mentre le condizioni di Ginevra si fanno disperate, deve intervenire la Prefettura che dispone il trasferimento immediato al Bambin Gesù di Roma su un volo dell’Aeronautica Militare. Trasferimento inutile perché, a causa delle cure inadeguate e dei ritardi dei giorni precedenti, Ginevra è arrivata a Roma in condizioni disperate ed è deceduta nel giro di poche ore.

La tragica storia di Ginevra riapre la ferita profonda dell’assenza di un piano organico per la gestione dell’emergenza urgenza in età pediatrica e, soprattutto, della mancata attivazione di un’unità operativa complessa di Terapia Intensiva pediatrica regionale. I bambini calabresi, insomma, vengono ad oggi trattati impropriamente nei reparti di terapia intensiva per adulti. Ma il bambino, si sa, è un paziente delicato e con esigenze completamente diverse da quelle di un adulto che richiedono la presenza di macchinari appositi e personale specializzato. Due cose che, in Calabria non ci sono. Una mancanza che di fatto lascia aperte due vie: una cura impropria in reparti per adulti o il trasferimento fuori regione che comporta, come nel caso della piccola Ginevra ritardi che possono avere conseguenze devastanti sul paziente. La presenza di un reparto di terapia intensiva pediatrica in Calabria avrebbe, forse, potuto salvare la vita alla piccola Ginevra che è invece stata vittima di continui trasferimenti che hanno comportato una risposta tardiva all’acuirsi dei suoi sintomi. 

Una mancanza ancor più grave alla luce del fatto che nell’accordo Stato-Regioni del 21 dicembre 2017 era stata disposta l’attivazione in Calabria di di una Unità operativa di Terapia intensiva Pediatrica ad alta specialità con quattro posti letto. Una disposizione recepita nel Decreto commissariale 89/2107 firmato da Massimo Scura che ne autorizzava l’attivazione. Quel decreto, però, è rimasto soltanto sulla carta e in una regione in cui la sanità resta un buco nero nonostante il commissariamento. Ginevra è morta, anche, per colpa della sanità calabrese. Ginevra è morta. Ma ci auguriamo che la sua storia possa risvegliare le coscienze e smuovere finalmente i vertici della sanità calabrese. Perché in Calabria non si debba più morire di sanità.   

La Cannabis Light diventa illegale? Facciamo il punto.

“La cannabis light diventa illegale”. Una notizia che da giorni rimbalza sui social e sui quotidiani italiani a seguito di un decreto interministeriale approvato mercoledì. Ma cosa dice realmente il decreto? E cosa può succedere adesso?

Nel corso della seduta di mercoledì della conferenza Stato-Regioni si è raggiunta un’intesa per la realizzazione di un decreto interministeriale che possa ridefinire “l’elenco delle specie di piante officinali coltivate nonché criteri di raccolta e prima trasformazione delle specie di piante officinali spontanee”. Il decreto coinvolge i ministeri della Salute dell’Agricoltura e della Transizione ecologica ed è finito al centro delle polemiche perché rischierebbe, di fatto, di cancellare l’intero settore basato sulla produzione ed il commercio della cosiddetta “cannabis light”, ossia quella con un livello di THC inferiore allo 0,6% la cui filiera è stata regolamentata nel 2016. Ad allertare l’intero settore è in particolare il punto 4 del decreto, in cui si fa sottostare “la coltivazione delle piante di cannabis ai fini della produzione di foglie e infiorescenze o di sostanze attive a uso medicinale” al Testo unico sugli stupefacenti, a prescindere che vi siano o meno sostanze psicoattive al di sopra dei limiti della legge sulla filiera agroindustriale della canapa del 2016. Il che, tradotto, significa equiparare la cannabis light a quella con un livello di THC superiore alla soglia consentita rendendo di fatto illecita la produzione e il commercio di entrambe. 

Oltre alle ricadute sui consumatori, il decreto in questione metterebbe a rischio un settore economico che negli ultimi anni ha avuto una crescita esponenziale grazie alla liberalizzazione del 2016. Ad oggi il comparto della cannabis light conta solo in Italia circa 3.000 aziende per un totale di oltre 15.000 dipendenti, per lo più giovani, e rischia ora di sparire a causa di un’inversione di marcia improvvisa ed inaspettata. In virtù di questa nuova norma, infatti, dalla data di efficacia del decreto, tutti i coltivatori e i rivenditori di infiorescenze di ‘cannabis light’ sarebbero passibili delle sanzioni derivanti dall’apparato penale del DPR 309/90 che ne vieta la coltivazione senza un’autorizzazione da parte del Ministero della Salute. “Ci hanno resi illegali” il commento a caldo di Luca Fiorentino, 26 anni e fondatore di una delle principali imprese che produce e distribuisce cannabis light. “Rischiamo di essere considerati spacciatori e di chiudere tutto. Rischiamo persino l’arresto immediato oltre all’accusa pesantissima di vendere grandi quantitativi di stupefacente che stupefacente non è”.

Ma è davvero tutto finito? Il decreto pone fine realmente al commercio di cannabis light? Sembrerebbe, in realtà, di no. A spiegare il provvedimento, e provare a far chiarezza sulla situazione attulae, ci ha provato l’avvocato Carlo Alberto Zaina in un lungo post in cui si è dimostrato particolarmente scettico sul provvedimento. In primo luogo, infatti, nel testo si usa in modo generico il termine “piante di cannabis” senza menzionare in modo specifico le piante di canapa sativa.

È  ben vero” spiega Zaina “che questa ultima specie rientra in quella più generale, ma così come concepita l’espressione usata in decreto appare pleonasticamente sconcertante. La coltivazione di Cannabis (termine questo che, invero, riguarda usualmente le piante idonee a produrre un alto contenuto di THC) è naturalmente illecita e riconducibile all’ambito del dpr 309/90. Non vi era, quindi, certo necessità di ribadire un concetto solare. Da altro lato, invece, non si comprende se menzionando la coltivazione di piante di cannabis ai fini della produzione di foglie ed infiorescenze e facendo seguire alle stesse il termine “sostanze attive ad uso medicinale”, il redattore del decreto abbia fatto solo una grossolana confusione, oppure abbia inteso – seppure malamente – collegare direttamente le foglie e le infiorescenze all’uso medicinale.” 

A ciò si aggiunge la natura del testo che, in quanto decreto interministeriale, non ha valenza giuridica paragonabile a quella di una legge ma un grado inferiore:

“Un decreto ministeriale (D.M.), che diviene, come nella specie, interministeriale quando impegna la competenza di diversi dicasteri e deve quindi essere adottato di concerto tra gli stessi, è un mero atto amministrativo.” chiarisce Zaina “Esso come tale è suscettibile di essere impugnato dinanzi al TAR, diversamente da una legge, che al più potrebbe venire dichiarata incostituzionale o disapplicata ai sensi l’art. 4 della legge 20 marzo 1865, n. 2248 (All. E). Nella gerarchia delle fonti del diritto questa tipologia di atti, riconducibili alla specie dei regolamenti, viene, quindi, definita come fonte secondaria statale per eccellenza. In buona sostanza, un atto puramente amministrativo non può derogare, quanto al contenuto, alla Costituzione e agli atti aventi forza di legge sovraordinati, né può avere ad oggetto incriminazioni penali, stante la riserva assoluta di legge che vige in detta materia.”

Si tratta, insomma, di un testo confuso che costituirebbe l’ennesimo tentativo malriuscito di criminalizzare il settore della coltivazione della canapa e che proprio per la confusione che crea potrebbe generare non pochi problemi a chi opera in questo comparto. Il testo, dunque, non modifica la legge del 2016 sulla cannabis light ma la interpreta, specificandola, approfittando delle zone grigie presenti nella normativa italiana. Il vero rischio, dunque, è che magistratura e forze dell’ordine si facciano forti di questo decreto per giustificare operazioni e sequestri che, fino ad oggi, sarebbero finite in un nulla di fatto. 

E mentre dalla conferenza Stato-Regioni si prova a sbarrare la strada alla cannabis light, la Cassazione ha riconosciuto come valide le oltre 600.000 firme raccolte dal comitato promotore per la realizzazione di un Referendum sulla legalizzazione della cannabis con un livello di THC superiore allo 0,6%. La palla ora passa alla Corte Costituzionale che il 15 febbraio esprimerà il proprio parere sulla proposta e, in caso di via libera, spianerà la strada per l’indizione del referendum.

Verso il voto: la galassia complottista e no-vax candidata alle amministrative

Con la chiusura delle liste per le prossime amministrative si è definito il quadro dei candidati. Tra di loro, soprattutto nelle città principali, spicca la presenza di liste e candidati apertamente contrari a vaccini e green pass che fanno leva su teorie complottiste.

La corsa alle amministrative del 3 ottobre entra nel vivo. Dopo la presentazione delle liste e dei candidati sindaco nei 1.349 comuni chiamati al voto, le campagne elettorali entrano nel vivo con la presentazione dei programmi e dei temi a cui ogni lista vuole dare la priorità. Tra i tanti temi al centro dei dibattiti, soprattutto nelle grandi città, c’è inevitabilmente quello legato alla pandemia ed alla campagna vaccinale. E così tra i candidati spunta una schiera di complottisti, “no green pass” e “no vax” raccolti, quasi sempre nel “Movimento 3V – Vacini, vogliamo verità”.

Nato nel 2019 come partito antisistema, il Movimento 3V ha trovato nuova linfa per i suoi slogan grazie alla pandemia. Sul loro sito si presentano come “l’unico partito che mette al centro il benessere del cittadino” pronto a porsi come “baluardo contro le vessazioni degli attuali provvedimenti politici contrari alla Costituzione, ai diritti umani e a qualsiasi forma di etica”. Il primo nemico è, ovviamente, la campagna vaccinale portata avanti dal governo e definita “una guerra lampo in cui a crollare sono i diritti fondamentali dell’uomo riconosciuti dalla Costituzione”. Sul sito del movimento, poi, è presente la lista delle “15 ragioni di medici e scienziati che ci convincono a non vaccinarci” con al primo posto una motivazione che sembra aver poco a che fare con la scienza: “io non sono una cavia”. Ma ad animare il Movimento 3V non sono solo i vaccini e l’opposizione ad una fantomatica “dittatura sanitaria”. Tra le ultime battaglie si registrano anche quelle contro i pagamenti con carte di credito, con tanto di hashtag #iopagoincontanti “contro la moneta elettronica in difesa della libertà e dell’economia delle persone reali”, e contro il 5G e l’aumento dell’elettrosmog.

Dopo gli scarsi risultati ottenuti nelle regionali del 2020, il Movimento 3V sembra pronto per un salto di qualità che potrebbe portarlo ad approdare in qualche consiglio comunale cavalcando l’orda ribelle che nelle ultime settimane sta agitando le piazze di diverse città. Così, in vista delle amministrative in quasi tutte le principali città sono presenti candidati sindaci di questo schieramento: da Trieste, dove il candidato sindaco Ugo Rossi si fregia di aver collaborato con Silvia Cunial per fermare il 5G, a Bologna, dove Andrea Tosatto non ha dubbi: “La politica ha cambiato il concetto di pandemia dipingendo un virus perfettamente curabile come un killer fantasma”. Poi Milano, Rimini, Torino, Roma, Napoli e così via con un totale di 9 candidati sindaci “no-vax” che tenteranno l’assalto ai consigli comunali.

Ma in molte città, il movimento 3V dovrà contendersi i voti della galassia no vax con tutti quei partiti che strizzano l’occhio a negazionisti e complottisti. In primis “ItalExit”, guidato dall’ex 5 stelle Gianluigi Paragone che pur puntando tutto sull’uscita dall’euro facendo leva sulle difficoltà economiche dei cittadini sta cavalcando da settimane l’onda delle proteste contro vaccini e green pass. E se a Milano il candidato sindaco sarà proprio Paragone, per Torino ItalExit ha scelto Ivano Verra che di recente ha affermato che “c’è chi è pronto a baciare i malati di Covid per contrarre il virus piuttosto che vaccinarsi”, e che “Carla Fracci e Raffaella Carrà dimostrano le conseguenze del vaccino essendo morte dopo averlo fatto”.

Ma se il movimento 3V e ItalExit rappresentano i casi più estremi di “anti sistema” e non nascondono le loro idee complottiste e no vax, c’è anche una parte della politica “istituzionale” pronta a raccogliere i voti dei ribelli del vaccino. Lega e Fratelli d’Italia, infatti, mentre pubblicamente condannano le teorie complottiste non hanno mai smesso di ammiccare alle posizioni opposte. Non solo intervenendo più volte in modo ambiguo su questioni come vaccini e green pass ma anche, e soprattutto, candidando in diversi comuni esponenti di quella stessa galassia negazionista e no vax. Il caso più estremo è senza dubbio quello di Francesca Benevento, candidata a sostegno di Michetti nella capitale, apertamente antisemita e no-vax che si è scagliata contro il ministro Speranza definendolo “il ministro ebreo ashkenazita formato dalla McKinsey, che riceve ordini dall’élite finanziaria ebraica”.

Una schiera di no vax e no green pass, insomma, si contenderà i voti di chi nelle ultime settimane scendi in piazza per ribadire la propria contrarietà alle regole pensate per arginare una pandemia che ha già fatto oltre 130mila vittime nel nostro paese. Resta da vedere quale seguito avranno e quanti, effettivamente, saranno pronti a sostenerli alle urne. 

Perchè il conflitto tra Israele e Palestina è scoppiato proprio ora?

Può non piacere la parola, ma quello che sta avvenendo è un’occupazione,
teniamo 3.5 milioni di palestinesi sotto occupazione. 
Credo che sia una cosa terribile per Israele e per i palestinesi.

-Ariel Sharon-


Sono passati sette anni dall’ultimo scontro armato, sedici dalla ultima intifada. Ora, però, tra Israele e Palestina la tensione accumulata negli anni è esplosa in un vero e proprio conflitto. Improvviso ma non imprevedibile. Un conflitto che insanguina la striscia di Gaza e che ha già provocato 122 vittime, tra cui 20 donne e 31 bambini. Ma perché dopo anni di tensione si è arrivati ad un’escalation di violenza così drammatica. 

Miccia – Ventisette giorni prima del lancio del primo razzo su Gaza, militari israeliani hanno fatto irruzione nella moschea di Aqsa a Gerusalemme. Un raid rapido ma di una ferocia inaudita. I fedeli, raccolti in preghiera per celebrare l’inizio del Ramadan, dispersi con la forza. I cavi dei quattro altoparlanti, che trasmettevano le preghiere dai minareti della moschea, recisi per silenziare uno dei momenti più importanti della religione musulmana. Era il 13 aprile e, oltre all’inizio del mese sacro per i musulmani, si stava celebrando il Memorial Day israeliano per celebrare i caduti in combattimento. L’azione dell’esercito israeliano aveva uno scopo ben preciso: silenziare le preghiere musulmane per evitare che disturbassero le celebrazioni dei potenti vicini. 

Ventisette giorni dopo quell’aggressione il primo razzo colpiva Gaza. Ventisette giorni in cui la situazione è precipitata in modo incontrollabile, come una pallina su un piano inclinato. Come se in ventisette giorni tutti i nodi fossero venuti al pettine. Anni di occupazione in Cisgiordania, di discriminazione, di blocchi e restrizioni a Gaza, di schermaglie e proteste tra due popoli da sempre in conflitto. “È come se per anni si sia accumulata polvere da sparo e ora una miccia è stata accesa all’improvviso” ha commentato Avraham Burg, ex portavoce del parlamento israeliano ed ex presidente dell’Organizzazione sionista mondiale.

Escalation – Quella miccia accesa ha bruciato piano per ventisette lunghissimi giorni. I giovani palestinesi, che da tempo vivono una crescita esponenziale della propria identità nazionale, hanno deciso di non voler restare a guardare di fronte all’ennesima provocazione. Le proteste che hanno infiammato la Cisgiordania nei giorni successivi hanno rapidamente accorciato quella miccia portando quella che sembrava essere una piccola fiamma sempre più vicino all’enorme cumulo di polvere da sparo. Per settimane la Cisgiordania è stata teatro di aggressioni, attentati e scontri impari tra manifestanti palestinesi e militari israeliani. Fino a quando si è raggiunto il punto di non ritorno con due episodi che hanno definitivamente esaurito quella miccia fattasi sempre più corta.

Prima sei famiglie palestinesi sono state sfrattate dalle loro abitazioni dall’esercito israeliano. Sei nuclei familiari rimasti senza una casa per una decisione autonoma delle autorità israeliane nel tentativo di aumentare la presenza ebraica a scapito di quella araba nel rione di Sheikh Jarrah. Uno sfratto, l’ennesimo, che in un altro momento della storia del conflitto eterno tra i due stati, probabilmente, non avrebbe sortito nessun effetto ma che in una situazione di tensione crescente ha contribuito a far aumentare la tensione. Fino all’ultimo, decisivo, episodio: in occasione della “notte del destino”, la ricorrenza più solenne prima della fine del ramadan, i militari israeliani hanno fatto irruzione nella spianata delle moschee lanciando granate stordenti e gas lacrimogeni contro i fedeli in preghiera. L’ennesima aggressione ai danni dei fedeli nel mese più importante per la religione musulmana. Ma la miccia ormai era completamente bruciata e la fiammella che sembrava essere piccola e facilmente domabile come le volte precedenti si è fatta incendio ed ha fatto esplodere la polvere da sparo accumulata per anni. Una pioggia di missili si è abbattuta su Israele dando il via al conflitto che ormai tutti abbiamo imparato a conoscere. 

La politica– Ma manifestazioni, soprusi e violenze in Cisgiordania sono all’ordine del giorno da anni. Perché, allora, questa volta la situazione è degenerata? Perché questa volta da un lato, quello palestinese, c’era una leadership in cerca di riscatto mentre dall’altro c’era un vuoto enorme. Un vuoto che ha portato il leader incaricato di formare un nuovo governo, Benjamin Netanyahu, a forzare la mano mostrando i muscoli contro i palestinesi per ingraziarsi l’estrema destra israeliana ancora titubante sulla possibilità di unirsi alla nuova squadra di governo. Dall’altra parte, però, la risposta è stata diversa da quella che si poteva attendere il leader israeliano. I leader palestinesi di Hamas, che spesso sono stati meno propensi ad aumentare la tensione, per recuperare consensi in costante calo anche in vista delle elezioni che si dovrebbero tenere nei prossimi mesi hanno deciso di cavalcare quel sentimento di orgoglio e rabbia che anima i palestinesi. In un certo senso, per Hamas, i fatti di Sheikh Jarrah e le solite manifestazioni del Ramadan erano un’occasione imperdibile per mettersi a capo delle proteste e riaffermare la propria presa sull’elettorato palestinese. L’occasione è stata colta: Hamas ha di fatto infiltrato i movimenti di protesta con i propri membri, alimentato la tensione con i propri mezzi di comunicazione e soprattutto superato esplicitamente quella che il governo israeliano considera una linea rossa, cioè la sicurezza degli israeliani che abitano a Gerusalemme e Tel Aviv, prese più volte di mira dai lanci di razzi compiuti in gran parte proprio da Hamas. Così alle forzature di Israele la Palestina non ha chinato la testa subendo le angherie dell’eterno nemico ma ha risposto con ritrovata determinazione.

Nessuno, vedendo quello che stava accadendo nei ventisette giorni prima dei bombardamenti, avrebbe immaginato lo scoppio di un conflitto. Non lo immaginava l’intelligence israeliano che in quelle settimane aveva indicato come principale avversario il Libano sottolineando come invece la Palestina non facesse così paura. Era impensabile per gli osservatori esterni vista la “banalità” delle provocazioni israeliane, non diverse da quelle che da decenni subiscono ogni giorno i palestinesi. Ma questa volta qualcosa è cambiato interrompendo quel circolo di provocazioni- manifestazioni – violenze che da anni si ripeteva all’infinito. Una serie di fattori favorevoli si sono allineati portando ad una deviazione dalla strada tracciata in questi anni.

Non sono morti bianche: il dramma delle morti sul lavoro

“L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”
– art. 1, Costituzione Italiana-


Le chiamano “morti bianche”. Come se fossero una fatalità, un tragico evento dovuto al caso o a una distrazione. Ma le morti sul lavoro sono ben altro. Non sono “morti bianche”, termine autoassolutorio che sembra mostrarle come candide, immacolate, innocenti. No, le morti sul lavoro sono tutt’altro che bianche. Dietro ogni vittima si nasconde, nella quasi totalità dei casi, la totale mancanza di rispetto per le norme di sicurezza e lo scarso controllo.

Numeri – Quella delle morti sul lavoro è una strage insopportabile e silenziosa che solo negli ultimi sette giorni ha fatto dieci vittime. Dal Molise all’Alto Adige, passando per Emilia-Romagna e Lombardia, uno stillicidio che travolge tutto il paese e che sembra non arrestarsi. Lo scorso anno stando all’ultimo report dell’Inail,nonostante il lockdown e le restrizioni, i morti sul lavoro sono stati 1.270, 181 in più rispetto ai 1.089 del 2019 (+16,6%). Allargando l’orizzonte temporale, però, si può notare come ci sia una tendenza leggermente in discesa con una diminuzione delle morti sul lavoro di circa il 30% tra il 2008 e il 2017. Ma quel calo dal 2013 ad oggi si è sostanzialmente fermato ed il numero delle vittime, a parte un leggero calo nel 2019, è rimasto pressoché stabile con accenni di crescita come sembra confermare il primo trimestre del 2021 in cui sono stati registrati 144 decessi, 40 in più rispetto allo stesso periodo del 2020 (114). 

L’analisi di genere ci dice che a morire di più sono gli uomini, i cui casi mortali denunciati sono passati da 155 a 171. Le donne sono invece passate da 11 a 14. Se aumentano le morti di lavoratori italiani, calano quelle di extracomunitari e comunitari. Quanto all’età, invece, i morti sul lavoro under 40 sono stati 17 in meno, mentre sono aumentati quelli nella fascia 50-59 anni, che sono passati da 52 a 70 casi e quelli nella fascia 60-69 anni, che sono addirittura raddoppiati, passando da 19 a 38.

Al di là delle statistiche, freddi numeri poco rispettosi delle storie che si porta via ogni incidente, sembra chiaro come in Italia si muoia ancora troppo di lavoro e per il lavoro. Una media di oltre mille morti ogni anno, considerando anche le cosiddette “morti in itinere” ossia quelle vite spezzate nel tragitto tra casa e lavoro, rende il nostro paese uno tra i peggiori in Europa con 2,25 morti ogni 100mila lavoratori a fronte degli 0,78 di Germania e Regno Unito.

Infortuni – Unico dato che, invece, sembra essere positivo è quello relativo agli infortuni sul lavoro. Nei primi tre mesi di quest’anno, infatti, sono state 128.671 le denunce di infortuni, con una diminuzione consistente rispetto alle 130.000 dello stesso periodo del 2020 quando si era registrato, anche a causa del lockdown, il minor numero di denunce da oltre un decennio. Dopo il picco del 2008, quando in Italia si contarono 872.500 infortuni sul posto di lavoro, il dato è calato sensibilmente fino al 2013 quando ha iniziato una fase di stabilizzazione che ha visto negli anni successivi i dati rimanere costantemente intorno ai 650mila infortuni annui. Centomila in meno se ne sono invece registrati nel 2020 (554mila)

Controlli – Perché in Italia si continua a morire? L’ultimo rapporto dell’ispettorato nazionale del lavoro parla chiaro: il 79,3% delle aziende ispezionate l’anno scorso per verificare la tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro è risultata irregolare. In particolare, nel 15% dei casi gli ispettori hanno rilevato la presenza di attrezzature di lavoro e dispositivi di protezione individuali non conformi, mentre in un altro 14% la valutazione dei rischi è risultata mancante o inadeguata. Ma c’è un dato che deve far riflettere ancora di più: l’anno scorso le imprese ispezionate per una verifica sul rispetto delle norme di sicurezza sono state poco più di diecimila. Poche, pochissime. È per questo che non ci si può trincerare dietro la definizione di “morti bianche” o di tragiche fatalità, ma bisogna avere il coraggio di ammettere che ci siano delle responsabilità enormi. È su questo punto che bisogna investire. Nel piano nazionale di ripresa e resilienza si parla della prossima assunzione di 2.000 nuovi ispettori su un organico corrente di circa 4.500. L’obiettivo è aumentare i controlli del 20% entro il 2024. Basterà?

Venduti dalla polizia ai narcos per 43 euro: così sono morti i tre italiani in Messico

Nell’aula di tribunale di Tecalitlan in cui si celebra il processo ai tre poliziotti accusati della loro “sparizione forzata” emergono dettagli inquietanti sulla fine di Antonio Russo, Raffaele Russo e Vincenzo Cammino, spariti nel nulla il 31 gennaio 2018 e mai ritrovati.

Una poliziotta esce dall’aula di tribunale in cui sta per essere pronunciata una sentenza di condanna a suo carico, sale su una macchina e fugge. È Linda Guadalupe Arroyo, la poliziotta imputata insieme con i colleghi Salomon Adrian Ramos Silva ed Emilio Martines Garcia per la “sparizione forzata” dei tre italiani, di cui si sono perse le tracce in Messico il 31 gennaio 2018. La donna ora è ricercata, visto che la legislazione messicana non prevede la condanna in contumacia, mentre per gli altri due è arrivata la condanna.

È solo l’ultimo di una serie di colpi di scena che hanno fatto emergere quanto accaduto ai tre italiani spariti nel nulla due anni fa. Raffaele Russo, Antonio Russo e Vincenzo Cimmino si trovavano nel paese centroamericano per vendere generatori elettrici di fabbricazione cinese e di scarso valore quando sono spariti nel nulla. Proprio la vendita di quei generatori sarebbe stata all’origine della sparizione ordinata da Jose Guadalupe Rodriguez Castillo, detto “don Lupe”, boss del cartello “Jalisco Nueva Generation”. Sentendosi truffato dai tre italiani, don Lupe avrebbe commissionato ai tre poliziotti il rapimento dei tre italiani dietro un compenso di 43 euro a testa. Fingendo un fermo di polizia Arroyo, Silva e Garcia avrebbero così fatto Raffaele Russo mentre si trovava in auto per raggiungere un appuntamento di lavoro e qualche ora dopo Antonio Russo e Vincenzo Cimmino che, insospettiti dall’assenza di notizie, avevano iniziato a cercarlo. Consegnati al cartello di Jalisco, uno dei cartelli di narcotrafficanti più potenti del Messico, i tre sarebbero stati uccisi su ordine di don Lupe e i loro corpi fatti sparire per non essere mai più ritrovati.

Si giunge così ad una prima, parziale, verità su quanto accadde ad inizio 2018 in Messico. Oltre ai due agenti condannati nei giorni scorsi, le cui pene saranno rese note a breve, e alla donna fuggita ed in attesa di giudizio per l’impossibilità di una condanna in contumacia, per la sparizione forzata dei tre italiani era stato arrestato un quarto agente che è però deceduto in carcere in circostanze da chiarire pochi mesi prima dell’inizio del processo. Incriminati, ma mai arrestati perché avevano già fatto perdere le proprie tracce, altri tre agenti in servizio quel giorno tra cui il capo della stazione di polizia di Jalisco. Proprio li, infatti, secondo le prime ricostruzioni, sarebbero stati portati i tre dopo il loro finto arresto e in attesa della consegna agli uomini del cartello. Nel frattempo gli uomini del cartello di Jalisco hanno annunciato la morte di don Lupe in uno scontro a fuoco con un cartello rivale. Difficile, però, pensare che sia realmente morto e non si tratti di una strategia per far calare l’attenzione delle forz dell’ordine su di lui.

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