Santa Maria Capua Vetere e quelle mele marce che in Italia sono sistema

“A Santa Maria Capua Vetere è stata tradita la Costituzione”
-Marta Cartabia-
Un’orribile mattanza. Le immagini riprese dalle telecamere di sicurezza del carcere di Santa Maria Capua Vetere non lasciano dubbi su quello che è stato. Violenza gratuita e brutale da uomini in divisa ai danni di quegli stessi detenuti che avevano in custodia e avrebbero dovuto tutelare. Una rappresaglia inumana, indiscriminata e che non può ammettere nessuna giustificazione. Non può essere giustificata con lo stress, con la pressione dopo le proteste di quei giorni, con il virus che dilaga e fa paura. Nessuna attenuante può rendere meno crude e disarmanti quelle immagini.
Mele marce? – Immediata la difesa del corpo di Polizia Penitenziaria da parte di diversi schieramenti politici che si sono affrettati a sottolineare come quelle intervenute a Santa Maria Capua Vetere fossero “mele marce” nate da un albero sano. Ma si può davvero giustificare il tutto con la solita retorica delle mele marce? Il primo a non crederci è l’ex senatore Luigi Manconi, ex Presidente della commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani, che in un’intervista di qualche giorno fa non ha avuto dubbi: “Come è potuto accadere che oltre 50 persone abbiano commesso misfatti del genere? Io non ritengo che tutti gli agenti siano dei criminali ma non credo neanche alla retorica delle mele marce. Il problema risiede nel sistema carcerario, nella sua natura profonda e nel suo complessivo funzionamento: è un fatto culturale.”

Senza andare troppo indietro nel tempo, rievocando i fatti del G8 di Genova di cui ricorre il 20esimo anniversario tra pochi giorni, basta guardare al recente passato del nostro paese per capire quello che intende Manconi. Nel nostro paese in questo momento ci sono sette indagini aperte contro agenti di polizia penitenziaria accusati di tortura, reato introdotto nel Codice penale solo nel 2017. In due casi ulteriori, per fatti verificatisi nelle carceri di Ferrara e San Gimignano, si è già arrivati alla condanna di undici persone con rito abbreviato mentre altri cinque sono in attesa di giudizio. Undici condanne, cinque rinviati a giudizio e un centinaio di agenti indagati per tortura. Sono dati che rappresentano solo la punta dell’iceberg e che devono aiutare a comprendere come la violenza sia spesso elevata a sistema e non limitata alle sole “mele marce”. Perché se a Genova si registrarono per tre giorni violenze indiscriminate ed episodi di tortura su larga scala, quella mentalità sembra continuare oggi a macchiare la quotidianità delle carceri del nostro paese. Questo non vuol dire, certo, che l’intero apparato di polizia italiano sia composto da torturatori o sadici. Ma le violenze che si registrano quotidianamente in diverse parti del paese sono sintomo di un qualcosa che non funziona.
Cultura – C’è nei corpi di polizia italiani un vero e proprio problema culturale. Anzi, ce ne sono molteplici. Le violenze nelle carceri sembrano essere figlie di una tradizione di impunità che, da Genova in poi, sembra caratterizzare gli episodi simili. Dal 2001 ad oggi i passi avanti sono stati pochi. Se per approvare una legge contro la tortura si sono dovuti attendere 16 anni e i numerosi richiami delle istituzioni europee, per un’altra misura di buonsenso come i numeri identificativi sui caschi e le divise degli agenti potrebbero volercene altrettanti vista la strenua opposizione di diverse forze politiche. Quelle stesse forze politiche che accorrono a portare solidarietà agli agenti indagati e che reputano il reato di tortura una limitazione per gli le forze dell’ordine che a causa di quella legge si troverebbero nelle condizioni di non poter più svolgere il proprio lavoro.
Ma c’è anche un ulteriore problema: l’omertà. Se le brutalità di Santa Maria Capua Vetere, come di altri penitenziari, sono state possibili e sono emerse a un anno di distanza è anche e soprattutto colpa di un diffuso senso di cameratismo che rende l’omertà una virtù apprezzata e riconosciuta. Una virtù che sembra ritrovarsi ad ogni livello della scala gerarchica. Dagli agenti che fecero irruzione fino all’allora sottosegretario alla giustizia Vittorio Ferraresi che, consapevole o meno di quanto accaduto realmente, definì l’azione della polizia penitenziaria una “doverosa azione di ripristino di legalità e agibilità dell’intero reparto”. Nel mezzo ci sono le decine di funzionari e dirigenti della polizia penitenziaria che avrebbero cercato di coprire le violenze con prove false e relazioni scritte per dimostrare che il 6 aprile la reazione delle forze dell’ordine era stata provocata dai detenuti. E, ancora, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) che pur avendo ricevuto decine di esposti da parte di detenuti che denunciavano le violenze subite a seguito delle rivolte della primavera scorsa ha preferito non intervenire lasciando cadere nel vuoto quelle parole. E se il ministro Bonafede, rimasto in silenzio sul caso in Parlamento, poteva non sapere di cosa fosse accaduto nella realtà, risulta difficile immaginare che non lo sapessero tutti gli altri.

Rieducazione – Come sarebbe un errore convincersi che la violenza è frutto solo di alcune mele marce senza vederne la portata effettiva, come se si trattasse di schegge impazzite e isolate dal resto del corpo, sarebbe un errore altrettanto grande non capire il quadro generale che quelle violenze indicano. Perché quello che si consuma in molti penitenziari italiani è il fallimento del sistema carcerario. Un sistema in cui, come sottolinea ancora Manconi, “la rieducazione del condannato viene in genere sacrificata in nome della sicurezza: ovvero della custodia coatta dei corpi dei detenuti. È così che si spiegano episodi come quello di S. M. Capua Vetere: alcuni agenti si trasformano in aguzzini perché è la struttura del carcere, ispirata alla segregazione e alla mortificazione del condannato, che induce a questo. Perché, nei fatti, l’esito della detenzione è quello di de-responsabilizzare il detenuto, privarlo dell’indipendenza, della sua autonomia e controllarlo in tutti i suoi atti”. Servirebbe un cambio culturale per riportare la rieducazione del detenuto al centro della filosofia carceraria. Basterebbe poco, forse. Basterebbe rimettere al centro della scena non più controllori in divisa ma figure professionali quali educatori, assistenti sociali, animatori, mediatori, psicologi in grado di accompagnare il detenuto in un percorso utile a lui e alla società.