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Verso il voto: cosa dicono i programmi dei partiti su ambiente e clima

In vista del voto del 25 settembre abbiamo analizzato i programmi politici dei quattro principali schieramenti politici che si presenteranno a questa tornata elettorale per verificare se e come l’ambiente sia presente nelle idee dei partiti.

C’è una crisi a cui stiamo andando incontro totalmente impreparati. No, non parliamo della crisi economica né di quella energetica. La crisi più drammatica a cui stiamo assistendo è la crisi climatica che sta trasformando completamente l’ambiente e le nostre vite e che, senza contromisure immediate, potrebbe portare a conseguenze catastrofiche. Lo sanno bene i più giovani che proprio sui temi ambientali sembrano essere i più attenti come conferma l’ultimo sondaggio pubblicato da Repubblica il 1° settembre in cui emerge come un terzo dei giovani italiani si definiscono ambientalisti e chiedono un maggior impegno della politica su questi temi. Ma in vista delle prossime elezioni del 25 settembre, i principali schieramenti politici sembrano aver lasciato da parte la questione ambientale riservandole, quando va bene, uno spazio marginale all’interno dei programmi.

Centrosinistra (PD, Verdi-Sinistra Italiana, Impegno Civico, +Europa) – Il centrosinistra, grazie soprattutto alla presenza dell’alleanza rossoverde tra Verdi e Sinistra Italiana, è senza dubbio la coalizione con il programma più articolato per quanto concerne le tematiche ambientali. Tra le principali proposte portate dal tandem Fratoianni-Bonelli all’interno del programma elettorale del centrosinistra c’è l’approvazione di una legge per il clima con obiettivi coerenti e vincolanti a tutti i livelli. All’interno della stessa dovrebbe trovare spazio lo stanziamento di fondi per la realizzazione di opere di cambiamento climatico giudicate assolutamente indispensabili dal leader di Sinistra Italiana che ha ricordato come “negli ultimi quarant’anni l’Italia ha registrato ventimila morti a causa di eventi estremi, seconda solo alla Francia come numero di decessi”. Sul piano pratico, l’alleanza rossoverde propone lo sviluppo di una programmazione annuale che consenta di coprire l’80% del fabbisogno energetico nazionale con sole energie rinnovabili entro il 2030. La priorità, in questo piano di sviluppo, deve essere data in particolare all’energia solare e all’eolico mentre viene scartata l’ipotesi nucleare “come da mandato dei due referendum”. Per sostenere questa transizione, Sinistra Italiana e Verdi propongono l’eliminazione dei sussidi fossili (attualmente 20 miliardi l’anno) entro il 2025 e la redistribuzione di quelle risorse “come incentivo e supporto ai settori industriali e alle fasce sociali più esposte” ai cambiamenti di una transizione energetica. A ciò si aggiungono un programma di incentivi per l’utilizzo e lo sviluppo del trasporto pubblico locale e un nuovo piano rifiuti che punti da un lato allo sviluppo di un’economia circolare basata sul riciclo e dall’altro alla graduale eliminazione della plastica.

Misure meno estreme sono quelle proposte invece dagli alleati, ed in particolare dal PD che pur riconoscendo la transizione ecologica uno dei pilastri su cui basare l’azione dei prossimi quattro anni sostiene che gli obiettivi climatici devono essere “ambiziosi ma realistici”. Così nel programma della coalizione viene lasciata aperta la porta all’utilizzo di rigassificatori, come quello che tanto sta facendo discutere a Piombino, ma solo come soluzione temporanea da smobilitare “ben prima del 2050”. Dal punto vista legislativo, si pensa a una legge quadro sul clima e una riforma fiscale verde che “promuova gli investimenti delle imprese e delle famiglie a difesa del pianeta”, oltre all’implementazione del Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici (fermo al 2017). Previsto anche un Piano nazionale per il risparmio energetico e interventi finalizzati ad aumentare drasticamente la quota di rinnovabili prodotte in Italia, anche attraverso lo sviluppo delle Comunità energetiche, con l’obiettivo di installare 85 GW di rinnovabili in più entro il 2030. A ciò si aggiunge “la progressiva riduzione dei sussidi dannosi per l’ambiente” senza però indicare tempistiche per la sua realizzazione, a differenza di quanto fatto da Verdi e Sinistra Italiana.

Sulla questione ambientale, insomma, il centrosinistra viene trainato dalle posizioni forti dell’alleanza Verdi-Sinistra Italiana il cui programma dettagliato e determinato sembra compensare la timidezza e la fumosità delle proposte degli alleati.

Centrodestra (Fratelli d’Italia, Lega, Forza Italia, Noi Moderati) – Nel programma congiunto del centrodestra l’ambiente finisce in fondo alle priorità, al dodicesimo posto sui quindici punti programmatici della coalizione destinata a vincere le elezioni. Se non scontata appare la decisione di mettere nero su bianco la volontà di rispettare gli impegni internazionali assunti dal nostro paese, vista la spinta della Lega per una revisione degli stessi, il resto del programma appare poco ambizioso e certo marginale.

Si parla, in modo generico e senza precisare tempi e modi, dello sviluppo di un “piano strategico nazionale di economia circolare” che possa “aumentare il livello qualitativo e quantitativo del riciclo dei rifiuti, ridurre i conferimenti in discarica, trasformare il rifiuto in energia rinnovabile attraverso la realizzazione di impianti innovativi”. Una proposta certamente di buon senso e condivisibile che però, senza dettagli su come e cosa fare, risulta essere più uno slogan elettorale che un impegno reale e prioritario. Lo stesso si può dire per le altre priorità del centrodestra in tema ambientale che vengono ridotte in due punti in cui si promette la “salvaguardia della biodiversità” e di “incentivare l’utilizzo del trasporto pubblico e promuovere politiche di mobilità urbana e sostenibile”. Poca concretezza, oltre che scarsa ambizione, che rendono assolutamente marginale la tematica ambientale nella coalizione trainata da Giorgia Meloni.

A discostarsi maggiormente dall’ambientalismo è poi la parte di programma che riguarda “la sfida dell’autosufficienza energetica” in cui oltre a promettere una “transizione energetica sostenibile” vengono espressi i netti si della coalizione a termovalorizzatori, rigassificatori e nucleare. Sul nucleare il centrodestra ribadisce la volontà di voler valutare il ricorso al cosiddetto “nucleare pulito” per la cui realizzazione però bisognerà attendere ancora diversi anni trattandosi di tecnologie sulle quali ancora si sono ottenuti solo risultati di laboratorio privi di prospettive concrete nel breve e medio periodo.

Per quanto riguarda i singoli partiti, Fratelli d’Italia punta sull’aggiornamento del piano Nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici e sulla tutela delle coste e dei mari. La Lega sembra invece voler scommettere sulle montagne con la creazione anche di un ministero ad hoc per la loro tutela e sulla realizzazione di opere volte a garantire l’approvvigionamento idrico del paese. Forza Italia, dal canto suo, propone la piantumazione di un milione di alberi e il “potenziamento della semplificazione, di incentivi strutturali e crediti di imposta per le imprese che riconvertono e investono in eco innovazione e nuove tecnologie”. Appare evidente come il programma di centrodestra su questi temi punti più che altro a mediare tra transizione ecologica e tutela delle attività produttive e industriali.

Movimento 5 Stelle – Nato con una forte vocazione ambientalista, il M5S ha negli ultimi anni cambiato volto trasformandosi in un vero e proprio partito. Un cambiamento di cui risente anche l’attenzione alle tematiche ambientali che vengono accennate senza mai scendere nei dettagli. si parla, ad esempio, di una non meglio specificata “società dei 2.000 watt”, che dovrebbe “tendere a un modello sostenibile di consumo energetico” per ridurre le emissioni annuali di gas serra. A ciò si aggiunge la volontà di mantenere e anzi implementare il “Superbonus” per “per permettere la pianificazione degli investimenti sugli immobili e continuare a migliorare i livelli di risparmio energetico”, una proposta volta però più a ridurre i costi delle bollette che a salvaguardare l’ambiente. Nel programma del movimento si parla poi genericamente di “sburocratizzazione per favorire la creazione di impianti di energia rinnovabili” confermando però il secco no alla realizzazione di nuovi inceneritori e nuovi impianti di trivellazione. È importante sottolineare come nel programma non vi sia alcun riferimento al nucleare su cui però il Movimento 5 Stelle è sempre stato fermamente contrario e che, dunque, si può presumere mantenga la stessa posizione.

Terzo Polo (Italia Viva, Azione) – Carlo Calenda e Matteo Renzi intendono la questione ambientale dividendola in obiettivi di breve, medio e lungo periodo. Nel breve periodo il fulcro del programma è certamente un netto si al gas, con la realizzazione dei due rigassificatori per aumentare la produzione nazionale e ridurre gradualmente la dipendenza dal combustibile russo. Nel medio periodo l’obiettivo dell’alleanza Italia Viva-Azione è quello di ridurre del 50% l’emissione di CO2 entro il 2030 attraverso un percorso di decarbonizzazione volto a sviluppare fonti sostenibili. Una misura che almeno in parte sembra stridere però con la proposta di “abbassare il prezzo della CO2” per le imprese fino al termine della guerra in Ucraina, che tradotto significa abbassare le tasse sulle emissioni delle aziende costrette a utilizzare combustibili fossili visto il blocco del gas causato dal conflitto. Netto invece il sì al nucleare che, combinato con le rinnovabili, nella strategia del Terzo Polo dovrebbe permetter all’Italia di raggiungere entro il 2050 l’obiettivo “emissioni zero”.

L’eredità di Bill Russell, la leggenda NBA pioniere dei diritti civili

Il 1 agosto è morto a 88 anni Bill Russell, iconico giocatore NBA in grado di rivoluzionare la pallacanestro americana. Ma la sua eredità più che alle sue gesta sportive sarà per sempre legata al suo impegno quotidiano contro il razzismo in un contesto ben diverso da quello odierno

Da ora in poi nessun giocatore della NBA, il massimo campionato di basket americano, potrà mai più indossare una canotta con il numero 6. È questo l’omaggio della lega alla stella dei Boston Celtics Bill Russell scomparso a 88 anni il 1 agosto il cui nome rimarrà così per sempre legato al numero che ha indossato nelle tredici stagioni da professionista. Una decisione senza precedenti con cui la NBA vuole celebrare la memoria di un giocatore che ha rivoluzionato il gioco ma non solo.

La grandezza del Bill Russell giocatore è probabilmente nota ai più, anche a chi di pallacanestro capisce poco o nulla. Dopo l’oro olimpico vinto a Melbourne nel 1956, quando ancora non potevano essere convocati giocatori professionisti, Russell si dichiarò elegibile per il Draft e venne chiamato con la seconda scelta da Atlanta che lo girò immediatamente ai Boston Celtics in cambio di Hagan e Macauley. Da quel momento iniziò una carriera formidabile che lo ha reso una leggenda del basket: 11 titoli NBA vinti in 13 stagioni, cinque volte MVP della lega, 12 volte selezionato per l’All-Star Game. Tra il 1966 e il 1968 ha ricoperto anche il ruolo di allenatore dei Boston Celtics diventando così il primo allenatore afroamericano nella storia della NBA e vincendo due titoli da giocatore-allenatore. Con la sua suprema abilità atletica, la sua abilità difensiva e l’implacabile propensione a vincere Bill Russell ha rivoluzionato il gioco della pallacanestro tanto da essere considerato, fino all’arrivo di Michael Jordan, il più forte giocatore della storia di questo sport. “Pensava che qualsiasi squadra in cui giocasse dovesse vincere ogni singola partita”, ha detto il compagno di squadra dei Celtics di Russell Tom “Satch” Sanders. “Quindi quel tipo di mentalità ha permeato l’intera squadra. Questo è stato il dono di Bill Russell”.

Ma l’eredità di Bill Russell non è solo sportiva, anzi. Attivista per i diritti civili, Bill Russell è stato il primo atleta ad esporsi utilizzando la sua fama e per denunciare episodi di razzismo e battersi per una società più giusta. Se nell’epoca del Black Lives Matters siamo ormai abituati ad atleti che utilizzano la loro popolarità per lanciare messaggi politici e sociali, negli Stati Uniti degli anni ‘50 e ’60 le posizioni di Russell erano viste come qualcosa di inimmaginabile. Nato nel 1934 a Monroe, in Louisiana, ha dovuto affrontare sin dall’infanzia il problema del razzismo vivendo i primi dieci anni della sua vita in un contesto caratterizzato da una forte segregazione razziale e proprio dalla sua infanzia ha preso la forza per combattere per tutta la vita per i diritti degli afroamericani. Nel 1961 organizzò una protesta che coinvolse decine di giocator NBA dopo che ai giocatori neri dei Boston Celtics fu rifiutato il servizio nella caffetteria dell’hotel di Phoenix dove alloggiavano per una partita. Nei primi anni ’60 lavorò a stretto contatto con Martin Luther King ma quando il compagno di battaglie gli chiese di salire sul palco insieme a lui il 28 agosto 1963 al termine della “Marcia su Washington” Russell rifiutò. Non voleva rubare la scena a Martin Luther King, che da quel palco avrebbe pronunciato il suo storico discorso “I have a dream”, e a chi aveva lavorato giorno e notte per organizzare quella marcia. “Mi basta un posto in prima fila per assistere al tuo discorso” gli rispose. E così fu.

Con il suo instancabile lavoro per una società più giusta, sempre condotto all’ombra dei riflettori, Bill Russell è diventato pioniere dei diritti civili negli Stati Uniti. Non ha mai piegato la testa e non è mai indietreggiato, nemmeno davanti minacce e violenze razziste nei suoi confronti e nei confronti della sua famiglia. Nemmeno quando nel 1960 un gruppo di razzisti fece irruzzione in casa sua rompendo tutto ciò che trovava e scrivendo con una bomboletta “negro” sui muri. Ma i un’esitazione, mai un dubbio su quale fosse la parte giusta. Su quali fossero i valori per cui lottare. “Un altro uomo nero è stato aggiunto alla lista delle migliaia di neri uccisi dalla brutalità della polizia, l’ennesima vita rubata da un paese spezzato da pregiudizi e fanatismo.” Aveva detto commentando la morte di George Floyd nel maggio 2020 “Quando ero bambino, ho imparato a scappare dalla polizia perché ti arrestavano, o ti prendevano a calci, o ti uccidevano se fossi nero.” E proprio in occasione della morte di Floyd è emersa, in modo dirompente, l’eredità di Bill Russell. La sua lotta per una società più giusta a partire dallo sport ha influenzato in modo significativo la battaglia del movimento Black Lives Matter spingendo gli atleti ad esporsi in prima persona per rivendicare il loro orgoglio. “Grazie a te, oggi va bene essere un attivista e un atleta”, ha detto la guardia dei Celtics Jaylen Brown in un recente video tributo a Russell. “Grazie a te, bambini di colore possono sognare di essere vincenti. Grazie a te, oggi va bene essere più di un semplice giocatore di basket. Grazie a te, sono orgoglioso di essere un giocatore dei Celtics”.

Questa è l’eredità di Bill Russell, eterno numero 6. 

“Permettetemi di ricordarvi quella promessa non mantenuta. Quella promessa contenuta nella nostra Dichiarazione di Indipendenza: «Tutti gli uomini sono uguali e sono dotati di diritti inalienabili come il diritto alla Vita, alla Libertà e alla ricerca della felicità». Ho atteso per tutta la mia vita che l’America fosse all’altezza di quella promessa ma in America l’uccisione sistematica di persone di colore continua a non essere nulla di fuori dall’ordinario. Non vedo l’ora che questi strani giorni possano essere per sempre alle nostre spalle e che un cambiamento reale e duraturo si possa finalmente realizzare”

La mossa di Nancy Pelosi: atterra a Taipei e sfida Pechino

La speaker della camera Nancy Pelosi atterra a sorpresa a Taiwan scatenando l’ira di Pechino ed innescando un’escalation di tensione politica e militare senza precedenti nella storia recente. Cosa sta succedendo e perché nella piccola isola di Formosa?

Alla fine, lo ha fatto davvero. Sono le 22.45 locali quando all’aeroporto Songshan di Taipei lo Spar19 della US Air Force con a bordo la speaker della Camera americana Nancy Pelosi tocca il suolo taiwanese. Ad attenderlo sulla pista il ministro degli esteri di Taiwan Joseph Hu mentre il grattacielo più importante della città si illuminava con le scritte “grazie speaker Pelosi. Benvenuta a Taiwan”. È lo strappo definitivo della speaker della camera dopo che persino il presidente Biden e il Pentagono le avevano suggerito di eliminare la visita a Taipei dal suo tour in Asia per non alimentare le tensioni con la Cina.

Dal momento in cui i radar indicano che l’aereo di Nancy Pelosi sta facendo rotta verso la capitale di Taiwan, tappa non prevista nel programma ufficiale diffuso domenica, la tensione inizia a crescere. “Con questa mossa gli Stati Uniti dimostrano di essere i più grandi distruttori della pace odierna” commentano da Pechino mentre il Ministro degli Esteri Wang Yi, in una nota, ribadisce che il principio della Unica Cina “è il consenso universale, la base politica per gli scambi della Cina con altri Paesi, il nucleo di interessi fondamentali e una linea rossa e di fondo insormontabili”. Ma, questa volta, Pechino non si limita alle parole. Lascia il beneficio del dubbio fino alla fine, sperando che l’aereo della speaker cambi rotta per dirigersi verso una meta diversa. Ma quando il Boeing con a bordo Nancy Pelosi tocca il suolo taiwanese la risposta è immediata. Dalle basi militari cinesi si alzano in volo i SU-35 Fighters dell’Esercito Popolare di Liberazione che per alcuni minuti sorvolano lo stretto di Taiwan, il tratto di mare che divide l’isola dalla Cina. Poi arriva il comunicato ufficiale: da domani a domenica l’Esercito Popolare di Liberazione cinese condurrà “importanti esercitazioni militari e attività di addestramento, comprese esercitazioni a fuoco vivo” in sei aree marittime intorno all’isola di Taiwan. È la risposta più dura che potesse arrivare da Pechino.

Dal canto suo Nancy Pelosi non fa nulla per rallentare l’escalation di tensione. Ancor prima di scendere dall’aereo commenta il suo arrivo a Taipei su Twitter: “La visita della nostra delegazione a Taiwan” scrive “onora l’incrollabile impegno dell’America nel sostenere la vivace democrazia taiwanese. La solidarietà con i 23 milioni di abitanti di Taiwan è oggi più importante che mai. Il mondo deve scegliere tra autocrazia e democrazia.” Nulla che non ci si potesse aspettare vista la storica attività della speaker della camera in difesa dei diritti umani in Cina che la portò a manifestare il proprio dissenso in piazza Tienanmen nel secondo anniversario del massacro del 4 giugno 1989 e di recente a definire “giovani coraggiosi” i manifestanti democratici di Hong Kong. Con il suo viaggio, sostenuto da un consenso bipartisan al Congresso di Washington, Nancy Pelosi vuole ribadire il suo sostegno alla democrazia di Taiwan, sempre più minacciata dalle mire di Pechino.

Da tempo ormai, Pechino ha infatti messo nel mirino Taiwan rivendicando la propria autorità sull’isola considerata una provincia ribelle nonostante non sia mai stata amministrata dalla Repubblica Popolare Cinese. La questione taiwanese ha radici antiche e nasce nel 1949 con la vittoria di Mao Zedong nella guerra civile cinese e la conseguente fuga dei nazionalisti di Chiang Kai-Shek, che si rifugiarono sull’isola di Taiwan con forze sufficienti a dissuadere Mao dal proseguire il conflitto. Da quel momento si è creato una sorta di stallo che vede da un lato Pechino, che considera Taiwan una provincia ribelle e attende di riportarla sotto la propria egida, dall’altra Taipei che nel frattempo è diventata una florida democrazia e che ribadisce la sua indipendenza dalla Cina continentale. Da quando, nel 1996, sull’isola si sono svolte le prime elezioni libere che hanno dato un governo democratico a Taiwan, la Cina ha sempre operato per isolare il più possibile Taipei sia a livello politico che a livello diplomatico con il risultato che attualmente solamente 14 paesi al mondo intrattengono relazioni diplomatiche ufficiali con il governo taiwanese. Per questo motivo la visita di Nancy Pelosi, la più alta autorità politica statunitense a mettere piede sul suolo taiwanese dal 1997, ha scatenato reazioni scomposte. Il New York Times lo ha definito un “colpo di stato diplomatico” e, anche se si stratta di una evidente iperbole, non è un’immagine così lontana dalla realtà. Pur avendo da sempre supportato la causa dell’isola, infatti, la presenza di un politico di rilievo sul suolo di Taiwan e, qualora venisse confermato, un incontro ufficiale con la presidente Tsai Ing-wen ha un significato ben preciso: legittimare agli occhi del mondo il governo di Taipei. Un affronto nei confronti di Xi Jinping che dal canto suo ha negli ultimi tempi intensificato la sua propaganda a favore di una Cina unita che comprenda anche Taiwan ribadendo la necessità di riportare la provincia ribelle sotto il controllo di Pechino “con qualsiasi mezzo possibile”. Il presidente cinese, d’altronde, si è precluso la possibilità di una soluzione pacifica, cioè una riunificazione concordata e consensuale, visto il modo in cui ha gestito l’anomalia di Hong Kong: distruggendo lo Stato di diritto e le libertà, normalizzando l’isola sotto il tallone della repressione poliziesca cinese.

La giornata di oggi, dunque, sarà cruciale. Se confermato, l’incontro tra la speaker della camera e la presidente di Taiwan potrebbe essere un momento storico decisivo per le sorti dell’area. Pechino attende le mosse di Nancy Pelosi ma, su questo possiamo starne certi, è già pronta a rispondere ad ogni sua mossa.

Fratelli di ‘ndrangheta: i guai giudiziari nel partito di Giorgia Meloni

L’esponenziale crescita nei sondaggi del partito di Giorgia Meloni ha portato negli ultimi anni ad una migrazione di massa di esponenti di partiti di centrodestra verso Fratelli d’Italia. Un’arma a doppio taglio con cui FdI ha spalancato le porte a soggetti con legami pericolosi con cosche mafiose

Mancano meno di due mesi alle prime elezioni politiche autunnali della storia repubblicana e qualcuno già la incorona vincitrice. Giorgia Meloni, in testa a tutti i sondaggi, sta spingendo Fratelli d’Italia verso vette di consenso che nessuno poteva immaginare qualche anno fa. Nato nel dicembre del 2012 da una costola dell’allora Popolo delle Libertà, fino agli ultimi mesi era stato il partito minore all’interno della coalizione del centrodestra, utilizzato da Forza Italia e Lega per attrarre i voti delle frange più estreme della destra ed ampliare così il bacino elettorale di una coalizione orientata più al centro. Ma negli ultimi anni qualcosa è cambiato.

Radicato a Roma e provincia e fondato su una solida base di nostalgici e orfani della vecchia fiamma tricolore, Fratelli d’Italia ha scalato le gerarchie all’interno della coalizione diventando il primo partito sia nel centrodestra che nel paese. Grazie alla sua linea dura di forte opposizione a tutti i governi che si sono succeduti in questa legislatura, il partito di Giorgia Meloni è passato dal 4,4% delle politiche del 2018 ad un potenziale 23% alla prossima tornata elettorale. Un’ascesa quasi miracolosa che ha però portato ad una serie di problemi collaterali all’interno del partito in termini di legalità. Con la crescita dei consensi diversi politici, soprattutto al sud, sono migrati in modo quasi incontrollato da Forza Italia e dalla Lega verso il partito di Giorgia Meloni portando a Fratelli d’Italia importanti pacchetti di voti che hanno contribuito ad alimentare la crescita nei sondaggi. Ma questa continua “campagna acquisti” si è rivelata un’arma a doppio taglio: se da un lato ha ingrossato le fila del partito e contribuito alla crescita dei consensi, dall’altro ha spalancato le porte a soggetti in odor di mafia.

Uno smacco non indifferente per Giorgia Meloni che da sempre ricorda di aver iniziato a far politica dopo la morte del giudice Paolo Borsellino e di voler mettere al primo posto la legalità proprio per questo suo legame con il giudice antimafia. Parole che troppo spesso stridono, però, con i fatti. Fratelli d’Italia, ad oggi, sembra infatti essere il partito con più legami con i clan e con il maggior numero di esponenti arrestati. Per questo, anche se ha destato particolarmente clamore essendo arrivato in piena campagna elettorale, non sorprende il caso di Terracina scoppiato pochi giorni fa. Nel feudo nero di Fratelli d’Italia, dove la stessa leader del partito si era candidata per essere certa di essere rieletta in Parlamento, era stato ideato un vero e proprio sistema fatto di corruzione e gestione opaca degli appalti pubblici. Un sistema su cui ora indaga anche l’antimafia per le violenze e le intimidazioni in pieno stile mafioso ai danni di chi minacciava di opporsi. L’inchiesta, che vede coinvolto tra gli altri anche Nicola Procaccini fedelissimo di Giorgia Meloni già sindaco del comune pontino ed europarlamentare nelle file di Fratelli d’Italia, è la prosecuzione di quella che solo pochi mesi fa aveva portato all’arresto del vicesindaco Marcuzzi, anche lui meloniano della prima ora e in procinto di candidarsi alle prossime regionali.

E pensare che nel 2020, in piena campagna elettorale per le amministrative, era stata proprio la leader di Fratelli d’Italia a osannare il “modello Terracina” affermando di volerlo esportare anche a livello nazionale. “Io vi prometto” aveva detto durante un comizio “che prenderemo questo laboratorio, questo esempio di democrazia e politica, e lo porteremo al governo della nazione”. Ma se dopo gli arresti appare difficile immaginare la Meloni che, fiera e decisa, promette di portare il sistema Terracina in tutta Italia, in molti tra i suoi compagni di partito sembrano averla presa in parola riproducendo in tutta Italia quel tessuto di relazioni pericolose che ha portato alla fine della giunta del comune pontino.

È il caso, ad esempio, di Francesco Lombardo. Candidato alle amministrative di Palermo con Fratelli d’Italia è stato arrestato a pochi giorni dal voto per aver chiesto voti al boss mafioso Vincenzo Vella in cambio di favori. Una vicenda da cui Fratelli d’Italia ha subito preso le distanze dichiarandosi parte offesa. Così come aveva a suo tempo preso le distanze da Roberto Russo, assessore regionale in Piemonte, condannato nei giorni scorsi a 5 anni per voto di scambio politico mafioso. E ancora Alessandro Niccolò, capogruppo di FdI in Calabria arrestato per associazione mafiosa. O Giancarlo Pittelli, ex europarlamentare calabrese di Forza Italia passato a Fratelli d’Italia nel 2017 ed arrestato nell’ambito dell’inchiesta “Rinascita-Scott” perché considerato anello di congiunzione tra la politica e i clan di ‘ndrangheta. O ancora Domenino Creazzo, già sindaco di sant’Eufemia d’Aspromonte, arrestato tra l’elezione e l’insediamento in consiglio regionale per i suoi rapporti con la cosca Alvaro. E si tratta solamente di alcuni degli esponenti di Fratelli d’Italia arrestati o indagati negli ultimi anni per rapporti opachi con i clan. Una lista lunghissima che non fa sconti a nessuno, da nord a sud, da semplici eletti a dirigenti del partito.

“Io non posso conoscere personalmente tutte le migliaia di candidati che ha Fratelli d’Italia in tutto il paese” si era difesa Giorgia Meloni ai microfoni della trasmissione Report ribadendo il suo impegno per ripulire il partito da figure del genere. Un’affermazione sacrosanta e, a tratti, anche condivisibile. Difficile però immaginare che la leader di quello che oggi è il primo partito a livello nazionale non sapesse degli affari di Pasquale Maietta, astro nascente del partito e tesoriere del gruppo di Fratelli d’Italia alla Camera dei Deputati. Secondo le indagini condotte nel 2016 Maietta avrebbe avuto rapporti stabili e di reciproco interesse con il boss Costantino “cha cha” Di Silvio, elemento di spicco della criminalità organizzata nell’agro pontino che avrebbe garantito tramite Maietta il sostegno elettorale a Fratelli d’Italia nei territori controllati dal clan.

Si tratta di un quadro desolante che contrasta con le parole della candidata premier che da giorni ripete in lungo e in largo che “la classe dirigenti di Fratelli d’Italia è pronta per governare il paese”. Ma questo è il momento che Giorgia Meloni aspetta da una vita ed ora che si prepara a ricoprire la carica più importante di Governo ha deciso di eliminare tutti gli ostacoli tra lei e la premiership tra cui anche i problemi giudiziari legati che contribuiscono ad accostare il nome di Fratelli d’Italia alle cosche mafiose. Da giorni Giovanni Donzelli, responsabile organizzativo di FdI, è al lavoro per fare pulizia all’interno del partito eliminando dalle liste tutti i soggetti che negli anni hanno dimostrato una certa familiarità con gli ambienti criminali di tutta Italia. Un tentativo in extremis di ripulire la facciata per scongiurare polemiche e attacchi da parte degli avversari. Sarà sufficiente a portare la legalità non solo a parole ma anche nei fatti? 

Amore e rabbia: l’ultimo discorso pubblico di Paolo Borsellino

A trent’anni dalla strage di via d’Amelio riportiamo il testo integrale dell’ultimo intervento pubblico di Paolo Borsellino alla biblioteca di Casa Professa un mese prima della sua morte. 

Sono passati trent’anni da quel 19 luglio 1992 quando un’autobomba davanti alla casa della madre in via Mariano d’Amelio uccise il giudice Paolo Borsellino e gli agenti di scorta Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Emanuela Loi e Claudio Traina. Erano passati 57 giorni da quando sul tratto di autostrada che collega l’aeroporto di Punta Raisi con la città di Palermo era stato ucciso il suo amico e collega Giovanni Falcone. 57 giorni vissuti da Borsellino come “un morto che cammina” con la tremenda consapevolezza che il prossimo a cadere sarebbe stato lui. In quei 57 giorni Borsellino attese con pazienza di essere ascoltato dai magistrati di Caltanissetta che stavano indagando sulla strage di Capaci ma non venne mai chiamato a testimoniare. Eppure era lui quello che più di tutti poteva rivelare i dettagli della vita di Giovanni Falcone. Era lui a conoscerne il lavoro e custodirne i segreti. Borsellino attese paziente per oltre un mese, fino al 25 giugno 1992 quando durante un incontro alla biblioteca comunale di Casa Professa ricordò l’amico e disse chiaramente di voler essere ascoltato. Fu il grido disperato di un uomo che sa di avere poco tempo per ricostruire gli avvenimenti che portarono alla morte di Falcone e fare in modo che quella morte non rimanesse impunita.

Quel grido di dolore rimase inascoltato. Paolo Borsellino non venne mai chiamato dai magistrati di Caltanissetta. Non raccontò mai i segreti che custodiva sul lavoro di Giovanni Falcone. Non gli fu mai permesso di farlo. A trent’anni dalla strage di via d’Amelio riportiamo il testo integrale del discorso di Paolo Borsellino a Casa Professa. Un discorso di amore verso l’amico Falcone e il mentore Antonino Caponnetto. Un discorso di rabbia e tristezza per le condizioni in cui avevano dovuto lavorare.

L’ultimo discorso di Paolo Borsellino – 25 giugno 1992

Io sono venuto questa sera soprattutto per ascoltare. Purtroppo ragioni di lavoro mi hanno costretto ad arrivare in ritardo e forse mi costringeranno ad allontanarmi prima che questa riunione finisca. Sono venuto soprattutto per ascoltare perché ritengo che mai come in questo momento sia necessario che io ricordi a me stesso e ricordi a voi che sono un magistrato. E poiché sono un magistrato devo essere anche cosciente che il mio primo dovere non è quello di utilizzare le mie opinioni e le mie conoscenze partecipando a convegni e dibattiti ma quello di utilizzare le mie opinioni e le mie conoscenze nel mio lavoro. In questo momento inoltre, oltre che magistrato, io sono testimone. Sono testimone perché, avendo vissuto a lungo la mia esperienza di lavoro accanto a Giovanni Falcone, avendo raccolto, non voglio dire più di ogni altro, perché non voglio imbarcarmi in questa gara che purtroppo vedo fare in questi giorni per ristabilire chi era più amico di Giovanni Falcone, ma avendo raccolto comunque più o meno di altri, come amico di Giovanni Falcone, tante sue confidenze, prima di parlare in pubblico anche delle opinioni, anche delle convinzioni che io mi sono fatte raccogliendo tali confidenze, questi elementi che io porto dentro di me, debbo per prima cosa assemblarli e riferirli all’autorità giudiziaria, che è l’unica in grado di valutare quanto queste cose che io so possono essere utili alla ricostruzione dell’evento che ha posto fine alla vita di Giovanni Falcone, e che soprattutto, nell’immediatezza di questa tragedia, ha fatto pensare a me, e non soltanto a me, che era finita una parte della mia e della nostra vita.

Quindi io questa sera debbo astenermi rigidamente – e mi dispiace, se deluderò qualcuno di voi – dal riferire circostanze che probabilmente molti di voi si aspettano che io riferisca, a cominciare da quelle che in questi giorni sono arrivate sui giornali e che riguardano i cosiddetti diari di Giovanni Falcone. Per prima cosa ne parlerò all’autorità giudiziaria, poi – se è il caso – ne parlerò in pubblico. Posso dire soltanto, e qui mi fermo affrontando l’argomento, e per evitare che si possano anche su questo punto innestare speculazioni fuorvianti, che questi appunti che sono stati pubblicati dalla stampa, sul “Sole 24 Ore” dalla giornalista – in questo momento non mi ricordo come si chiama… – Milella, li avevo letti in vita di Giovanni Falcone. Sono proprio appunti di Giovanni Falcone, perché non vorrei che su questo un giorno potessero essere avanzati dei dubbi.

Ho letto giorni fa, ho ascoltato alla televisione – in questo momento i miei ricordi non sono precisi – un’affermazione di Antonino Caponnetto secondo cui Giovanni Falcone cominciò a morire nel gennaio del 1988. Io condivido questa affermazione di Caponnetto. Con questo non intendo dire che so il perché dell’evento criminoso avvenuto a fine maggio, per quanto io possa sapere qualche elemento che possa aiutare a ricostruirlo, e come ho detto ne riferirò all’autorità giudiziaria; non voglio dire che cominciò a morire nel gennaio del 1988 e che questo, questa strage del 1992, sia il naturale epilogo di questo processo di morte. Però quello che ha detto Antonino Caponnetto è vero, perché oggi che tutti ci rendiamo conto di quale è stata la statura di quest’uomo, ripercorrendo queste vicende della sua vita professionale, ci accorgiamo come in effetti il paese, lo Stato, la magistratura che forse ha più colpe di ogni altro, cominciò proprio a farlo morire il 1° gennaio del 1988, se non forse l’anno prima, in quella data che ha or ora ricordato Leoluca Orlando: cioè quell’articolo di Leonardo Sciascia sul “Corriere della Sera” che bollava me come un professionista dell’antimafia, l’amico Orlando come professionista della politica, dell’antimafia nella politica. Ma nel gennaio del 1988, quando Falcone, solo per continuare il suo lavoro, il Consiglio superiore della magistratura con motivazioni risibili gli preferì il consigliere Antonino Meli. C’eravamo tutti resi conto che c’era questo pericolo e a lungo sperammo che Antonino Caponnetto potesse restare ancora a passare gli ultimi due anni della sua vita professionale a Palermo. Ma quest’uomo, Caponnetto, il quale rischiava, perché anziano, perché conduceva una vita sicuramente non sopportabile da nessuno già da anni, il quale rischiava di morire a Palermo, temevamo che non avrebbe superato lo stress fisico cui da anni si sottoponeva. E a un certo punto fummo noi stessi, Falcone in testa, pure estremamente convinti del pericolo che si correva così convincendolo, lo convincemmo riottoso, molto riottoso, ad allontanarsi da Palermo. Si aprì la corsa alla successione all’ufficio istruzione al tribunale di Palermo. Falcone concorse, qualche Giuda si impegnò subito a prenderlo in giro, e il giorno del mio compleanno il Consiglio superiore della magistratura ci fece questo regalo: preferì Antonino Meli.

Giovanni Falcone, dimostrando l’altissimo senso delle istituzioni che egli aveva e la sua volontà di continuare comunque a fare il lavoro che aveva inventato e nel quale ci aveva tutti trascinato, cominciò a lavorare con Antonino Meli nella convinzione che, nonostante lo schiaffo datogli dal Consiglio superiore della magistratura, egli avrebbe potuto continuare il suo lavoro. E continuò a crederlo nonostante io, che ormai mi trovavo in un osservatorio abbastanza privilegiato, perché ero stato trasferito a Marsala e quindi guardavo abbastanza dall’esterno questa situazione, mi fossi reso conto subito che nel volgere di pochi mesi Giovanni Falcone sarebbe stato distrutto. E ciò che più mi addolorava era il fatto che Giovanni Falcone sarebbe allora morto professionalmente nel silenzio e senza che nessuno se ne accorgesse. Questa fu la ragione per cui io, nel corso della presentazione del libro La mafia d’Agrigento, denunciai quello che stava accadendo a Palermo con un intervento che venne subito commentato da Leoluca Orlando, allora presente, dicendo che quella sera l’aria ci stava pesando addosso per quello che era stato detto. Leoluca Orlando ha ricordato cosa avvenne subito dopo: per aver denunciato questa verità io rischiai conseguenze professionali gravissime, ma quel che è peggio il Consiglio superiore immediatamente scoprì quale era il suo vero obiettivo: proprio approfittando del problema che io avevo sollevato, doveva essere eliminato al più presto Giovanni Falcone. E forse questo io lo avevo pure messo nel conto perché ero convinto che lo avrebbero eliminato comunque; almeno, dissi, se deve essere eliminato, l’opinione pubblica lo deve sapere, lo deve conoscere, il pool antimafia deve morire davanti a tutti, non deve morire in silenzio.
L’opinione pubblica fece il miracolo, perché ricordo quella caldissima estate dell’agosto 1988, l’opinione pubblica si mobilitò e costrinse il Consiglio superiore della magistratura a rimangiarsi in parte la sua precedente decisione dei primi di agosto, tant’è che il 15 settembre, se pur zoppicante, il pool antimafia fu rimesso in piedi. La protervia del consigliere istruttore, l’intervento nefasto della Cassazione cominciato allora e continuato fino a ieri (perché, nonostante quello che è successo in Sicilia, la Corte di cassazione continua sostanzialmente ad affermare che la mafia non esiste) continuarono a fare morire Giovanni Falcone. E Giovanni Falcone, uomo che sentì sempre di essere uomo delle istituzioni, con un profondissimo senso dello Stato, nonostante questo, continuò incessantemente a lavorare. Approdò alla procura della Repubblica di Palermo dove, a un certo punto ritenne, e le motivazioni le riservo a quella parte di espressione delle mie convinzioni che deve in questo momento essere indirizzata verso altri ascoltatori, ritenne a un certo momento di non poter più continuare ad operare al meglio. Giovanni Falcone è andato al ministero di Grazia e Giustizia, e questo lo posso dire sì prima di essere ascoltato dal giudice, non perché aspirasse a trovarsi a Roma in un posto privilegiato, non perché si era innamorato dei socialisti, non perché si era innamorato di Claudio Martelli, ma perché a un certo punto della sua vita ritenne, da uomo delle istituzioni, di poter continuare a svolgere a Roma un ruolo importante e nelle sue convinzioni decisivo, con riferimento alla lotta alla criminalità mafiosa. Dopo aver appreso dalla radio della sua nomina a Roma (in quei tempi ci vedevamo un po’ più raramente perché io ero molto impegnato professionalmente a Marsala e venivo raramente a Palermo), una volta Giovanni Falcone alla presenza del collega Leonardo Guarnotta e di Ayala tirò fuori, non so come si chiama, l’ordinamento interno del ministero di Grazia e Giustizia, e scorrendo i singoli punti di non so quale articolo di questo ordinamento cominciò fin da allora, fin dal primo giorno, cominciò ad illustrare quel che lì egli poteva fare e che riteneva di poter fare per la lotta alla criminalità mafiosa.

Certo anch’io talvolta ho assistito con un certo disagio a quella che è la vita, o alcune manifestazioni della vita e dell’attività di un magistrato improvvisamente sbalzato in una struttura gerarchica diversa da quelle che sono le strutture, anch’esse gerarchiche ma in altro senso, previste dall’ordinamento giudiziario. Si trattava di un lavoro nuovo, di una situazione nuova, di vicinanze nuove, ma Giovanni Falcone è andato lì solo per questo. Con la mente a Palermo, perché sin dal primo momento mi illustrò quello che riteneva di poter e di voler fare lui per Palermo. E in fin dei conti, se vogliamo fare un bilancio di questa sua permanenza al ministero di Grazia e Giustizia, il bilancio anche se contestato, anche se criticato, è un bilancio che riguarda soprattutto la creazione di strutture che, a torto o a ragione, lui pensava che potessero funzionare specialmente con riferimento alla lotta alla criminalità organizzata e al lavoro che aveva fatto a Palermo. Cercò di ricreare in campo nazionale e con leggi dello Stato quelle esperienze del pool antimafia che erano nate artigianalmente senza che la legge le prevedesse e senza che la legge, anche nei momenti di maggiore successo, le sostenesse. Questo, a torto o a ragione, ma comunque sicuramente nei suoi intenti, era la superprocura, sulla quale anch’io ho espresso nell’immediatezza delle perplessità, firmando la lettera sostanzialmente critica sulla superprocura predisposta dal collega Marcello Maddalena, ma mai neanche un istante ho dubitato che questo strumento sulla cui creazione Giovanni Falcone aveva lavorato servisse nei suoi intenti, nelle sue idee, a torto o a ragione, per ritornare, soprattutto, per consentirgli di ritornare a fare il magistrato, come egli voleva. Il suo intento era questo e l’organizzazione mafiosa – non voglio esprimere opinioni circa il fatto se si è trattato di mafia e soltanto di mafia, ma di mafia si è trattato comunque – e l’organizzazione mafiosa, quando ha preparato ed attuato l’attentato del 23 maggio, l’ha preparato ed attuato proprio nel momento in cui, a mio parere, si erano concretizzate tutte le condizioni perché Giovanni Falcone, nonostante la violenta opposizione di buona parte del Consiglio superiore della magistratura, era ormai a un passo, secondo le notizie che io conoscevo, che gli avevo comunicato e che egli sapeva e che ritengo fossero conosciute anche al di fuori del Consiglio, al di fuori del Palazzo, dico, era ormai a un passo dal diventare il direttore nazionale antimafia.

Ecco perché, forse, ripensandoci, quando Caponnetto dice cominciò a morire nel gennaio del 1988 aveva proprio ragione anche con riferimento all’esito di questa lotta che egli fece soprattutto per potere continuare a lavorare. Poi possono essere avanzate tutte le critiche, se avanzate in buona fede e se avanzate riconoscendo questo intento di Giovanni Falcone, si può anche dire che si prestò alla creazione di uno strumento che poteva mettere in pericolo l’indipendenza della magistratura, si può anche dire che per creare questo strumento egli si avvicinò troppo al potere politico, ma quello che non si può contestare è che Giovanni Falcone in questa sua breve, brevissima esperienza ministeriale lavorò soprattutto per potere al più presto tornare a fare il magistrato. Ed è questo che gli è stato impedito, perché è questo che faceva paura.

E per questo, crediamo, Giovanni Falcone è morto.
 

Transizione Ecologica: abbiamo un piano ma potrebbe non bastare

Il termine “Transizione Ecologica” è ormai entrato nelle agende politiche di tutti i principali leader mondiali con l’obiettivo di correre ai ripari per scongiurare una catastrofe climatica. Anche il nostro paese, a modo suo e con i suoi tempi, sta provando a mettersi al passo.

“L’ambiente e la transizione ecologica sono l’essenza stessa di questo governo. È nato su questo programma. Quindi continuiamo su questa strada” Così, durante un question time alla Camera a inizio marzo, il premier Mario Draghi aveva ricordato ai deputati come l’esecutivo da lui guidato ha tra le priorità la questione ambientale. La crisi climatica che stiamo attraversando, tornata di stretta attualità dopo la tragedia della Marmolada e il caldo record di questi giorni, costringe infatti i governi ad assumersi la responsabilità di trovare una via d’uscita ad una situazione che rischia di aver conseguenze devastanti sul mondo che viviamo. Così nelle agende politiche dei principali paesi del mondo è presente un piano per la Transizione Ecologica, termine utilizzato per indicare il passaggio o la trasformazione da un sistema produttivo intensivo e non sostenibile dal punto di vista dell’impiego delle risorse, a un modello che invece ha il proprio punto di forza nella sostenibilità, ambientale, sociale ed economica. Quando si parla di “Transizione Ecologica”, dunque, si intende quel processo di cambiamento che possa portare al rilancio dell’economia e di interi settori produttivi all’interno di un modello che metta al primo posto la tutela ed il rispetto dell’ambiente.

Ma se a parole sembra semplice e di bon senso, l’attuazione o l’avvio di un reale percorso volto a modificare interamente il sistema produttivo di un paese incontra difficoltà non indifferenti. Un primo passo in questa direzione nel nostro paese è stato fatto il 26 febbraio 2021 quando con la nascita del Governo Draghi è stato istituito il primo Ministero della Transizione Ecologica nella storia del nostro paese. Tale ministero, che ha sostituito il Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Mare, opera in stretto raccordo con il Ministero dello Sviluppo Economico con l’obiettivo di trovare un punto di incontro tra le esigenze economico-produttive e la necessità di una riconversione green del sistema. Ma se fino ad ora l’impegno del Governo non si era concretizzato in altro se non nelle dichiarazioni di Draghi e Cingolani, adesso l’Italia ha un piano. Nel vero senso della parola. 

Nel mese di giugno è stato infatti pubblicato il “Piano per la Transizione Ecologica” (PTE), uno strumento di programmazione nazionale volto a indirizzare le future decisioni in modo da coniugare le esigenze economiche e lavorative con quelle ambientali definendo un quadro concettuale anche per gli interventi previsti dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR). Nelle sue premesse, il Pte enuncia l’intenzione di perseguire un “approccio sistemico, orientato alla decarbonizzazione ma non solo; caratterizzato da una visione olistica e integrata, che include la conservazione della biodiversità e la preservazione dei servizi ecosistemici, integrando la salute e l’economia e perseguendo la qualità della vita e l’equità sociale”. Nell’individuare nella decarbonizzazione, nella mobilità sostenibile e nell’abbassamento della soglia di inquinamento come priorità assolute da perseguire, il piano evidenzia tre presupposti necessari affinché si attivi realmente una transizione ecologica: il consenso, la partecipazione e un approccio non ideologico alle questioni; la centralità della ricerca scientifica; la semplificazione delle regole che governano l’attuazione dei progetti. Senza il verificarsi di queste tre condizioni la transizione ecologica è destinata ad esaurirsi in un nulla di fatto. Per raggiungere gli obiettivi contenuti nel piano, l’Italia si è data tempo fino al 2050, “”anno in cui il nostro paese deve conseguire l’obiettivo, chiaro e ambizioso, di operare “a zero emissioni nette di carbonio” e cioè svincolandosi da una linearità tra creazione di ricchezza e benessere con il consumo di nuove risorse e/o aumento di emissioni”. Un tempo evidentemente lungo, vista l’impossibilità di raggiungere obiettivi così ambiziosi nel breve periodo, che rende necessaria una continua revisione del PTE per renderlo il più possibile attuabile nel corso degli anni. Quella presentata a giugno, infatti, altro non è che una prima versione che funga da quadro generale e punto di partenza per l’elaborazione di una strategia concreta. Come esplicitato nel documento, infatti, “l’attuazione degli interventi previsti dal Piano per la transizione ecologica e dal PNRR necessitano di una efficiente pubblica amministrazione e di una accurata e precisa metodologia, basata sulla quantificazione in termini di emissioni, lavoro e flussi finanziari secondo la prospettiva del ciclo di vita […] Ulteriori elementi, dati quantitativi e cronoprogrammi saranno contenuti in una secondo documento”.

Vista l’impossibilità di pianificare interventi concreti su un periodo di tempo così lungo, dunque, sarà necessaria una costante revisione delle misure previste dal piano per renderle quanto più possibile attuali e realizzabili. Ma se quello descritto sin qua sembra essere uno scenario quasi idilliaco, con un programma di massima per arrivare ad una piena transizione entro il 2050, nella realtà nasconde diverse insidie. Su tutte vi è una questione strettamente politica data dalle diverse sensibilità sul tema dei vari partiti che potrebbe influire, e non poco, sull’attuazione del piano. Come stabilito nel PTE, infatti, ogni 31 maggio dovrà essere presentata una relazione sullo stato dell’arte e l’attuazione del piano per ricalibrare gli obiettivi e immaginare misure concrete da adottare per raggiungerli entro l’anno successivo. Una revisione annuale in un paese in cui temi, urgenze e priorità dei partiti vengono stravolti da un giorno all’altro rischia di esporre in modo irrimediabile un argomento così importante alle oscillazioni politiche che caratterizzano il nostro sistema. Se il 31 maggio prossimo al governo ci dovesse essere una forza politica che ha a cuore l’ambiente allora il piano potrebbe diventare centrale nella programmazione dei lavori. Se, al contrario, al governo ci fosse un partito (o una coalizione) poco interessata a questi temi si potrebbe creare uno stallo con l’implementazione della transizione ecologica ferma in attesa di risposte. E così per tutti gli anni successivi, fino al 2050.

Il rischio è dunque che il tema della transizione ecologica, la cui importanza è sotto gli occhi di tutti oggi più che mai, diventi una carta politica come tante altre da utilizzare per fare pressione sugli avversari e ottenere quello che si vuole. L’elaborazione di un piano è un punto di partenza fondamentale ed imprescindibile che il nostro paese stava aspettando da tempo ma potrebbe non essere sufficiente. Ora è necessario che quel piano venga attuato e che da oggi fino al 2050 tutte le forze in campo si adoperino affiche gli obiettivi stabiliti da questo governo vengano raggiunti il prima possibile. Non è immaginabile che ogni governo che si insedierà da qui al 2050 possa riconsiderare il PTE per questioni ideologiche o partitiche. Ne va del futuro di tutti. 

Cos’è la sentenza “Roe v. Wade” e perché il diritto all’aborto negli USA è in pericolo

Secondo quanto riportato dal quotidiano “Politico”, la Corte Suprema potrebbe ribaltare la sentenza “Roe v. Wade” su cui si basa il diritto all’aborto riportando gli USA indietro di cinquant’anni in materia di interruzione di gravidanza. 

L’indiscrezione che arriva dal quotidiano “Politico” è di quelle che lasciano senza parole: La Corte Suprema degli Stati Uniti si prepara a ribaltare la storica sentenza “Roe vs. Wade” del 1973 con la quale si è di fatto legalizzato l’aborto in gra parte degli stati americani. Stando a quanto riportato dal quotidiano, che cita fonti interne alla Corte, la maggioranza dei giudici che compongono la corte sarebbero pronti ad approvare una decisione presentata da Samuel Aito il 10 febbraio con l’obiettivo di ribaltare la storica sentenza. Qualora la decisione venisse approvata così com’è stata diffusa da Politico, essa rappresenterebbe la fine del diritto d’aborto negli Stati Uniti e spingerebbe verso legislazioni più severe su questo tema eliminando di fatto gli effetti della storica sentenza e riportando la situazione a com’era fino al 1973.

Prima della sentenza “Roe vs. Wade”, infatti, l’aborto negli Stati Uniti era disciplinato in modo autonomo da ciascuno stato con leggi nazionali senza che vi fossero indicazioni a livello federale. La conseguenza era che in oltre la metà degli stati, prevalentemente a guida repubblicana, l’aborto era considerato totalmente illegale, in altri tredici stati era consentito solo in caso di stupro, incesto, malformazioni fetali o in caso di pericolo per la madre mentre solo in quattro stati era considerato legale. In questo contesto si colloca la storia di Jane Roe,pseudonimo di Norma Leah McCorvey scelto per tutelarne la privacy. Dopo la separazione dei suoi genitori, Norma abbandonò la scuola e si sposò a 16 anni con un uomo violento da cui venne più volte maltrattata. Mentre era incinta del terzo figlio, a soli 18 anni, decise di fare causa all’uomo per interrompere la gravidanza. Così, con il supporto tra le altre delle avvocatesse Sarah Weddington, Linda Coffee e Gloria Allred, decise di avviare un processo davanti alla Corte Distrettuale contro le leggi anti-aborto del Texas. La sua richiesta venne accolta sulla base di un’interpretazione dell’Emendamento IX della Costituzione americana che recita: “L’interpretazione di alcuni diritti previsti dalla Costituzione non potrà avvenire in modo tale da negare o disconoscere altri diritti goduti dai cittadini”. Il rappresentante legale dello Stato del Texas, l’avvocato Henry Menasco Wade, decise di appellarsi alla Corte Suprema. Il suo nome, assieme allo pseudonimo della querelante, ha dato il nome al processo che divenne così il caso “Roe vs. Wade”. Il 22 gennaio 1973, la Corte Suprema riconobbe così il diritto della donna ad interrompere la gravidanza anche in assenza di malformazioni fetali o pericoli per la sua salute riconoscendo l’aborto come un vero e proprio diritto e facendolo così entrare per la prima volta nella legislazione federale.

Se la Corte Suprema oggi decidesse di ribaltare quella sentenza, stabilendo dunque che il diritto all’aborto non è più riconosciuto a livello federale, la palla passerebbe nuovamente agli stati che potrebbero così decidere in autonomia come legiferare sul tema. Se ciò dovesse accadere in tutti gli stati, in assenza di nuove norme sul tema, tornerebbe in vigore la legislazione precedente alla sentenza “Roe vs. Wade”. Sarebbe dunque necessario rivedere la legislazione di ogni stato per garantire il diritto all’aborto, un tema su cui, però, i Repubblicani non intendono fare passi indietro e sembrano intenzionati a mantenere in essere i divieti negli stati che governano. Si tratterebbe, in questo caso, del cupo culmine di una campagna sempre più conservatrice attuata dai Repubblicani e dalle varie organizzazioni anti-aborto che negli ultimi anni hanno più volte tentato invano di rovesciare la sentenza per impedire l’interruzione di gravidanza. Il tutto mentre gli sforzi dei Democratici per codificare la decisione, inserendola definitivamente in una legge federale e non solo in una sentenza della corte, sono sempre naufragati vista l’impossibilità di trovare voti a favore dell’aborto tra i Repubblicani al Senato. Una mano alle donne americane, intanto, è già stata tesa dal Canada con Karina Gould, ministro per la famiglia canadese, che ha sottolineato come “se le donne americane volessero abortire, qui troverebbero certamente accoglienza”.

Quattro attentati e una nuova ondata di repressione. Cosa sta succedendo in Israele?

I quattro attacchi in quattro diverse città israeliane tra il 22 marzo e il 9 aprile rappresentano la più letale ondata di violenza dal 2016 ad oggi con quattordici vittime. Ma la situazione sembra essere più complicata di come sembra e non si può ridurre all’eterno conflitto tra Israele e Palestina.

L’attuale ondata di attacchi terroristici in Israele è stata inquadrata da partiti palestinesi e gruppi militanti come una logica conseguenza del radicamento dei 55 anni di occupazione israeliana della Cisgiordania, del controllo israeliano su siti religiosi sensibili a Gerusalemme e della diminuzione dell’impegno di alcuni leader arabi chiave per la creazione di uno stato palestinese. Ma la situazione appare essere più complessa e non riconducibile esclusivamente alle rivendicazioni dei grandi gruppi palestinesi su Israele.

Gli ultimi due attacchi, che hanno provocato un totale di sette vittime a Tel Aviv e Bnei Brak, sono stati condotti da palestinesi provenienti da territori occupati della Cisgiordania ma gli attentati non sono stati rivendicati ufficialmente da nessun gruppo politico palestinese e, pur elogiandone l’azione, hanno negato ogni legame con gli attentatori. Ancor più complesso il quadro dei primi due attacchi, effettuati da tre membri della minoranza araba israeliana che negli ultimi mesi si erano radicalizzati ed erano ritenuti vicino all’ISIS, che ha prontamente rivendicato l’attacco. Non sembra dunque emergere una regia comune dietro gli attacchi che ad oggi appaiono più come i gesti estremi di soggetti radicalizzati senza spinte di gruppi o movimenti politici. Attacchi come quelli delle ultime settimane, anzi, sembrano essere inutili per la causa palestinese e la reazione della popolazione della Cisgiordania con la mancata rivendicazione degli attacchi sembrano indicare proprio la consapevolezza della scarsa utilità di questi atti terroristici. Ogni palestinese ha senza dubbio molti motivi per desiderare che gli israeliani provino dolore perché nella loro visione sono tutti, e non solo il loro governo, responsabili della drammatica situazione dei palestinesi. E probabilmente proprio da qui nasce il desiderio degli attentatori di colpire quanti più israeliani possibili. Ma la maggior parte dei palestinesi si discosta da questo pensiero e sa che gli attacchi di singoli individui spinti dalla disperazione o dalla vendetta non sono mai serviti, non servono e non serviranno a ottenere niente. Non cambieranno l’equilibrio di potere.

Ed è per questo che, pur comprendendo e talvolta condividendo le motivazioni degli attentatori, la maggior parte dei palestinesi resta indifferente agli attacchi e non si registrano particolari tentativi di seguire quella strada da parte di una fetta più ampia della popolazione. E non perché sarebbe impossibile. Migliaia di palestinesi senza un permesso di lavoro entrano ogni giorno in Israele attraverso le numerose brecce nella barriera di separazione. Succede da anni, e polizia ed esercito ne sono al corrente. Come tutti sanno, tra i palestinesi in Israele e in Cisgiordania c’è abbondanza di armi e munizioni. Quindi si sarebbero potuti verificare molti più attacchi individuali che non sarebbero potuti essere sventati in anticipo. Tutti i palestinesi avrebbero buoni motivi per desiderare d’incrinare la falsa normalità dei cittadini israeliani, che per lo più ignorano il fatto che il loro stato agisce instancabilmente, giorno e notte, per spogliare un numero sempre maggiore di palestinesi delle loro terre e dei loro storici diritti collettivi in quanto popolo e società. Ma non lo fanno perché lo reputano inutile per la causa se non addirittura dannoso.

Nonostante il tradizionale sostegno emotivo per la resistenza armata, la maggioranza sa che per il momento, anche se questa lotta riprendesse in modo strutturato e ampio e anche se fosse pianificata meglio rispetto quanto avvenuto nella seconda intifada, non potrebbe sconfiggere Israele né migliorare la sorte dei palestinesi. La falsa normalità di Israele, certo, in qualche modo si è incrinata. Pur non essendoci un collegamento diretto tra gli attentati e la popolazione palestinese, infatti, Israele ha colto l’occasione per intensificare la propria repressione nei territori occupati in Cisgiordania con una serie di rappresaglie anche simboliche, come l’abbattimento di ulivi e il danneggiamento di case e auto palestinesi. Giovedì 31 marzo almeno due palestinesi sono rimasti uccisi durante un raid nel campo profughi di Jenin, un terzo su di un autobus. Il 30 marzo due fratelli palestinesi, accusati dai poliziotti israeliani di star preparando un attentato, sono stati arrestati nella Gerusalemme ovest dopo che la polizia ha sparato loro alle gambe. I media palestinesi denunciano decine di arresti tra la popolazione. Come se non bastasse, in seguito agli attacchi, il primo ministro israeliano Naftali Bennett si è rivolto alla popolazione con un video nel quale ha affermato “Cosa ci si aspetta da voi cittadini israeliani? Vigilanza e responsabilità. A chi ha il porto d’armi dico che questo è il momento di tenere sempre le armi a portata di mano”. Un netto incitamento alla violenza accompagnato da una militarizzazione totale delle strade con oltre un migliaio di soldati schierati nelle città pronti a colpire la popolazione palestinese. Una reazione che, però, non sembra avere degli obiettivi specifici ma appare più come una ritorsione. Una violenza estrema contro obiettivi casuali che possa agire da deterrente per chiunque volesse provare ad imitare gli attentatori delle ultime settimane.

La Cannabis Light diventa illegale? Facciamo il punto.

“La cannabis light diventa illegale”. Una notizia che da giorni rimbalza sui social e sui quotidiani italiani a seguito di un decreto interministeriale approvato mercoledì. Ma cosa dice realmente il decreto? E cosa può succedere adesso?

Nel corso della seduta di mercoledì della conferenza Stato-Regioni si è raggiunta un’intesa per la realizzazione di un decreto interministeriale che possa ridefinire “l’elenco delle specie di piante officinali coltivate nonché criteri di raccolta e prima trasformazione delle specie di piante officinali spontanee”. Il decreto coinvolge i ministeri della Salute dell’Agricoltura e della Transizione ecologica ed è finito al centro delle polemiche perché rischierebbe, di fatto, di cancellare l’intero settore basato sulla produzione ed il commercio della cosiddetta “cannabis light”, ossia quella con un livello di THC inferiore allo 0,6% la cui filiera è stata regolamentata nel 2016. Ad allertare l’intero settore è in particolare il punto 4 del decreto, in cui si fa sottostare “la coltivazione delle piante di cannabis ai fini della produzione di foglie e infiorescenze o di sostanze attive a uso medicinale” al Testo unico sugli stupefacenti, a prescindere che vi siano o meno sostanze psicoattive al di sopra dei limiti della legge sulla filiera agroindustriale della canapa del 2016. Il che, tradotto, significa equiparare la cannabis light a quella con un livello di THC superiore alla soglia consentita rendendo di fatto illecita la produzione e il commercio di entrambe. 

Oltre alle ricadute sui consumatori, il decreto in questione metterebbe a rischio un settore economico che negli ultimi anni ha avuto una crescita esponenziale grazie alla liberalizzazione del 2016. Ad oggi il comparto della cannabis light conta solo in Italia circa 3.000 aziende per un totale di oltre 15.000 dipendenti, per lo più giovani, e rischia ora di sparire a causa di un’inversione di marcia improvvisa ed inaspettata. In virtù di questa nuova norma, infatti, dalla data di efficacia del decreto, tutti i coltivatori e i rivenditori di infiorescenze di ‘cannabis light’ sarebbero passibili delle sanzioni derivanti dall’apparato penale del DPR 309/90 che ne vieta la coltivazione senza un’autorizzazione da parte del Ministero della Salute. “Ci hanno resi illegali” il commento a caldo di Luca Fiorentino, 26 anni e fondatore di una delle principali imprese che produce e distribuisce cannabis light. “Rischiamo di essere considerati spacciatori e di chiudere tutto. Rischiamo persino l’arresto immediato oltre all’accusa pesantissima di vendere grandi quantitativi di stupefacente che stupefacente non è”.

Ma è davvero tutto finito? Il decreto pone fine realmente al commercio di cannabis light? Sembrerebbe, in realtà, di no. A spiegare il provvedimento, e provare a far chiarezza sulla situazione attulae, ci ha provato l’avvocato Carlo Alberto Zaina in un lungo post in cui si è dimostrato particolarmente scettico sul provvedimento. In primo luogo, infatti, nel testo si usa in modo generico il termine “piante di cannabis” senza menzionare in modo specifico le piante di canapa sativa.

È  ben vero” spiega Zaina “che questa ultima specie rientra in quella più generale, ma così come concepita l’espressione usata in decreto appare pleonasticamente sconcertante. La coltivazione di Cannabis (termine questo che, invero, riguarda usualmente le piante idonee a produrre un alto contenuto di THC) è naturalmente illecita e riconducibile all’ambito del dpr 309/90. Non vi era, quindi, certo necessità di ribadire un concetto solare. Da altro lato, invece, non si comprende se menzionando la coltivazione di piante di cannabis ai fini della produzione di foglie ed infiorescenze e facendo seguire alle stesse il termine “sostanze attive ad uso medicinale”, il redattore del decreto abbia fatto solo una grossolana confusione, oppure abbia inteso – seppure malamente – collegare direttamente le foglie e le infiorescenze all’uso medicinale.” 

A ciò si aggiunge la natura del testo che, in quanto decreto interministeriale, non ha valenza giuridica paragonabile a quella di una legge ma un grado inferiore:

“Un decreto ministeriale (D.M.), che diviene, come nella specie, interministeriale quando impegna la competenza di diversi dicasteri e deve quindi essere adottato di concerto tra gli stessi, è un mero atto amministrativo.” chiarisce Zaina “Esso come tale è suscettibile di essere impugnato dinanzi al TAR, diversamente da una legge, che al più potrebbe venire dichiarata incostituzionale o disapplicata ai sensi l’art. 4 della legge 20 marzo 1865, n. 2248 (All. E). Nella gerarchia delle fonti del diritto questa tipologia di atti, riconducibili alla specie dei regolamenti, viene, quindi, definita come fonte secondaria statale per eccellenza. In buona sostanza, un atto puramente amministrativo non può derogare, quanto al contenuto, alla Costituzione e agli atti aventi forza di legge sovraordinati, né può avere ad oggetto incriminazioni penali, stante la riserva assoluta di legge che vige in detta materia.”

Si tratta, insomma, di un testo confuso che costituirebbe l’ennesimo tentativo malriuscito di criminalizzare il settore della coltivazione della canapa e che proprio per la confusione che crea potrebbe generare non pochi problemi a chi opera in questo comparto. Il testo, dunque, non modifica la legge del 2016 sulla cannabis light ma la interpreta, specificandola, approfittando delle zone grigie presenti nella normativa italiana. Il vero rischio, dunque, è che magistratura e forze dell’ordine si facciano forti di questo decreto per giustificare operazioni e sequestri che, fino ad oggi, sarebbero finite in un nulla di fatto. 

E mentre dalla conferenza Stato-Regioni si prova a sbarrare la strada alla cannabis light, la Cassazione ha riconosciuto come valide le oltre 600.000 firme raccolte dal comitato promotore per la realizzazione di un Referendum sulla legalizzazione della cannabis con un livello di THC superiore allo 0,6%. La palla ora passa alla Corte Costituzionale che il 15 febbraio esprimerà il proprio parere sulla proposta e, in caso di via libera, spianerà la strada per l’indizione del referendum.

La surreale vicenda del pm che denuncia il giornalista perché ha svelato i suoi errori

Nei giorni scorsi Lorenzo Tondo, giornalista del “The Guardian, ha ricevuto la notifica della prima udienza del suo processo che si terrà il 2 febbraio prossimo. La sua colpa? Aver svelato al mondo gli errori di un giudice italiano che ha condannato un innocente credendolo un trafficante.

Un grossolano errore giudiziario, di quelli che non dovrebbero accadere. Un giornalista tra i più autorevoli in tutta Europa che se ne accorge e decide di indagare. Un reportage che fa luce sulla vicenda gettando ombre inquietanti sul lavoro della magistratura. Una vicenda surreale che si chiude con la corte d’assise che dà ragione al giornalista confermando l’errore giudiziario e disponendo il rilascio dell’imputato. Ma in quella che sembra la trama di un libro c’è tempo per un ultimo colpo di scena: la notifica recapitata al giornalista che comunica l’inizio di un processo a suo carico il 2 febbraio 2022. L’accusa? Aver diffamato i pm con il suo reportage.

Ma facciamo un passo indietro. È il 2016 quando Calogero Ferrara, sostituto procuratore a Palermo, annuncia di aver disposto e portato a termine l’arresto del “Generale” Medhanie Yehdego Mered, uno tra i principali trafficanti di esseri umani. La notizia rimbalza sui principali siti di informazione d’Europa e sembra essere il punto più alto della lotta al traffico di esseri umani. Ma qualcuno si insospettisce. Secondo Lorenzo Tondo, giornalista del “The Guardian”, c’è qualcosa che non quadra in quella vicenda e decide di conseguenza di approfondirla seguendo le udienze e indagando sull’uomo arrestato. Quello che emerse da quel reportage fu clamoroso: l’uomo estradato in Italia perché considerato il più sanguinoso trafficante di esseri umani altro non era che un profugo eritreo che faceva il falegname a Khartoum con l’unica colpa di avere lo stesso nome del “generale” ricercato. Uno scambio di persona che ha portato in carcere un innocente lasciando a piede libero il vero trafficante. Perché, nonostante le inchieste di Tondo e le prove portate a processo dall’avvocato della difesa, quel processo si concluse con la condanna di Mered. Quello sbagliato, ovviamente. Solo nel 2019, dopo tre anni di detenzione in carcere, la Corte d’Assise di Palermo riconobbe l’errore ed ordinò l’immediata scarcerazione dell’uomo. 

Ma le inchieste condotte dal giornalista del Guardian non sono mai state digerite dal pubblico ministero. Tra il dicembre 2019 e il gennaio 2020, infatti, Ferrara ha presentato due denunce per diffamazione a carico di Tondo: la prima per i suoi post su Facebook in cui chiedeva di fare chiarezza sul caso, la seconda per le sue inchieste sul Guardian e la sua indagine parallela a quella della magistratura. Ora, conclusosi il processo di mediazione, Ferrara ha deciso di confermare entrambe le cause e Tondo dovrà presentarsi in aula per difendersi dalle accuse del PM. “Il caso di Lorenzo Tondo è emblematico delle difficoltà che vive oggi il giornalismo indipendente in Italia”, ha commentato l’avvocato nominato dal Guardian, Andrea Di Pietro, che da anni segue le peripezie giudiziarie dei giornalisti. “La critica che spesso si rivolge ai cronisti giudiziari italiani è di essere troppo dipendenti dai pubblici ministeri i quali interagiscono con la stampa solo quando questa è disposta a raccontare la loro versione dei fatti”. Criticare un PM in Italia espone i reporter al rischio di dover affrontare, nella quasi totalità dei casi, querele o denunce in un meccanismo perverso che limita la libertà di stampa. 

Il caso, ora, è al centro dell’attenzione internazionale e il processo a Tondo potrebbe diventare il simbolo delle libertà di stampa violate. Sulla vicenda è intervenuta anche la Piattaforma del Consiglio d’Europa per la protezione del giornalismo e la sicurezza dei reporter che indicato come una potenziale “intimidazione” la doppia querela presentata da Ferrara. Un’intimidazione che, però, non può funzionare. Tondo ha ricevuto pieno supporto dal suo giornale, il Guardian, che ha deciso di sostenere interamente le spese legali mentre tutto il mondo del giornalismo europeo e non solo si è stretto intorno al collega a difesa di una libertà che deve rimanere inviolabile. Lorenzo non è solo oggi e non lo sarà nemmeno il 2 febbraio in aula.

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