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La flat tax è incostituzionale?

La protagonista assoluta della campagna elettorale del centrodestra e la Flat Tax, una tassazione con aliquota uguale per tutti che, secondo analisti e avversari politici, rischia di essere incostituzionale. Proviamo a capire perché e se è realmente così.

Manca meno di un mese alle elezioni politiche del 25 settembre e nella fase più delicata di questa inedita campagna elettorale agostana il centrodestra lavora per convincere gli indecisi rilanciando un tormentone della scorsa campagna elettorale: la Flat Tax. D’altra parte il taglio delle tasse è da sempre cavallo di battaglia del centrodestra ed in particolare dell’ex premier Silvio Berlusconi che già promette agli elettori di attuare la riforma del fisco nei primi cento giorni di governo. Ma in questi giorni molti analisti e avversari politici stanno sottolineando come la proposta fiscale del centrodestra possa risultare incostituzionale in quanto contraria all’art. 53 della Costituzione che recita: “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”.

Per capire se sia realmente così bisogna far chiarezza innanzitutto su cosa prevede la riforma fiscale inserita nel programma di centrodestra. Il sistema attuale è progressivo e prevede quattro diverse aliquote in base al reddito imponibile annuo: chi, ad esempio, ha un reddito fino ai 15.000 euro si trova così nel primo scaglione e dovrà versarne il 23% in tasse, mentre chi guadagna oltre 50.000 euro annui si trova nell’ultimo scaglione dovrà versarne il 43%. Si tratta, come evidente, di un sistema che punta alla redistribuzione delle ricchezze, come previsto dalla Costituzione, con tassazioni più elevate per chi ha redditi maggiori. Con la riforma fiscale pensata dal centrodestra e basata su una flat tax, invece, sparirebbero i quattro scaglioni previsti attualmente e si applicherebbe la stessa aliquota a tutti i redditi. In questo modo, dunque, chi ha un reddito annuo inferiore ai 15.000 euro pagherebbe la stessa percentuale di chi ha un reddito superiore ai 50.000 euro.  È evidente come il sistema sin qui descritto non sia né progressivo né in grado di tenere conto della capacità contributiva dei singoli nuclei ed apparirebbe assolutamente incostituzionale.

La Flat Tax, quindi, è irrealizzabile senza modifiche alla costituzione? La risposta è no. Nonostante le parole del senatore di Fratelli d’Italia Massimo Mallegni che nel corso di un dibattito ha sottolineato come sia necessaria una modifica della Carta costituzionale, la realtà è che la flat tax può essere introdotta con legge ordinaria senza intaccare la Costituzione. Anzi, la flat tax in Italia già esiste: il reddito dei lavoratori a partita IVA, infatti, è già tassato al 15% senza distinzioni sul reddito annuo. Per estendere questo sistema a tutti i contribuenti senza renderlo incostituzionale, però, sarà necessario introdurre dei correttivi che rendano meno “piatta” la Flat Tax avvicinandola il più possibile a quella progressività richiesta dalla Costituzione. Qualche indicazione su come i partiti di centrodestra intendano impostare la riforma fiscale ci arriva dal disegno di legge presentato dalla Lega nel maggio 2020, a firma del senatore Siri, per l’introduzione e l’implementazione di una tassa piatta. Nella proposta del carroccio per superare i dubbi di costituzionalità erano stati inseriti una “no tax area”, volta a salvaguardare i redditi più bassi esentando dal versamento delle imposte i contribuenti con reddito inferiore a 10.000 euro, e una serie di detrazioni e deduzioni graduate in base al reddito ed alla situazione familiare mirate a rendere più equa la tassazione. Se dunque senza correttivi sarebbe improponibile, impostata in questo modo la Flat Tax non risulterebbe incostituzionale e potrebbe rispettare il criterio della progressività fiscale. 

Ma se costituzionalmente un sistema fiscale come quello proposto dal centrodestra può essere accettabile, è evidente come questa riforma sia espressione di un momento politico-sociale caratterizzato da un forte individualismo e da una scarsa coesione. Sembra assai lontana quella “nuova stagione dei doveri” più volte richiamata nella storia repubblicana, e ripresa anche dal Presidente Mattarella negli ultimi anni, perché necessaria a salvare l’Italia da pericolose derive. La Flat Tax proposta dal centrodestra è la fine di quel principio di solidarietà di cui parla l’art. 2 della nostra Costituzione auspicando “l’adempimento di doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. Il dovere di concorrere alle spese pubbliche, come stabilito da dottrina e giurisprudenza, è un dovere di solidarietà economica e sociale che richiede una tassazione progressiva basata su un sistema che riconosca la capacità contributiva di ciascuno. L’eliminazione, seppur attraverso correttivi, di un fisco progressivo mina quei principi stabiliti dalla Carta pur non violandoli espressamente. Ma al di là di una questione meramente astratta e sociologica come quella relativa all’art. 2, c’è anche una questione pratica che rende la tassa piatta inadeguata alla situazione in cui versa il nostro paese. Come si può pensare di mantenere i conti in ordine imponendo un’aliquota al 15% (o al 23% come proposto da Forza Italia), più bassa cioè anche dell’aliquota minima prevista dal sistema attuale che tassa al 23% i redditi inferiori ai 15.000 euro? È evidente come le entrate sarebbero nettamente inferiori. E, in un paese in cui il sommerso è di oltre 80 miliardi ogni anno, a poco valgono le parole dei leader del centrodestra che sostengono che con una tassazione del genere anche ci oggi evade le tasse inizierebbe a pagarlo. L’unica cosa certa è che alle condizioni attuali, una flat tax al 15% non potrebbe garantire le coperture necessarie. Forse bisognerebbe, prima di rivedere il sistema fiscale, occuparsi in modo serio e concreto del problema dell’evasione fiscale in Italia.

Gli Stati Uniti e il rischio concreto di una nuova Guerra Civile

Il blitz dell’FBI di settimana scorsa è tornato ad infiammare gli animi dei sostenitori estremisti di Trump, vittima secondo loro di un uso politico della giustizia, facendo di nuovo temere per una crisi sociale e politica che potrebbe sfociare in qualcosa di più grave.

Sono bastati pochi minuti. È bastato che Donald Trump mettesse in rete la notizia della perquisizione della sua residenza a Mar-a-Lago da parte dell’FBI e immediatamente il popolo dei suoi supporter si è mobilitato. Una folla di irriducibili trumpiani si è radunata a Palm Beach davanti alla casa dell’ex presidente, che in quel momento però si trovava a New York, per proteggerlo da quello che a loro modo di vedere è l’ennesimo sopruso. Una valanga di post e commenti hanno invaso i social network: “Questo è un attacco politico orchestrato da Biden”, “Non avremo mai più elezioni libere” o ancora “io ho già comprato le munizioni”. Proprio così, perché bastano pochi minuti perché tra i temrini più cercati su Google finiscano “guerra civile” e “lock and load”, termine utilizzato nel gergo militare per indicare un’arma da fuoco carica e pronta per essere usata. D’altronde è dall’assalto al congresso del 6 gennaio scorso che gli Stati Uniti d’America, la più grande democrazia occidentale, temono quello che sulla carta sembra impensabile ma che nella realtà sembra sempre meno impossibile: una nuova guerra civile.

Se questa volta, dopo la notizia delle perquisizioni a casa di The Donald, la violenza è stata solo minacciata con centinaia di post su social e forum di estrema destra, la sensazione è che la rabbia sociale seminata da Trump dopo la sconfitta elettorale stia continuando a dare i suoi frutti. La sua narrazione di uomo vittima di un uso politico della giustizia volto a toglierlo di mezzo per permettere al solito establishment di governare sta continuando ad infiammare gli animi con la conseguenza che parte dell’opinione pubblica americana prende per vere le parole dell’ex presidente condividendone il rancore verso chi governa. Si è venuta così a creare una crisi di legittimità senza precedenti per cui ogni decisione politica o giudiziaria diversa da quelle auspicate da dai sostenitori dell’ex presidente devono essere considerate come prese per fermare Trump e dunque per scardinare la democrazia a favore dei soliti potenti. E di conseguenza, ogni decisione invisa ai trumpiani potrebbe scatenare ondate di violenza e ribellione come accaduto il 6 gennaio con l’assalto al campidoglio e come ha rischiato di avvenire settimana scorsa dopo le perquisizioni a casa di Trump.

Nel libro “How Civil Wars start” la politologa Barbara F. Walter sostiene che a scatenare le guerre civili tendono ad essere gruppi sociali precedentemente dominanti non più soddisfatti dello stato delle cose che, per ritornare allo status quo precedente, fomentano disordini e violenze istigando gli altri a fare lo stesso. Una definizione che sembra calzare a pennello per tutti quei movimenti estremisti legittimati da Donald Trump durante il suo mandato ed ora ritornati ai margini della società democratica. Le milizie paramilitari di estrema destra, infatti, dopo aver vissuto anni di centralità grazie alla presidenza di The Donald ora sono relegati a un ruolo marginale, osteggiati da istituzioni e forze dell’ordine. Il loro legame con l’ex presidente, che per tutto il suo mandato li ha coccolati e alimentati, sembra indissolubile e gruppi come gli “Oath Keepers” o i “Proud Boy” sembrano adesso disposti a tutto per sostenere la sua causa. La loro causa.

A ciò si aggiunge la stagione caotica in cui si trovano gli Stati Uniti stretti tra vendette incrociate, scollamento tra gli stati con quelli a guida repubblicana che rivendicano il diritto di disubbidire alle disposizioni federali o, addirittura, minacciano la secessione, come hanno appena fatto 13 deputati trumpiani del New Hampshire. Una situazione la cui gravità è stata sottolineata anche in una recente intervista da Noam Chomsky, linguista e più importanti attivista politico statunitense, secondo cui i repubblicani fedeli a Trump avrebbero sfruttato le spaccature sociali e culturali per alimentare una guerra alla democrazia che possa permettere al partito Repubblicano di controllare le prossime elezioni. Si tratta della teoria dello “Slow Motion Coup”, letteralmente “colpo di stato al rallentatore”, sempre più diffusa tra studiosi e intellettuali americani e che sostiene che Trump e i suoi sostenitori stiano già lavorando nell’ombra per tornare al potere nel 2024. Le prove a sostegno di questa tesi sono molte: diversi candidati repubblicani, che ancora negano la sconfitta elettorale di Trump, sono ora in corsa per aggiudicarsi posizioni chiave dalle quali inclinare a proprio piacere l’ago della bilancia nelle prossime elezioni. Non solo: nell’ultimo anno sono stati almeno 19 gli Stati americani a guida repubblicana a varare provvedimenti restrittivi volti a limitare il diritto di voto: ad esempio riducendo le tempistiche per richiedere il voto per corrispondenza o rendendo più complicato l’accesso ai seggi. A fare le spese, sebbene nessun provvedimento legislativo citi direttamente alcuna categoria, sono sicuramente le minoranze razziali, i poveri e gli anziani, così come denunciato dallo stesso presidente Biden.

Gli stati uniti sembrano dunque sempre più sull’orlo di una crisi sociale e politica che potrebbe tramutarsi, nello scenario peggiore, in una vera e propria guerra civile armata fomentata dalle milizie paramilitari di estrema destra. Milizie che ad oggi sarebbero già pronte all’azione, come dimostra la rapida mobilitazione a sostegno di Trump la settimana scorsa, ma che fino ad ora sembrano essersi trattenute in attesa forse di un segnale. Visto come andò con l’assalto al campidoglio il 6 gennaio 2021, però, la domanda sorge spontanea: Cosa accadrebbe se fosse lo stesso Trump a chiedere di iniziare a combattere?

Come funziona la legge elettorale e perché rende indispensabili le alleanze

Dalla caduta del governo Draghi ad oggi un tema più di tutti ha riempito le pagine dei quotidiani: le alleanze. Un tema spinoso ma che va necessariamente affrontato all’interno dei partiti a causa di una legge elettorale che sfavorisce chi corre da solo. 

Era il marzo 2018 quando tutta Italia si rese drammaticamente conto dell’inadeguatezza della legge elettorale in vigore: il Rosatellum. In quell’occasione, complice la definitiva scomparsa del bipolarismo con l’ascesa del Movimento 5 Stelle, le urne non consegnarono una vittoria netta a nessun partito o coalizione ma costrinsero i principali leader politici a lunghe trattative per la nascita del governo. Ottanta giorni. Tanto fu necessario perché a seguito delle elezioni si trovasse un accordo per la nascita del primo governo Conte. Uno stallo indecoroso che, sommato al taglio dei parlamentari approvato nel 2020 tramite referendum, convinse tutte le parti politiche della necessità di rivedere la legge elettorale prima delle successive elezioni.

Invece ci risiamo. Il 25 settembre gli italiani saranno chiamati ad eleggere 600 parlamentari (400 alla Camera e 200 al Senato) con la legge elettorale pensata dal presidente di Italia Viva Ettore Rosato, da qui il nome “Rosatellum”, che prevede l’assegnazione dei seggi in parte con sistema proporzionale e in parte con sistema maggioritario. Significa, di fatto, che una parte dei seggi sarà distribuita ai partiti sulla base dei consensi a livello nazionale per la Camera e regionale per il Senato mentre i restanti seggi saranno assegnati a chi vincerà nei vari collegi uninominali in cui è stata suddivisa la penisola. A livello numerico la parte più corposa dei seggi verrà assegnata con il sistema proporzionale che permetterà di eleggere 367 parlamentari (245 alla Camera e 122 al Senato) mentre 221 saranno assegnati nei collegi uninominali (147 alla camera e 74 al senato) e i restanti 12 parlamentari saranno espressione delle circoscrizioni estere e verranno eletti con metodo proporzionale.

Il funzionamento della parte proporzionale del Rosatellum è facile ed intuitivo. Come dice il nome stesso, infatti, i seggi vengono distribuiti proporzionalmente tra tutti i partiti che hanno superato la soglia di sbarramento fissata al 3%. La parte più complicata, e maggiormente pesante nel sistema elettorale ideato da Rosato, è quella maggioritaria che prevede che in ognuno dei collegi in cui è stata suddivisa l’Italia venga eletto il candidato o la candidata della coalizione, o del partito in caso corra da solo, che prende il maggior numero di voti in quella porzione di territorio. Al momento del voto l’elettore potrà così scegliere di mettere una croce sul simbolo del partito che intende votare, assegnando così il suo voto a quel partito per la parte proporzionale e al candidato della coalizione nel maggioritario, oppure di metterla sul nome del candidato, assegnando al candidato il voto per l’uninominale mentre al proporzionale il suo voto sarà distribuito tra tutti i partiti della coalizione. Non è invece prevista la possibilità di un voto disgiunto e non sarà dunque possibile votare per un candidato all’uninominale ed un partito o coalizione diversa nel proporzionale.

È questo, di fatto, che rende quasi indispensabili le alleanze. Da un lato i partiti grandi, ad esempio il Partito Democratico, correndo da soli contro una coalizione più ampia farebbero molta fatica a vincere nei collegi uninominali e dunque cercano alleanze per raggranellare qualche consenso in più sperando di strappare qualche seggio agli avversari. Dall’altro, invece, senza alleanze i partiti più piccoli si ritroverebbero con poche o nessuna possibilità di vincere nei collegi uninominali e dovrebbero così accontentarsi dei seggi ottenuti con il proporzionale. L’alleanza Sinistra Italiana – Verdi, ad esempio, essendo data intorno al 4% potrebbe ottenere circa 15 parlamentari nel sistema proporzionale ma correndo da sola perderebbe in tutti i collegi uninominali in cui i candidati sono eletti con il maggioritario. Da qui nasce la necessità di entrare in coalizione con partiti più grandi per non dover rinunciare totalmente alla corsa nei collegi. In questo modo in cambio del proprio apporto elettorale, che come visto è necessario anche per i grandi partiti, i partiti più piccoli negoziano con le coalizioni la possibilità di mettere i propri candidati anche in alcuni collegi considerati “blindati”, cioè in cui la coalizione è sicura di vincere.

Ma se il sistema delle alleanze fin qui descritto appare intuitivo, meno comprensibile sembrano essere le trattative e i compromessi per allearsi con partiti tanto piccoli da rimanere sotto la soglia di sbarramento del 3% e che quindi rimarrebbero fuori dal Parlamento. Accade sia nel centrodestra, con i centristi di “Noi Moderati”, sia nel centrosinistra, con la formazione di Di Maio ben lontana dal 3%, ed è dovuto ad una seconda soglia di sbarramento prevista dal Rosatellum: le liste che fanno parte di una coalizione e che prendono tra l’1 e il 3% non guadagnano seggi al proporzionale, ma i loro voti vengono spartiti proporzionalmente tra gli altri partiti che compongono la coalizione. Inglobando nella coalizione partiti così piccoli dunque si ottengono vantaggi sia i partiti più grandi, che tentano così di raggranellare qualche seggio in più, sia per i partiti piccoli che vedono in queste alleanze e nella promessa di una candidatura in un collegio uninominale blindato (in cui cioè è quasi certa la vittoria della coalizione) l’unica strada per entrare in parlamento.

Per portare effettivamente voti alla coalizione, però, il partito in questione deve superare l’1%. In caso contrario tutti i suoi voti andranno persi. Se, ad esempio, il partito di Di Maio prendesse lo 0,8% e il suo leader venisse eletto in un collegio uninominale grazie alla coalizione di centrosinistra, Di Maio entrerebbe in parlamento ma gli altri partiti non otterrebbero alcun vantaggio da quella alleanza perché quello 0,8% non sarebbe ridistribuito a nessuno. 

La mossa di Nancy Pelosi: atterra a Taipei e sfida Pechino

La speaker della camera Nancy Pelosi atterra a sorpresa a Taiwan scatenando l’ira di Pechino ed innescando un’escalation di tensione politica e militare senza precedenti nella storia recente. Cosa sta succedendo e perché nella piccola isola di Formosa?

Alla fine, lo ha fatto davvero. Sono le 22.45 locali quando all’aeroporto Songshan di Taipei lo Spar19 della US Air Force con a bordo la speaker della Camera americana Nancy Pelosi tocca il suolo taiwanese. Ad attenderlo sulla pista il ministro degli esteri di Taiwan Joseph Hu mentre il grattacielo più importante della città si illuminava con le scritte “grazie speaker Pelosi. Benvenuta a Taiwan”. È lo strappo definitivo della speaker della camera dopo che persino il presidente Biden e il Pentagono le avevano suggerito di eliminare la visita a Taipei dal suo tour in Asia per non alimentare le tensioni con la Cina.

Dal momento in cui i radar indicano che l’aereo di Nancy Pelosi sta facendo rotta verso la capitale di Taiwan, tappa non prevista nel programma ufficiale diffuso domenica, la tensione inizia a crescere. “Con questa mossa gli Stati Uniti dimostrano di essere i più grandi distruttori della pace odierna” commentano da Pechino mentre il Ministro degli Esteri Wang Yi, in una nota, ribadisce che il principio della Unica Cina “è il consenso universale, la base politica per gli scambi della Cina con altri Paesi, il nucleo di interessi fondamentali e una linea rossa e di fondo insormontabili”. Ma, questa volta, Pechino non si limita alle parole. Lascia il beneficio del dubbio fino alla fine, sperando che l’aereo della speaker cambi rotta per dirigersi verso una meta diversa. Ma quando il Boeing con a bordo Nancy Pelosi tocca il suolo taiwanese la risposta è immediata. Dalle basi militari cinesi si alzano in volo i SU-35 Fighters dell’Esercito Popolare di Liberazione che per alcuni minuti sorvolano lo stretto di Taiwan, il tratto di mare che divide l’isola dalla Cina. Poi arriva il comunicato ufficiale: da domani a domenica l’Esercito Popolare di Liberazione cinese condurrà “importanti esercitazioni militari e attività di addestramento, comprese esercitazioni a fuoco vivo” in sei aree marittime intorno all’isola di Taiwan. È la risposta più dura che potesse arrivare da Pechino.

Dal canto suo Nancy Pelosi non fa nulla per rallentare l’escalation di tensione. Ancor prima di scendere dall’aereo commenta il suo arrivo a Taipei su Twitter: “La visita della nostra delegazione a Taiwan” scrive “onora l’incrollabile impegno dell’America nel sostenere la vivace democrazia taiwanese. La solidarietà con i 23 milioni di abitanti di Taiwan è oggi più importante che mai. Il mondo deve scegliere tra autocrazia e democrazia.” Nulla che non ci si potesse aspettare vista la storica attività della speaker della camera in difesa dei diritti umani in Cina che la portò a manifestare il proprio dissenso in piazza Tienanmen nel secondo anniversario del massacro del 4 giugno 1989 e di recente a definire “giovani coraggiosi” i manifestanti democratici di Hong Kong. Con il suo viaggio, sostenuto da un consenso bipartisan al Congresso di Washington, Nancy Pelosi vuole ribadire il suo sostegno alla democrazia di Taiwan, sempre più minacciata dalle mire di Pechino.

Da tempo ormai, Pechino ha infatti messo nel mirino Taiwan rivendicando la propria autorità sull’isola considerata una provincia ribelle nonostante non sia mai stata amministrata dalla Repubblica Popolare Cinese. La questione taiwanese ha radici antiche e nasce nel 1949 con la vittoria di Mao Zedong nella guerra civile cinese e la conseguente fuga dei nazionalisti di Chiang Kai-Shek, che si rifugiarono sull’isola di Taiwan con forze sufficienti a dissuadere Mao dal proseguire il conflitto. Da quel momento si è creato una sorta di stallo che vede da un lato Pechino, che considera Taiwan una provincia ribelle e attende di riportarla sotto la propria egida, dall’altra Taipei che nel frattempo è diventata una florida democrazia e che ribadisce la sua indipendenza dalla Cina continentale. Da quando, nel 1996, sull’isola si sono svolte le prime elezioni libere che hanno dato un governo democratico a Taiwan, la Cina ha sempre operato per isolare il più possibile Taipei sia a livello politico che a livello diplomatico con il risultato che attualmente solamente 14 paesi al mondo intrattengono relazioni diplomatiche ufficiali con il governo taiwanese. Per questo motivo la visita di Nancy Pelosi, la più alta autorità politica statunitense a mettere piede sul suolo taiwanese dal 1997, ha scatenato reazioni scomposte. Il New York Times lo ha definito un “colpo di stato diplomatico” e, anche se si stratta di una evidente iperbole, non è un’immagine così lontana dalla realtà. Pur avendo da sempre supportato la causa dell’isola, infatti, la presenza di un politico di rilievo sul suolo di Taiwan e, qualora venisse confermato, un incontro ufficiale con la presidente Tsai Ing-wen ha un significato ben preciso: legittimare agli occhi del mondo il governo di Taipei. Un affronto nei confronti di Xi Jinping che dal canto suo ha negli ultimi tempi intensificato la sua propaganda a favore di una Cina unita che comprenda anche Taiwan ribadendo la necessità di riportare la provincia ribelle sotto il controllo di Pechino “con qualsiasi mezzo possibile”. Il presidente cinese, d’altronde, si è precluso la possibilità di una soluzione pacifica, cioè una riunificazione concordata e consensuale, visto il modo in cui ha gestito l’anomalia di Hong Kong: distruggendo lo Stato di diritto e le libertà, normalizzando l’isola sotto il tallone della repressione poliziesca cinese.

La giornata di oggi, dunque, sarà cruciale. Se confermato, l’incontro tra la speaker della camera e la presidente di Taiwan potrebbe essere un momento storico decisivo per le sorti dell’area. Pechino attende le mosse di Nancy Pelosi ma, su questo possiamo starne certi, è già pronta a rispondere ad ogni sua mossa.

Fratelli di ‘ndrangheta: i guai giudiziari nel partito di Giorgia Meloni

L’esponenziale crescita nei sondaggi del partito di Giorgia Meloni ha portato negli ultimi anni ad una migrazione di massa di esponenti di partiti di centrodestra verso Fratelli d’Italia. Un’arma a doppio taglio con cui FdI ha spalancato le porte a soggetti con legami pericolosi con cosche mafiose

Mancano meno di due mesi alle prime elezioni politiche autunnali della storia repubblicana e qualcuno già la incorona vincitrice. Giorgia Meloni, in testa a tutti i sondaggi, sta spingendo Fratelli d’Italia verso vette di consenso che nessuno poteva immaginare qualche anno fa. Nato nel dicembre del 2012 da una costola dell’allora Popolo delle Libertà, fino agli ultimi mesi era stato il partito minore all’interno della coalizione del centrodestra, utilizzato da Forza Italia e Lega per attrarre i voti delle frange più estreme della destra ed ampliare così il bacino elettorale di una coalizione orientata più al centro. Ma negli ultimi anni qualcosa è cambiato.

Radicato a Roma e provincia e fondato su una solida base di nostalgici e orfani della vecchia fiamma tricolore, Fratelli d’Italia ha scalato le gerarchie all’interno della coalizione diventando il primo partito sia nel centrodestra che nel paese. Grazie alla sua linea dura di forte opposizione a tutti i governi che si sono succeduti in questa legislatura, il partito di Giorgia Meloni è passato dal 4,4% delle politiche del 2018 ad un potenziale 23% alla prossima tornata elettorale. Un’ascesa quasi miracolosa che ha però portato ad una serie di problemi collaterali all’interno del partito in termini di legalità. Con la crescita dei consensi diversi politici, soprattutto al sud, sono migrati in modo quasi incontrollato da Forza Italia e dalla Lega verso il partito di Giorgia Meloni portando a Fratelli d’Italia importanti pacchetti di voti che hanno contribuito ad alimentare la crescita nei sondaggi. Ma questa continua “campagna acquisti” si è rivelata un’arma a doppio taglio: se da un lato ha ingrossato le fila del partito e contribuito alla crescita dei consensi, dall’altro ha spalancato le porte a soggetti in odor di mafia.

Uno smacco non indifferente per Giorgia Meloni che da sempre ricorda di aver iniziato a far politica dopo la morte del giudice Paolo Borsellino e di voler mettere al primo posto la legalità proprio per questo suo legame con il giudice antimafia. Parole che troppo spesso stridono, però, con i fatti. Fratelli d’Italia, ad oggi, sembra infatti essere il partito con più legami con i clan e con il maggior numero di esponenti arrestati. Per questo, anche se ha destato particolarmente clamore essendo arrivato in piena campagna elettorale, non sorprende il caso di Terracina scoppiato pochi giorni fa. Nel feudo nero di Fratelli d’Italia, dove la stessa leader del partito si era candidata per essere certa di essere rieletta in Parlamento, era stato ideato un vero e proprio sistema fatto di corruzione e gestione opaca degli appalti pubblici. Un sistema su cui ora indaga anche l’antimafia per le violenze e le intimidazioni in pieno stile mafioso ai danni di chi minacciava di opporsi. L’inchiesta, che vede coinvolto tra gli altri anche Nicola Procaccini fedelissimo di Giorgia Meloni già sindaco del comune pontino ed europarlamentare nelle file di Fratelli d’Italia, è la prosecuzione di quella che solo pochi mesi fa aveva portato all’arresto del vicesindaco Marcuzzi, anche lui meloniano della prima ora e in procinto di candidarsi alle prossime regionali.

E pensare che nel 2020, in piena campagna elettorale per le amministrative, era stata proprio la leader di Fratelli d’Italia a osannare il “modello Terracina” affermando di volerlo esportare anche a livello nazionale. “Io vi prometto” aveva detto durante un comizio “che prenderemo questo laboratorio, questo esempio di democrazia e politica, e lo porteremo al governo della nazione”. Ma se dopo gli arresti appare difficile immaginare la Meloni che, fiera e decisa, promette di portare il sistema Terracina in tutta Italia, in molti tra i suoi compagni di partito sembrano averla presa in parola riproducendo in tutta Italia quel tessuto di relazioni pericolose che ha portato alla fine della giunta del comune pontino.

È il caso, ad esempio, di Francesco Lombardo. Candidato alle amministrative di Palermo con Fratelli d’Italia è stato arrestato a pochi giorni dal voto per aver chiesto voti al boss mafioso Vincenzo Vella in cambio di favori. Una vicenda da cui Fratelli d’Italia ha subito preso le distanze dichiarandosi parte offesa. Così come aveva a suo tempo preso le distanze da Roberto Russo, assessore regionale in Piemonte, condannato nei giorni scorsi a 5 anni per voto di scambio politico mafioso. E ancora Alessandro Niccolò, capogruppo di FdI in Calabria arrestato per associazione mafiosa. O Giancarlo Pittelli, ex europarlamentare calabrese di Forza Italia passato a Fratelli d’Italia nel 2017 ed arrestato nell’ambito dell’inchiesta “Rinascita-Scott” perché considerato anello di congiunzione tra la politica e i clan di ‘ndrangheta. O ancora Domenino Creazzo, già sindaco di sant’Eufemia d’Aspromonte, arrestato tra l’elezione e l’insediamento in consiglio regionale per i suoi rapporti con la cosca Alvaro. E si tratta solamente di alcuni degli esponenti di Fratelli d’Italia arrestati o indagati negli ultimi anni per rapporti opachi con i clan. Una lista lunghissima che non fa sconti a nessuno, da nord a sud, da semplici eletti a dirigenti del partito.

“Io non posso conoscere personalmente tutte le migliaia di candidati che ha Fratelli d’Italia in tutto il paese” si era difesa Giorgia Meloni ai microfoni della trasmissione Report ribadendo il suo impegno per ripulire il partito da figure del genere. Un’affermazione sacrosanta e, a tratti, anche condivisibile. Difficile però immaginare che la leader di quello che oggi è il primo partito a livello nazionale non sapesse degli affari di Pasquale Maietta, astro nascente del partito e tesoriere del gruppo di Fratelli d’Italia alla Camera dei Deputati. Secondo le indagini condotte nel 2016 Maietta avrebbe avuto rapporti stabili e di reciproco interesse con il boss Costantino “cha cha” Di Silvio, elemento di spicco della criminalità organizzata nell’agro pontino che avrebbe garantito tramite Maietta il sostegno elettorale a Fratelli d’Italia nei territori controllati dal clan.

Si tratta di un quadro desolante che contrasta con le parole della candidata premier che da giorni ripete in lungo e in largo che “la classe dirigenti di Fratelli d’Italia è pronta per governare il paese”. Ma questo è il momento che Giorgia Meloni aspetta da una vita ed ora che si prepara a ricoprire la carica più importante di Governo ha deciso di eliminare tutti gli ostacoli tra lei e la premiership tra cui anche i problemi giudiziari legati che contribuiscono ad accostare il nome di Fratelli d’Italia alle cosche mafiose. Da giorni Giovanni Donzelli, responsabile organizzativo di FdI, è al lavoro per fare pulizia all’interno del partito eliminando dalle liste tutti i soggetti che negli anni hanno dimostrato una certa familiarità con gli ambienti criminali di tutta Italia. Un tentativo in extremis di ripulire la facciata per scongiurare polemiche e attacchi da parte degli avversari. Sarà sufficiente a portare la legalità non solo a parole ma anche nei fatti? 

L’estate italiana del Governo Draghi

È ufficialmente estate e come ogni anno si ripetono le stesse scene, ormai quasi rituali: le repliche delle fiction Rai al pomeriggio, gli avvisi di non uscire nelle ore più calde e bere tanta acqua e le crisi di governo, vere o minacciate che siano.

Ci risiamo. Con l’arrivo dell’estate iniziano anche i malumori all’interno del governo e le minacce di crisi e uscite dalla maggioranza. Un grande classico dell’estate italiana da quell’ormai celebre caduta del governo “Conte I” sancita sulle spiagge del Papeete da Matteo Salvini, all’epoca Ministro dell’Interno. A distanza di tre anni dalla caduta del governo giallo-verde i protagonisti della nuova crisi, da giorni in procinto di concretizzarsi ma ancora solo minacciata, sono ancora una volta loro due: Matteo Salvini e Giuseppe Conte. I ruoli ovviamente sono diversi rispetto a quelli ricoperti nell’estate del 2019, nessun incarico di governo ma solo la guida di due partiti in forte crisi ma centrali nella maggioranza larga che sostiene Mario Draghi.

La telenovela tra il Movimento 5 Stelle e il premier Mario Draghi è iniziata settimane fa quando il leader pentastellato è stato informato, correttamente o meno non è dato sapersi, di un canale diretto tra il premier e Beppe Grillo. Secondo le indiscrezioni, infatti, Draghi avrebbe fatto pressioni sul fondatore del Movimento per chiedere la rimozione di Conte dalla guida del partito. Una voce mai confermata che ha però scottato l’ex premier al punto da arrivare ad ipotizzare intromissioni più profonde di Mario Draghi nelle attività del Movimento fino ad accusarlo di aver tirato lui le fila della scissione che ha portato all’addio di Di Maio e dei suoi fedelissimi. “Una scissione così non si coltiva in poche ore.” Ha commentato Conte “Da un po’ c’era un’agenda personale al di fuori della linea politica del Movimento. È stato Draghi a suggerirlo? Ne parlerò con lui”. E il giorno per parlarne è arrivato. Dopo il rinvio, a causa della tragedia sulla Marmolada che ha tenuto impegnato il premier, Draghi e Conte si incontreranno domani pomeriggio a Palazzo Chigi per “chiarire il disagio politico” e mettere sul tavolo le condizioni necessarie alla sopravvivenza del governo: no all’invio di armi a lunga gittata all’Ucraina e parlamentarizzazione del quarto decreto interministeriale con almeno un’informativa, no al termovalorizzatore a Roma, sì al salario minimo, no al ridimensionamento del reddito di cittadinanza e rinnovo del superbonus al 110%.

Da una parte, dunque, ci saranno le misure simbolo del Movimento 5 Stelle. Dall’altra ci sarà Palazzo Chigi con il Premier Draghi che si è detto disponibile all’ascolto ed al confronto ma che non intende deragliare dalla rotta impostata. Giuseppe Conte, anche se è ancora offeso per le presunte intromissioni del premier nella vita interna del M5s, non ne vuole fare una questione personale ma la partita resta delicata e rischia di far saltare il banco. “51 per cento restiamo, 49 per cento usciamo”, è la previsione di un fedelissimo del presidente del M5S. Una previsione che sembra rispecchiare fedelmente la doppia anima del Movimento, spaccato quasi a metà, con una parte dei parlamentari che spingono per la rottura e l’uscita dal Governo mentre l’altra chiede a gran voce di andare avanti. Insomma, che sia rottura o meno, per Conte si prospetta un’estate da sarto che lo vedrà costretto a ricucire rapporti per non perdere definitivamente un partito che appare allo sbando.

Meno problematica appare invece la condizione di Matteo Salvini, altro protagonista dell’estate italiana e vero e proprio pezzo da novante delle crisi di governo agostane. Ieri a Milano l’ex Ministro dell’Interno ha incontrato i suoi fedelissimi, convocati dopo la debacle delle amministrative, per definire la linea da seguire nei prossimi mesi. Al termine dell’incontro la direzione della Lega sembra essere definita: ricompattare il partito a partire da una linea critica, a tratti ostile, nei confronti del premier alzando i toni e strigliando Draghi ad ogni occasione buona. Finito il summit milanese emergono anche le richieste al governo dietro cui si trincerano Matteo Salvini e la Lega. Come nel caso di Conte, infatti, anche Salvini mette sul tavolo le proposte simbolo del suo partito chiedendo scelte concrete su fisco, stipendi, pensioni ed autonomia ed annunciando di voler “fare il tagliando a Draghi” per verificare lo stato dei lavori in questi ambiti. Ma se pubblicamente le priorità della Lega sono queste, leggendo tra le righe si capisce che i malumori all’interno del partito sono altri e vanno ricercati tra i desideri dell’ala sinistra della maggioranza. Ius Scholae, depenalizzazione della cannabis e ddl Zan, che a breve sarà riproposto in Parlamento, sono proposte giudicate irricevibili dalla Lega e su cui Matteo Salvini annuncia battaglia. Ma se Conte sembra essere già pronto allo strappo, la strategia del leader leghista sembra essere più attendista. Ancora segnato, forse, dalle conseguenze devastanti della crisi innescata nel 2019 dal Papeete, Salvini al momento non sembra voler mettere in dubbio il suo appoggio a Draghi ma c’è una data cerchiata di rosso sul calendario del Capitano leghista: il 18 settembre. Quel giorno a Pontida si raduneranno come ogni anno le tante anime della Lega e proprio quella è la data individuata per “fare il tagliando a Draghi” valutando prima di tutto il suo approccio alle proposte del centrosinistra e in secondo luogo lo stato dell’arte per quel che riguarda le misure volute dalla Lega. Insomma, se al momento sembra scongiurato un Papeete bis a fine luglio, il rischio di una “Crisi di Pontida” è reale e concreto.

Ma mentre i leader politici portano avanti interessi propri e di partito perseguendo la linea politica del Movimento 5 Stelle il primo e della Lega il secondo, tra i parlamentari qualcuno ha già fatto trapelare qualche malumore in caso di caduta del Governo. C’è infatti una data chiave nei prossimi mesi che tutti i parlamentari stanno aspettando: il 22 settembre, data in cui i parlamentari avranno maturato il diritto a quello che una volta era il vitalizio e adesso, più sobriamente, va chiamata pensione. E se il governo cade prima? Draghi ha già detto che non si cercherà una nuova maggioranza e si andrà immediatamente ad elezioni senza passare dal via. E proprio come nel Monopoli, se non si passa dal via non si incassa.

I referendum sulla giustizia spiegati bene

Il 12 giugno oltre 51 milioni di Italiani saranno chiamati a votare i cinque referendum sulla giustizia promossi da Lega e Partito Radicale. Nella nostra breve guida proviamo a spiegarvi i cinque quesiti e quello che andrebbero a modificare nel sistema attuale.

Domenica 12 giugno, in contemporanea con le elezioni amministrative in 978 comuni, gli italiani saranno chiamati ad esprimersi sui cinque referendum sul tema della Giustizia. I quesiti nascono dalla raccolta firma promossa da Lega e Radicali e sono stati dichiarati ammissibili dalla Corte Costituzionale e dunque indetti per decreto dal Presidente della Repubblica il 6 aprile scorso. I due partiti promotori ne avevano proposto un sesto, sulla responsabilità civile dei magistrati, ma la Consulta lo ha ritenuto inammissibile come già aveva fatto per i referendum su cannabis ed eutanasia legale.

Quando e come si vota – La tornata referendaria si svolgerà nella sola giornata di domenica 12 dalle ore 7 alle ore 23 ed al termine delle operazioni di voto si precederà immediatamente allo scrutinio. Come previsto da un’apposita circolare del Ministero della Salute, per votare sarà necessario recarsi al seggio con una mascherina da indossare durante tutta la permanenza presso la struttura. Chi dovesse essere positivo al covid ed in isolamento domestico dovrà far pervenire una richiesta al proprio comune entro il 7 giugno dichiarando di voler votare e richiedendo la possibilità di esprimere il proprio voto presso l’indirizzo in cui si sta svolgendo la quarantena. Gli aventi diritto al voto per questa tornata saranno 51,1 milioni e sarà necessario, affinché ciascuna consultazione sia valida, che voti la maggioranza degli aventi diritto. Trattandosi di referendum abrogativi, chi vuole mantenere in vigore le norme che si propone di cancellare deve rispondere ‘No’ sulle schede. Chi è d’accordo con i promotori deve rispondere ‘Si’ in modo che non abbiano più valore di legge.


Refrendum n. 1 – Scheda rossa
Abrogazione del Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi.

Con questo primo referendum si chiede ai cittadini se siano o meno d’accordo ad abrogare la cosiddetta “legge Severino” che dispone l’interdizione dai pubblici uffici in caso di condanna definitiva. In altre parole, con il sistema attuale, un politico condannato in via definitiva viene automaticamente dichiarato incandidabile e nel caso ricopra cariche in quel momento gli vengono tolte con effetto immediato. Qualora vincesse il “SÌ” verrebbe eliminato il decreto facendo così venire meno l’automatismo e dando ai giudici la facoltà di decidere di volta in volta se applicare ai condannati l’interdizione dai pubblici uffici.


Referendum n.2 – Scheda arancione
Limitazione delle misure cautelari: abrogazione dell’ultimo inciso dell’art. 274, comma 1, lettera c), codice di procedura penale, in materia di misure cautelari e, segnatamente, di esigenze cautelari, nel processo penale.

Attualmente, durante le indagini il PM può chiedere al Giudice per le Indagini Preliminari (GIP) di disporre una misura cautelare (carcere, domiciliari, obbligo di firma ecc.) per soggetti sospettati di aver commesso un reato. Tra le motivazioni che possono portare il gip a concedere la misura cautelare preventiva vi è tra gli altri il pericolo di reiterazione del reato. Se, cioè, un soggetto sospettato di aver commesso un reato è ritenuto in grado di ricommetterlo nel breve periodo il giudice può disporne l’arresto ad indagine ancora in corso. In caso di vittoria del “SI” verrebbe eliminato il rischio di reiterazione del reato dalle motivazioni per cui i giudici possono disporre misure cautelari preventive. L’arresto preventivo potrà essere comunque disposto nei seguenti casi: pericolo di fuga, inquinamento delle prove e rischio di commettere reati di particolare gravità, con armi o altri mezzi violenti.


Referendum n.3 – Scheda gialla
Separazione delle funzioni dei magistrati. Abrogazione delle norme in materia di ordinamento giudiziario che consentono il passaggio dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti e viceversa nella carriera dei magistrati.

Con un quesito assurdamente lungo e contorto si vuole chiedere in realtà una cosa molto semplice: volete abrogare la norma che oggi consente di passare agevolmente dalla carriera di PM (colui che coordina le indagini e sostiene l’impianto accusatorio a processo) a quella di Giudice (colui che in un processo è chiamato a decidere)? Mentre oggi si può passare, anche più volte, dal ruolo di giudice a quello di PM, se vincesse il ‘Sì’ si introdurrebbe nel sistema giudiziario italiano la separazione delle carriere: i magistrati dovranno scegliere dall’inizio della carriera se assumere il ruolo di giudice nel processo (funzione giudicante) o quello di pubblico ministero (funzione requirente, colui che coordina le indagini e sostiene la parte accusatoria) per poi mantenere quel ruolo durante tutta la vita professionale.


Referendum n.4 – Scheda grigia
Partecipazione dei membri laici a tutte le deliberazioni del Consiglio direttivo della Corte di cassazione e dei consigli giudiziari. Abrogazione di norme in materia di composizione del Consiglio direttivo della Corte di cassazione e dei consigli giudiziari e delle competenze dei membri laici che ne fanno parte.

Tra le funzioni svolte dal Consiglio Superiore della Magistratura (CSM) vi è anche quella di valutare l’operato dei magistrati in base a valutazioni che vengono fornite periodicamente dai togati presenti nei Consigli giudiziari, organi territoriali formati da togati e laici (professori universitari e avvocati). Se vincesse il “SI” si estenderebbe la possibilità di partecipare a queste valutazioni anche ai membri laici dei consigli giudiziari.


Referendum n.5 – Scheda verde
Abrogazione di norme in materia di elezioni dei componenti togati del Consiglio superiore della magistratura.

Si tratta del quesito sulla riforma del Csm attualmente composto da membri di diritto (Presidente della Repubblica, il primo presidente della Corte di cassazione e il Procuratore generale della Corte costituzionale) e da membri eletti per due terzi da tutti i magistrati di ogni ordine e grado e per un terzo dal Parlamento in seduta comune. Attualmente, per potersi candidare a membri del Csm è necessario raccogliere da 25 a 50 firme, in caso di vittoria del “SI” invece si tornerebbe al sistema in vigore fino al 1958 per il quale qualsiasi magistrato in servizio può candidarsi senza bisogno di raccogliere firme. Il quesito in questione è pensato per porre un freno al sistema delle cosiddette “correnti” finite al centro delle polemiche dopo il caso Palamara. 


Riforma Cartabia – Dopo colpevoli ritardi e lungaggini burocratiche, tra il 14 e il 15 giugno arriverà in Senato per l’approvazione definitiva la Riforma della giustizia. Tre referendum su cinque trattano questioni contenute nella “riforma Cartabia”: quelli che riguardano le modalità di elezione dei membri togati del Csm, le modalità di valutazione della professionalità dei magistrati e la separazione delle funzioni. Se questi tre referendum dovessero essere approvati, il Parlamento sarà chiamato a modificare le disposizioni della riforma relativamente a questi tre temi adeguandosi ai risultati della tornata elettorale. Qualora il Parlamento approvasse invece il testo così come è attualmente, il comitato promotore potrebbe aprire un contenzioso davanti alla Corte costituzionale per capire se la nuova legge rispetti oppure no quello che viene definito il “verso del referendum”.

25 Aprile: storia della “Banda Mario” e di come gli africani si unirono alla Resistenza

La storia della “Banda Mario” e dei partigiani africani fuggiti dalla Mostra dei Territori d’Oltremare per combattere insieme alla resistenza in un battaglione internazionale. Cadendo in battaglia o nelle rappresaglie naziste per la libertà di un paese diverso dal loro. 

Il suo nome di battaglia era Carletto. Un nomignolo affettuoso scelto da compagni e cittadini comuni per via della sua corporatura esile e della sua statura minuta. D’altronde il suo vero nome, Abbabulgù Abbamagal, era al contempo troppo difficile da ricordare e troppo semplice da identificare. Troppo difficile per i compagni e i fiancheggiatori che nelle campagne marchigiane nascondevano i partigiani per salvarli dai rastrellamenti della Wehrmacht. Troppo facile per i tedeschi che un nome del genere lo avrebbero riconosciuto in qualsiasi conversazione. Così, Abbabulgù Abbamagal, divenne Carletto e con quel nome convisse fino al 24 novembre 1943 quando venne ucciso da alcuni soldati tedeschi ad un posto di blocco. “Nato ad Addis Abeba, morto sul Monte San Vicino.” Si legge sulla sua lapide nel cimitero di San Severino Marche “Etiope partigiano del ‘Battaglione Mario’. Insieme ad altri uomini e donne provenienti da tutto il mondo, caduto per la libertà d’Italia e d’Europa”.

Uomini e donne provenienti da tutto il mondo. Perché la resistenza italiana, anche se spesso viene dimenticato in un paese fondato sulla rimozione del passato coloniale, non è stata una guerra combattuta solo da italiani antifascisti. Tra le foto dell’epoca spesso capita di trovarne alcune in cui posano tutti insieme: italiani, croati, serbi, inglesi ma anche e soprattutto somali, eritrei ed etiopi. E furono proprio loro, gli africani provenienti dalle colonie italiane, a rendersi protagonisti della guerra di Liberazione nelle Marche. Si tratta della cosiddetta “Banda Mario”, uno dei primi gruppi della resistenza marchigiana, operante alle pendici del Monte San Vicino, tra San Severino e Matelica, sotto la guida dell’ex prigioniero istriano Mario Depangher. L’origine della brigata, però, va ricercata ben prima dell’inizio della resistenza italiana e addirittura nel 1940 quando per volontà di Mussolini un centinaio di donne e uomini provenienti dalle colonie vennero portati a Napoli per la “Mostra delle Terre Italiane d’Oltremare” ideata dal regime fascista per dare lustro alla propria immagine di potenza coloniale e in un certo senso lavare l’onta subita all’esposizione di Parigi del 1931, a cui l’Italia aveva partecipato senza potere però esibire la sua supremazia nel Corno d’Africa. Un vero e proprio zoo umano che, per fortuna, ebbe vita breve e venne smantellato pochi mesi dopo l’inaugurazione a causa dell’ingresso in guerra dell’Italia a cui seguì, nel 1943 lo spostamento di tutti gli africani come prigionieri a Villa Spada, nell’entroterra marchigiano.

E proprio nelle Marche, dunque, prenderà vita la prima banda partigiana internazionale. Dopo la firma dell’armistizio tre etiopi, Abbagirù Abbauagi, Scifarrà Abbadicà e Addisà Agà, fuggirono da villa Spada e percorsero oltre 30 chilometri a piedi per unirsi alla brigata partigiana più vicina: la “Banda Mario”, appunto. L’arrivo dei tre etiopi diede un nuovo slancio al gruppo che, grazie alle informazioni ottenute dai nuovi arrivati, organizzò un assedio a Villa spada che non solo permise ai partigiani di guadagnare fucili, mitragliatori e bombe a mano custodite nell’armeria della villa divenuta prigione, ma portò alla liberazione dei prigionieri africani molti dei quali si unirono immediatamente al gruppo. Così, intorno alla fine di ottobre, la “banda Mario” poteva contare sulla presenza di almeno una decina di africani provenienti dalle colonie e sfuggiti alla prigionia nazifascista. Delle imprese partigiane degli africani del battaglione Mario non si sa molto. Certo è che presero parte a tutte le rappresaglie del gruppo che per dieci mesi fu uno dei più attivi nell’entroterra maceratese. Tra queste anche la battaglia di Valdiola, tra il 23 e il 24 marzo 1944 quando, quasi accerchiati da centinaia di tedeschi e fascisti, i partigiani riuscirono ad evitare la dispersione del gruppo continuando i sabotaggi al nemico.

“Per tutti loro l’ingresso nella resistenza non va letto come un calcolo utilitaristico. Pur nella cornice data dalla legislazione razziale e le richiamate restrizioni sulla circolazione, fino ad allora somali, eritrei ed etiopi avevano vissuto in una condizione di semilibertà”, osserva lo storico Matteo Petracci, che ha ricostruito la vicenda in diversi studi. Non avevano insomma la necessità di schierarsi. Non rischiavano la deportazione, non erano prigionieri di guerra. Avrebbero potuto aspettare il passaggio degli alleati per tornare a casa. E molti di loro, in particolare quelli che avevano bambini piccoli, in effetti fecero così. Chi rimase a combattere, insomma, lo fece per scelta. Lo fece perché aveva conosciuto l’orrore del fascismo, in patria prima ed in Italia poi, e non voleva che capitasse a nessun altro.Per i dieci partigiani neri della “Banda Mario”, il minimo che possiamo fare oggi è ricordarne il nome: erano Mohamed Raghe, Thur Nur, Macamud Abbasimbo, Bulgiù Abbabuscen, Cassa Albite, tale “Gemma fu Elmi”, Abbagirù Abbauagi, Scifarrà Abbadicà e Addisà Agà e Abbabulgù “Carletto” Abbamagal. Perché il loro esempio e le loro storie non vadano perdute.

È guerra in Europa: la situazione, gli equilibri e l’utilità delle sanzioni dell’occidente

L’offensiva russa in Ucraina, partita nella notte, costringe l’occidente ad una reazione. Ma mentre gli alleati della Russia sembrano pronti a fornire un sostegno concreto a Putin, USA e Stati Uniti continuano sulla strada delle sanzioni. Ma a farne le spese potrebbe essere proprio l’occidente.

Alle prime luci dell’alba, le 4 di notte in Italia, si concretizza lo scenario più drammatico che si potesse immaginare. Vladimir Putin tiene un discorso alla nazione in cui annuncia l’avvio di “un’operazione militare speciale” con l’obiettivo di “smilitarizzare e denazificare l’Ucraina”. Poi avvisa il resto del mondo: “Chiunque cerchi di interferire con noi, e peggio di creare minacce per il nostro paese, il nostro popolo” ha detto Putin”deve sapere che la risposta della Russia sarà immediata e vi porterà a conseguenze come non le avete mai sperimentate nella storia”. Quasi in contemporanea con l’annuncio a Kiev iniziano a suonare gli allarmi. Cinque grosse esplosioni si sentono nella capitale e svegliano la popolazione. E poi via via nel resto del paese la situazione precipita. I bombardamenti su Odessa, Kharkiv e Mariupol sono la conferma che l’attacco su larga scala è iniziato.

Le notizie che arrivano dall’Ucraina per tutto il giorno sono frammentate e discordanti, come logico che sia all’inizio di un nuovo conflitto. La cronaca della guerra è fredda e cruente. Prima i bombardamenti su obiettivi militari e civili, come l’aeroporto di Hostomel a 35 km dalla capitale. Poi l’attacco via terra lungo i confini con le troppe russe che sarebbero penetrate per diversi km in territorio ucraino da sud già in mattinata mentre forti scontri si registrano a nord dove l’esercito russo tenta di sfondare per raggiungere Kiev. Sono i primi passi di una vera e propria invasione, che durerà «per il tempo necessario», ha annunciato il Cremlino. Nel pomeriggio il primo bilancio era di almeno 50 soldati ucraini uccisi e “decine di civili” fra le vittime.

Ma mentre Putin ripete che non si tratta di una guerra e che la Russia non intende invadere l’Ucraina, il resto del mondo condanna quasi in blocco la mossa del Cremlino che ha spezzato all’improvviso ogni tentativo diplomatico. Lo scoppio del conflitto, che pure era ampiamente previsto, sembra aver colto di sorpresa il mondo occidentale che ora si interroga su quale possa essere la risposta più efficace all’attacco russo. L’Unione Europea sembra intenzionata a proseguire sulla strada delle sanzioni con la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, che ha condannato duramente “questo attacco barbaro” annunciando un “pacchetto di sanzioni massicce e mirate” con le quali verranno colpiti “settori strategici dell’economia russa”: sarà bloccato l’accesso a tecnologie e mercati che sono fondamentali per la Russia con l’obiettivo di “indebolire la base economica della Russia e la sua capacità di modernizzazione”. Se dal punto di vista militare l’Unione Europea non può muoversi, possono farlo gli stati membri che al momento non sembrano però intenzionati a correre in soccorso di Kyev. Ungheria e Germania hanno anzi già fatto sapere di non voler fornire armi o altri aiuti militari all’Ucraina. La Nato, dal canto suo, ha iniziato a mobilitare le sue truppe annunciandone lo spostamento verso i confini dell’Ucraina per proteggere i confini dell’Alleanza Atlantica e monitorare il conflitto senza, al momento, prevedere un intervento diretto. La stessa strategia stanno seguendo gli Stati Uniti che già nei giorni scorsi avevano iniziato a spostare le proprie truppe verso est per essere pronti ad un eventuale intervento che, per il momento, non è però previsto mentre il presidente Biden tenta la via diplomatica e torna a minacciare ulteriori sanzioni.

Sostegno alla Russia arriva invece dagli alleati storici. Il leader bielorusso Lukashenko, che inizialmente aveva smentito ogni possibile partecipazione, ha annunciato che “qualora fosse necessario le truppe bielorusse sono pronte ad intervenire”. Ma se l’intervento diretto ancora non c’è stato, quello indiretto è già in corso e proprio dalla Bielorussia questa mattina una lunga colonna di uomini e mezzi ha varcato il confine con l’Ucraina per puntare verso Kiev. Appoggio a Mosca, anche se in misura minore, arriva anche dalla Cina che non solo non ha condannato l’attacco rifiutandosi ufficialmente di parlare di “invasione” ma ha anche criticato l’occidente per aver fornito armamenti all’Ucraina.

I servizi di sicurezza occidentali, che finora hanno predetto accuratamente il corso degli eventi, ritengono che Putin intenda rovesciare il governo ucraino e insediare al suo posto un regime fantoccio. Questa strategia di “decapitazione” coinvolgerà non solo il governo centrale, ma anche i governi regionali e locali. Sono state compilate liste di funzionari ucraini che saranno arrestati o uccisi. L’esercito ucraino è determinato a reagire. Ma è probabile che si trovi pesantemente sconfitto. L’obiettivo russo potrebbe essere circondare Kiev e forzare il crollo o le dimissioni del governo ucraino, guidato da Volodymyr Zelenskij. Difficile pensare che le sanzioni opposte dall’occidente, per quanto pesanti e in grado di piegare l’economia russa, possano distogliere Putin dal suo obiettivo ed è anzi possibile che tali misure possano avere gravi conseguenze su chi quelle sanzioni le sta imponendo.

Se la Russia interromperà le forniture di gas all’Europa, infatti, i consumatori e l’industria ne risentiranno gravemente. Gli effetti diretti si faranno sentire maggiormente nei paesi che dipendono di più dal gas russo, in particolare la Germania e l’Italia che proprio dalla Russia ottiene il 45% del gas importato. Le sanzioni alla Russia, insomma, potrebbero ritorcersi facilmente contro l’occidente che rischia di precipitare in un vortice di inflazione e recessione. E in tal caso, a pagarne le conseguenze potrebbero essere i leader europei, più vulnerabili all’opinione pubblica rispetto all’oligarca russo. A ciò si aggiunge la pressione sui governi occidentali che dovranno rispondere in modo adeguato e tempestivo alla nuova ondata di profughi, oltre cinque milioni secondo le prime stime, che arriveranno dall’Ucraina e che potrebbero mettere in difficoltà l’Unione Europea, sempre divisa su questo tema. 

La situazione, dunque, è delicata e complessa ma l’iniziativa resta nelle mani di Putin che sembra avere tutto l’interesse per proseguire con la sua azione in Ucraina. Nelle prossime settimane, però, sarà necessario agire con forza e determinazione per contenere quanto possibile questo conflitto.

Cosa chiedono gli studenti che protestano da settimane

Scuole occupate a ripetizione in tutta Italia e manifestazioni continue e sempre più partecipate. Il mondo della scuola è in subbuglio e gli studenti sono tornati in piazza come non succedeva da tempo. Le questioni sul tavolo sono complesse e delicate ma i ragazzi vogliono risposte.

La scuola italiana è in rivolta. Da settimane negli istituti di tutto il paese si susseguono occupazioni, autogestioni e proteste degli studenti. A Milano nei giorni scorsi è toccato ai licei Bottoni e Parini, a una settimana dalle occupazioni di Carducci, Beccaria e Vittorio Veneto. Tra Torino e provincia sono una trentina le scuole toccate in varie forme dalla protesta. E lo stesso accade in tutta Italia in vista della grande mobilitazione studentesca prevista per questo venerdì che già ha alimentato le preoccupazioni del Viminale per il timore che possano registrarsi episodi di violenza. In mattinata il capo di gabinetto del Ministero dell’Interno, Bruno Frattasi, ha diramato una circolare ai prefetti per chiedere l’apertura di “canale preventivo di dialogo con gli organizzatori delle manifestazioni” sottolineando come il coinvolgimento dei dirigenti scolastici appaia necessario “in considerazione della delicatezza delle tematiche sollevate dal mondo studentesco e della correlata esigenza che ad essa corrisponda una sensibile capacità di ascolto e mediazione”.

I motivi delle proteste, che ormai proseguono a ritmo serrato, sono diversi e nascono dalla volontà degli studenti di far sentire la propria voce e denunciare quel che non funziona nella scuola pubblica italiana. A dare il via alla nuova ondata di manifestazioni, che segue quella dello scorso dicembre con le continue occupazioni dei licei della Capitale, è stato l’annuncio da parte del ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi del ripristino dell’esame di maturità tradizionale dopo l’interruzione causata dalla pandemia. Un esame che, secondo gli studenti, non terrebbe conto dei due anni, distribuiti su tre anni scolastici, in cui la pandemia ha costretto per lunghi periodi le classi a svolgere le lezioni con la didattica a distanza (DAD), con inevitabili conseguenze sulla loro preparazione. Un rifiuto che non nasce, come invece vuol far credere chi cerca di screditare le proteste studentesche, dalla negligenza di ragazzi che non vogliono faticare per superare l’esame. Nasce invece dalla crisi pedagogica innescata da una pandemia che ha avuto ripercussioni pesanti sulla salute psicologica dei giovani innescando un effetto domino che ha finito per influenzare non poco la loro preparazione scolastica. Come emerso da diversi studi, infatti, le limitazioni alla socialità e i lunghi periodi di isolamento hanno provocato un significativo aumento di ansia e depressione nelle persone tra 12 e 18 anni. Se a ciò si aggiunge la discontinuità delle lezioni, continuamente interrotte dall’alternanza presenza-remoto, si ottiene una vera e propria crisi pedagogica che trova riscontro proprio nelle prove scritte. Studenti e studentesse hanno di fatto accumulato ritardi e problemi nel loro percorso di studi con la conseguenza che l’esame di maturità tradizionale viene giudicato «inarrivabile» e inadatto a valutare un percorso scolastico così accidentato. Motivazioni più volte ribadite nel corso degli ultimi mesi dagli studenti a cui il ministro Bianchi, nonostante le sue dichiarazioni di un’apertura al dialogo, non ha dato ascolto rifiutando nei fatti ogni confronto. Così come non sembra intenzionato a dare ascolto al Consiglio superiore della pubblica istruzione, organo del suo ministero, che lunedì si è espresso sul tema evidenziando che sarebbe opportuno svolgere l’esame di maturità secondo le modalità dello scorso anno, per “consentire di valorizzare il percorso scolastico di tutti e di ciascuno, facendo emergere le esperienze vissute e le competenze acquisite”. La proposta degli studenti, che trova un appoggio ampio nel mondo della scuola, è quella di un ritorno ad una maturità “light” con solo una prova orale come accaduto nei due anni passati o in alternativa una modifica al sistema di valutazione in modo da far pesare maggiormente il percorso scolastico del triennio rispetto alle prove scritte e orali. 

Ma se sulla maturità si è ancora in attesa di una decisione definitiva e dunque tutto resta ancora da definire, anche se gli spazi per il dialogo sembrano essere minimi, c’è un altro tema che sta muovendo gli studenti e su cui sembra possibile l’apertura di un tavolo con il ministero. È il tema dell’alternanza scuola lavoro, sempre osteggiata dagli studenti ed ora diventata un caso dopo la morte di Lorenzo Parelli e Giuseppe Lenoci deceduti durante le ore di stage in aziende. Già a gennaio il ministro Bianchi aveva definito l’alternanza un modello ormai superato e dunque da rivedere e si era detto disposto a dialogare con gli studenti e le studentesse per immaginare una riforma del progetto volta a garantire maggiori tutele. Un dialogo che, ad un mese dalla morte di Lorenzo, ancora non è stato avviato provocando sconforto e rabbia nei giovani. “Noi non contestiamo il rapporto tra la scuola e il mondo del lavoro che è necessario così come l’apertura al territorio” ha dichiarato a Repubblica il coordinatore della Rete studenti Medi, Tommaso Biancuzzi “Ma deve essere rivisto radicalmente perché non si può accettare di esporre gli studenti a un mercato del lavoro che conta 1.400 morti all’anno. Va bene che si lavori col ministro Orlando, come annunciato si passi ai fatti però”. Il punto della questione è naturalmente legato alla sicurezza, ma gli studenti mettono in discussione anche l’effettiva utilità di queste prime esperienze lavorative: «Non possiamo avere studenti impiegati a fare fotocopie o caffè: è umiliante. Deve essere uno strumento didattico, una forma di insegnamento fuori dalle aule”.

I temi sul tavolo, insomma, sono complessi e delicati. Ciò che è evidente, però, è che gli studenti hanno ritrovato una forza ed una centralità che mancava da anni. Le continue mobilitazioni e l’ondata di occupazioni di questi giorni stanno certamente servendo ad accendere un riflettore sulla scuola che, si spera, possa portare a un nuovo modello di istruzione nel nostro paese. “Venerdì saremo marea” annunciano studenti e studentesse in tutta Italia. Una marea che vuole studiare, e vuole farlo in sicurezza e nelle migliori condizioni possibili. Una marea che va ascoltata e non manganellata nelle piazze. Perché solo così si può costruire il futuro. 

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