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Emergenza carcere: mai così tanti suicidi tra i detenuti come in questo 2022

Nei primi otto mesi di questo 2022 si registra un aumento esponenziale nel numero dei suicidi all’interno del carcere. Se è vero che ogni detenuto ha una storia a sé e difficoltà che vanno al di la della carcerazione, è anche vero che il sistema penitenziario non protegge da gesti estremi.

È uno stillicidio senza fine. L’ultimo caso è stato segnalato il 1° settembre a Bologna dove un detenuto cinquantatreenne di origine slava, con problemi psichiatrici, si è tolto la vita impiccandosi con i pantaloni della tuta. Si tratta del 59° suicidio di questo drammatico 2022 che sta facendo segnare numeri record per quanto riguarda i suicidi nelle carceri italiane con una media di circa una vittima ogni quattro giorni con un picco preoccupante nel mese di agosto con 15 suicidi in un mese. Sono numeri che lasciano sbigottiti e che confermano come nel nostro paese ci sia un problema serio con il sistema penitenziario.

Basta infatti confrontare i dati di questi primi otto mesi con quelli relativi agli ultimi anni per rendersi conto di quanto la situazione sia drammatica. A due terzi dell’anno in corso è già stato superato il totale dei casi del 2021, pari a 57 decessi, e siamo ben oltre i 45 suicidi nei primi otto mesi del 2010 che fino ad oggi erano il dato più alto di sempre. Delle 59 persone che si sono tolte la vita in carcere nei primi 8 mesi di quest’anno, 4 erano donne: un numero particolarmente alto se consideriamo che la percentuale della popolazione detenuta femminile rappresenta solo il 4,2% del totale. Ancora più impressionante se paragonato agli anni passati. Secondo i dati pubblicati dal Garante Nazionale, sia nel 2021 che nel 2020 soltanto una donna si era tolta la vita in carcere. Nel 2019 non si era verificato invece nessun caso di suicidio femminile. È chiaro che ogni vittima ha una storia a sé, fatta di disagi e sofferenze personali non per forza di cose legate alla detenzione, ma con numeri così alti non è possibile non guardarli con un’ottica di insieme prendendoli come indicatori della presenza di problemi strutturali nel sistema penitenziario italiano.

Ma quali sono questi problemi? Quando si parla di carcere la prima, e più evidente, problematica è senza dubbio quella relativa al sovraffollamento degli istituti italiani che inevitabilmente influisce sul tasso di suicidi. Non è un caso se il penitenziario dove si sono registrati il maggior numero di decessi, con quattro detenuti che si sono tolti la vita da inizio anno, sia quello di Foggia dove da anni si assiste ad una situazione divenuta ormai insostenibile con una capienza superata del 150%. A ciò si aggiungono le difficoltà nella gestione di detenuti affetti da problemi psichiatrici che, a causa delle carenze strutturali nel personale delle carceri italiane, spesso non vengono seguiti adeguatamente. Non è un caso, infatti, che molti dei detenuti suicidatisi in questi primi otto mesi di 2022 fossero affetti da disturbi di questo tipo. Allo stato attuale i pazienti psichiatrici detenuti vengono trattati nei reparti di osservazione psichiatrica e riportati in cella solo quando vengono ritenuti idonei ed innocui per sé e per gli altri. Sempre più spesso, però, questo protocollo non può essere seguito a causa del sovraffollamento e delle carenze di personale che rendono di fatto impossibile un trattamento adeguato e costringono a ricorrere solamente a cure farmacologiche che non risolvono il problema ma che puntano a tamponarlo. In queste condizioni sempre più spesso le patologie psichiatriche invece di migliorare vanno peggiorando portando spesso il detenuto a vivere una condizione insopportabile fino a ricorrere a soluzioni estreme. 

Ma oltre alle condizioni all’interno del carcere sembra emergere sempre più un disagio legato al mondo esterno. Molti dei detenuti che si sono tolti la vita, tra cui l’ultimo caso al carcere Dozza di Bologna, erano ormai vicini alla propria scarcerazione. Ma proprio quella che dovrebbe essere una notizia positiva viene sempre più spesso accolta con poco entusiasmo da chi è recluso da lungo tempo all’interno di un carcere. Troppo spesso si instaura nei detenuti quella sensazione di essere precipitato in un ‘altrove’ esistenziale, in un mondo separato, totalmente ininfluente o duramente stigmatizzato anche nel linguaggio dei media e talvolta anche delle istituzioni in un mondo in cui sempre più spesso si ignora la funzione rieducativa che ha, o dovrebbe avere, il carcere. Uno stigma che rischia di condizionare le vite di chi esce dal carcere più che teme di essere per sempre bollato come “ex detenuto” e di non poter per questo più condurre una vita normale. Così il sentimento più forte che prova chi inizia una nuova vita dopo un’esperienza di carcere non è tanto la felicità della condizione di uomo libero, quanto piuttosto l’ansia, uno stato di ansia continuo, la paura di non farcela, la fretta di recuperare quello che si è perso, le difficoltà a ritrovare un ruolo all’Interno della propria famiglia. L’esterno, alla fine della detenzione, inizia a far più paura dell’interno e l’idea di uscire dalla cella in cui si è stati reclusi per periodi più o meno lunghi diventa più opprimente che quella di rimanere in carcere. E se da un lato i permessi, le misure alternative, i percorsi di reinserimento sono fondamentali per un reinserimento graduale che permetta al detenuto di riabituarsi alla vita in un mondo sicuramente profondamente diverso da come lo aveva lasciato, dall’altro è necessario un cambio culturale e di mentalità che porti a non vedere più chi esce dal carcere come un soggetto da emarginare. 

È chiaro, dunque, che i problemi del sistema penitenziario italiano siano gravi e debbano essere affrontati con un dibattito serio sulla questione perché non è pensabile che in un paese civile 59 ogni quattro giorni un detenuto si tolga la vita. Uno Stato che nel punire non impedisce la morte del condannato perde infatti parte delle funzioni che ne giustificano la potestà punitiva confermando come sia assai lontano l’ideale della pena immateriale che agisce sullo spirito, così come teorizzata dai filosofi illuministi.

Santa Maria Capua Vetere e quelle mele marce che in Italia sono sistema

A Santa Maria Capua Vetere è stata tradita la Costituzione
-Marta Cartabia-


Un’orribile mattanza. Le immagini riprese dalle telecamere di sicurezza del carcere di Santa Maria Capua Vetere non lasciano dubbi su quello che è stato. Violenza gratuita e brutale da uomini in divisa ai danni di quegli stessi detenuti che avevano in custodia e avrebbero dovuto tutelare. Una rappresaglia inumana, indiscriminata e che non può ammettere nessuna giustificazione. Non può essere giustificata con lo stress, con la pressione dopo le proteste di quei giorni, con il virus che dilaga e fa paura. Nessuna attenuante può rendere meno crude e disarmanti quelle immagini.

Mele marce? – Immediata la difesa del corpo di Polizia Penitenziaria da parte di diversi schieramenti politici che si sono affrettati a sottolineare come quelle intervenute a Santa Maria Capua Vetere fossero “mele marce” nate da un albero sano. Ma si può davvero giustificare il tutto con la solita retorica delle mele marce? Il primo a non crederci è l’ex senatore Luigi Manconi, ex Presidente della commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani, che in un’intervista di qualche giorno fa non ha avuto dubbi: “Come è potuto accadere che oltre 50 persone abbiano commesso misfatti del genere? Io non ritengo che tutti gli agenti siano dei criminali ma non credo neanche alla retorica delle mele marce. Il problema risiede nel sistema carcerario, nella sua natura profonda e nel suo complessivo funzionamento: è un fatto culturale.”

Senza andare troppo indietro nel tempo, rievocando i fatti del G8 di Genova di cui ricorre il 20esimo anniversario tra pochi giorni, basta guardare al recente passato del nostro paese per capire quello che intende Manconi. Nel nostro paese in questo momento ci sono sette indagini aperte contro agenti di polizia penitenziaria accusati di tortura, reato introdotto nel Codice penale solo nel 2017. In due casi ulteriori, per fatti verificatisi nelle carceri di Ferrara e San Gimignano, si è già arrivati alla condanna di undici persone con rito abbreviato mentre altri cinque sono in attesa di giudizio. Undici condanne, cinque rinviati a giudizio e un centinaio di agenti indagati per tortura. Sono dati che rappresentano solo la punta dell’iceberg e che devono aiutare a comprendere come la violenza sia spesso elevata a sistema e non limitata alle sole “mele marce”. Perché se a Genova si registrarono per tre giorni violenze indiscriminate ed episodi di tortura su larga scala, quella mentalità sembra continuare oggi a macchiare la quotidianità delle carceri del nostro paese. Questo non vuol dire, certo, che l’intero apparato di polizia italiano sia composto da torturatori o sadici. Ma le violenze che si registrano quotidianamente in diverse parti del paese sono sintomo di un qualcosa che non funziona.

Cultura – C’è nei corpi di polizia italiani un vero e proprio problema culturale. Anzi, ce ne sono molteplici. Le violenze nelle carceri sembrano essere figlie di una tradizione di impunità che, da Genova in poi, sembra caratterizzare gli episodi simili. Dal 2001 ad oggi i passi avanti sono stati pochi. Se per approvare una legge contro la tortura si sono dovuti attendere 16 anni e i numerosi richiami delle istituzioni europee, per un’altra misura di buonsenso come i numeri identificativi sui caschi e le divise degli agenti potrebbero volercene altrettanti vista la strenua opposizione di diverse forze politiche. Quelle stesse forze politiche che accorrono a portare solidarietà agli agenti indagati e che reputano il reato di tortura una limitazione per gli le forze dell’ordine che a causa di quella legge si troverebbero nelle condizioni di non poter più svolgere il proprio lavoro.

Ma c’è anche un ulteriore problema: l’omertà. Se le brutalità di Santa Maria Capua Vetere, come di altri penitenziari, sono state possibili e sono emerse a un anno di distanza è anche e soprattutto colpa di un diffuso senso di cameratismo che rende l’omertà una virtù apprezzata e riconosciuta. Una virtù che sembra ritrovarsi ad ogni livello della scala gerarchica. Dagli agenti che fecero irruzione fino all’allora sottosegretario alla giustizia Vittorio Ferraresi che, consapevole o meno di quanto accaduto realmente, definì l’azione della polizia penitenziaria una “doverosa azione di ripristino di legalità e agibilità dell’intero reparto”. Nel mezzo ci sono le decine di funzionari e dirigenti della polizia penitenziaria che avrebbero cercato di coprire le violenze con prove false e relazioni scritte per dimostrare che il 6 aprile la reazione delle forze dell’ordine era stata provocata dai detenuti. E, ancora, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) che pur avendo ricevuto decine di esposti da parte di detenuti che denunciavano le violenze subite a seguito delle rivolte della primavera scorsa ha preferito non intervenire lasciando cadere nel vuoto quelle parole. E se il ministro Bonafede, rimasto in silenzio sul caso in Parlamento, poteva non sapere di cosa fosse accaduto nella realtà, risulta difficile immaginare che non lo sapessero tutti gli altri.

Rieducazione – Come sarebbe un errore convincersi che la violenza è frutto solo di alcune mele marce senza vederne la portata effettiva, come se si trattasse di schegge impazzite e isolate dal resto del corpo, sarebbe un errore altrettanto grande non capire il quadro generale che quelle violenze indicano. Perché quello che si consuma in molti penitenziari italiani è il fallimento del sistema carcerario. Un sistema in cui, come sottolinea ancora Manconi, “la rieducazione del condannato viene in genere sacrificata in nome della sicurezza: ovvero della custodia coatta dei corpi dei detenuti. È così che si spiegano episodi come quello di S. M. Capua Vetere: alcuni agenti si trasformano in aguzzini perché è la struttura del carcere, ispirata alla segregazione e alla mortificazione del condannato, che induce a questo. Perché, nei fatti, l’esito della detenzione è quello di de-responsabilizzare il detenuto, privarlo dell’indipendenza, della sua autonomia e controllarlo in tutti i suoi atti”. Servirebbe un cambio culturale per riportare la rieducazione del detenuto al centro della filosofia carceraria. Basterebbe poco, forse. Basterebbe rimettere al centro della scena non più controllori in divisa ma figure professionali quali educatori, assistenti sociali, animatori, mediatori, psicologi in grado di accompagnare il detenuto in un percorso utile a lui e alla società.

“Gridava e chiedeva aiuto”. L’ombra di un pestaggio degli agenti dietro la morte in cella di Scalabrin

Si infittisce il mistero dietro la morte Emanuel Scalabrin. Secondo un testimone, interrogato dagli inquirenti, il 33enne fermato per droga e deceduto dopo una notte in cella avrebbe gridato in cerca di aiuto lasciando intendere la possibilità di un pestaggio ad opera degli agenti.

Nessun malore, ne una tragica fatalità. Secondo alcune nuove testimonianze la morte di Emanuel Scalabrin, deceduto in cella ad Albenga dopo un fermo per droga, sarebbe stata causata da un pestaggio ad opera di alcuni agenti. Se fino ad oggi le ricostruzioni non avevano chiarito a pieno le dinamiche che avevano portato alla morte del 33enne lasciando aperte diverse possibilità, le dichiarazioni rilasciate da un testimone interrogato dagli inquirenti che stanno indagando sulla vicenda potrebbero aprire una nuova fase dell’inchiesta. Secondo la testimonianza di Pietro Pelusi, infatti, Scalabrin sarebbe stato vittima di un violento pestaggio.

Fermato anche lui per questioni di droga e portato nel penitenziario di Albenga, Pelusi ha raccontato di aver sentito più volte Emanuel urlare chiedendo aiuto. “A metà pomeriggio” ha raccontato Pelusi “sono stato prelevato dalla mia cella e portato in una sala d’attesa. Mi ero convinto che mi volessero rilasciare. A un certo punto ho sentito delle urla provenire dalla cella di Scalabrin. Diceva: “Aiuto! Aiuto! Basta!”. Non ho visto cosa gli succedeva ma lui chiedeva aiuto”. La testimonianza, tanto delicata quanto scottante, è ora al vaglio delle forze dell’ordine che ne stanno valutando l’affidabilità. Pelusi è infatti un testimone facilmente smontabile in un eventuale contenzioso: tossicodipendente, pluripregiudicato, per di più era stato arrestato con Scalabrin nell’ambito della stessa indagine. Insomma, sarebbe fin troppo facile reputarlo inaffidabile. Ma proprio il suo essere pluripregiudicato lo rende un soggetto attento alle dinamiche e ai rapporti con le forze dell’ordine e dunque ben consapevole di come una falsa accusa di omicidio a un militare potrebbe avere ripercussioni pesantissime su di lui. Ripercussioni che lo avrebbero certamente dissuaso dal testimoniare il falso.

La testimonianza di Pelusi si aggiunge così ad un quadro estremamente confuso e pieno di elementi che non tornano. Verso le 21 Scalabrin si sente male, la dottoressa che lo visita riscontra tachicardia e pressione alta e consiglia “l’accompagnamento al pronto soccorso per somministrazione metadone e monitoraggio delle condizioni cliniche”. I carabinieri lo accompagnano al pronto soccorso ma proprio questo rimane uno dei punti da chiarire della vicenda. Il referto segnala l’ingresso alle 22.57, l’apertura della cartella clinica alle 22.59 e la chiusura della cartella clinica alle 23.02. In soli tre minuti, riferisce il referto, gli vengono somministrati 90 millilitri di metadone e viene sottoposto a “visita pronto soccorso”. Dopo i tre minuti al pronto soccorso, Sclabrin viene riportato nella sua cella intorno alle 23.30. Passano quasi dodici ore e alle 10.30 del mattino seguente i carabinieri che provano a svegliarlo ne constatano la morte. Alle 11.20 il medico certifica il decesso. Sul referto la possibile causa di morte viene indicata in “abuso di sostanze, accertamenti da esperire”. Nei giorni successivi emerge il secondo punto oscuro della vicenda: i tecnici della procura non sono riusciti a recuperare i video di sorveglianza della cella di Scalabrin perché i filmati di quella notte non sono stati salvati sull’hard disk. Nessuna immagine, dunque, di quello che è accaduto quella notte nella cella di Albenga. Rimangono solo le testimonianze e un’autopsia che parla di un “arresto cardiocircolatorio” senza però chiarire i dubbi intorno ad una vicenda opaca.

“Anche se si è trattato di una morte naturale, bisognerebbe capire che cosa ha originato il decesso e se c’è qualcosa di innaturale che lo ha provocato” aveva commentato l’avvocato della famiglia di Scalabrin chiedendo chiarezza sulla vicenda. Chiarezza che a distanza di quasi due mesi dal decesso, ancora non è stata fatta. Sono anzi aumentati i dubbi e resta costante una domanda: cosa è successo ad Emanuel Scalabrin?