Monthly Archives: aprile 2020

The upside of the downside

Dal 2014, donne israeliane e palestinesi si sono unite in un unico movimento per chiedere la pace a Gaza ed una soluzione che ponga fine all’eterno conflitto israelo-palestinese. Women Wage Peace vuole proporre una strada nuova fatta di “speranza, amore, luce, dignità, inclusione e riconoscimento reciproco”

Da più di sessant’anni la questione palestinese sconfina i territori del Medio Oriente e del Nord Africa coinvolgendo gli attori più influenti dell’Occidente; da ormai decenni si discute di una risoluzione pacifica da entrambi i fronti ma nonostante ciò la guerra dell’estate 2014 a Gaza ha causato più di 2,200 morti e distrutto circa 19,000 abitazioni. Oltre a distruzione e violenze, nel susseguirsi dei decenni si è assistito a innumerevoli tentativi di dialogo fra i due popoli, alcuni dei quali hanno portato a notevoli risultati. In particolare, il filo rosso che, a partire dagli anni ’20 ha unito le donne palestinesi e israeliane, narra storie di dialogo, di liberazione, di collaborazione ma anche di fallimenti, difficoltà e reazioni negative. Infatti, i recenti eventi sanguinosi del 2014 hanno frenato i rapporti di pace causa delle violenze dell’esercito israeliano. Il movimento della Women Wage Peace, tuttavia, ha ridato speranza a chi era già attivo chiamando in causa anche nuove generazioni pronte a scendere nelle piazze e nei palazzi delle istituzioni per discutere insieme una reale possibilità di cooperazione.

IL MOVIMENTO Il movimento nasce nel giugno 2014 dopo la guerra a Gaza coinvolgendo donne palestinesi ed israeliane con l’obiettivo di ottenere una risoluzione pacifica. Il gruppo non ha leader, si coordina via Whatsapp, via mail, tramite Facebook e organizza incontri su diversi territori. Oltre alle grandi manifestazioni e marce negli ultimi anni, il movimento organizza azioni quotidiane per sensibilizzare la popolazione al dialogo e alla pace. Il progetto è ispirato dall’azione di Leymah Gbwoee, premio Nobel per la Pace nel 2011, che guidò una forma di resistenza non violenta formata da donne mussulmane e cristiane durante la guerra civile in Liberia. Il movimento della Women Wage Peace oggi può contare sul sostegno di migliaia di donne sia in Israele che in Palestina: donne laiche, di destra, di sinistra, colone, mussulmane, ebree unite dalla volontà di una pacifica convivenza tra popoli. Oggi le migliaia di volontarie si mobilitano affinché i leader politici lavorino con rispetto e coraggio, includendo la partecipazione delle donne per trovare una soluzione al conflitto. La collaborazione con le donne palestinesi è stata organizzata da Huda Abuarqoub che alla fine della Marcia della Speranza del 2016 ha affermato: «Sono qua con donne che hanno scelto coraggiosamente di intraprendere una strada che non è ancora stata percorsa. Una strada di speranza, amore, luce, dignità, inclusione e riconoscimento reciproco. E sono anche qui per dirvi, sì, avete un partner, e lo avete visto».

LE REAZIONI Dal 2017 ogni settembre viene organizzata una marcia per la pace che dura due settimane con migliaia di donne di ogni provenienza sociale e di ogni appartenenza politica e credo religioso. Molte personalità israeliane hanno sostenuto e partecipato alle manifestazioni tra cui alcuni deputati dell’opposizione israeliana e altri della coalizione di destra, così come molti intellettuali, artisti e scrittori venuti da tutto il mondo. Nell’ambiente politico importante, invece, è stato l’appoggio di esponenti dell’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) e dell’Autorità Palestinese. Dall’altro canto Hamas si è fin da subito opposto al movimento: attraverso un comunicato ufficiale gli esponenti del movimento hanno denunciato l’iniziativa e hanno definito l’intenzione di creare un dialogo con Israele “una rinuncia al consenso nazione e un’offesa fatta alla storia del nostro popolo”.

GLI OBBIETTIVI Attualmente l’obbiettivo principale del movimento è l’espansione della rappresentanza delle donne e l’intensificazione degli sforzi nel realizzare un percorso costruito sul rispetto reciproco per raggiungere in futuro una convivenza pacifica. Questa nuova espressione di collaborazione potrebbe essere quella vincente; grazie all’influenza dei social, le donne della Women Wage Peace riescono a raggiungere una platea sempre più ampia che oggi conta più di ventimila membri e, grazie alla nuova ondata del femminismo intersezionale, ogni volontaria può sentirsi finalmente rappresentata. Famoso anche grazie al video della canzone dell’artista israeliana Yael Deckelbaum “La Preghiera delle Madri”, il movimento ha raggiunto tutto il mondo; oggi tocca anche a noi cantare insieme e forte questa poesia diffondendo il messaggio di pace e dialogo che le donne negli anni hanno cercato e cercano tutt’ora di perseguire.

Author: Miriam Molinari

Qualcuno salvi l’Università

Nella conferenza stampa di domenica il Presidente del Consiglio Conte ha esposto i provvedimenti del nuovo decreto sulla “fase 2”. Un discorso di 40 minuti in cui, però, non ha avuto spazio quella che dovrebbe essere l’elemento fondamentale per ogni paese che vuole ripartire davvero: la scuola.

Dal 4 maggio si potranno rivedere i congiunti che abitano nella propria regione. Si potrà fare sport e attività motoria individuale mantenendo una distanza di sicurezza di 1 metro. Le funzioni religiose rimangono sospese ma è prevista una deroga per i funerali, solo in presenza di parenti stretti in un numero massimo di 15. Parchi, ville e giardini potranno riaprire ma saranno sottoposti ad eventuali limitazioni imposte da amministratori locali. Poi il passaggio sul “programma differito e a tappe” che porterà alla “riapertura di musei, mostre, biblioteche e la ripartenza degli allenamenti per gli sport collettivi” il 18 maggio e di “bar, ristoranti, parrucchieri, centri estetici, barbieri e centri massaggi” il 1° giugno. Si può riassumere così la conferenza stampa con cui il premier Giuseppe Conte ha annunciato il programma del governo per la “Fase 2” che scatterà tra 7 giorni. Dopo 40 minuti di diretta, però, sorge un dubbio: e la scuola?

Se nel decreto è riportato quanto già stabilito nelle scorse settimane, con la sospensione delle attività didattiche in presenza e l’implementazione di “modalità di didattica a distanza avuto anche riguardo alle specifiche esigenze degli studenti con disabilità”, l’assenza di un passaggio specifico se non minimo durante la conferenza è pesante. Non solo perché si fa esplicito riferimento a “centri estetici, barbieri e centri massaggi” e non a scuole ed Università, ma anche perché in un momento così delicato sono milioni gli studenti e i docenti in cerca di rassicurazioni ed aiuti. Cercano rassicurazioni i maturandi che ad oggi non sanno con che modalità si svolgerà l’esame più importante della loro vita. Cercano risposte i professori, che non sanno come muoversi. Chiedono aiuti gli universitari stretti in una morsa tra tasse da pagare, affitti da fuorisede e quei costosissimi libri da comprare per forza visti i problemi, con la digitalizzazione dei cataloghi bibliotecari.

Se in serata qualche aggiornamento sulla scuola ha provato a darlo il Ministro dell’Istruzione Azzolina, affermando che si sta lavorando per una ripresa in sicurezza a settembre e promettendo nuove assunzioni, continuano a mancare comunicazioni ufficiali mentre troppi problemi sembrano essere sottovalutati. Nulla è ancora deciso, ad esempio, sulle modalità con cui verrà svolta la maturità se non le promesse sul fatto che non sarà “un esame online ma sarà svolto in presenza”. Ritardi che, a poco meno di un mese dagli esami, stanno facendo salire le prime legittime ansie di studenti e professori che temono di doversi preparare in fretta e furia ad una maturità inedita senza un minimo di preavviso. Alla lunga stanno poi emergendo anche le disparità provocate dalla didattica a distanza: c’è chi l’ha adottata dal primo minuto, chi lo ha fatto in ritardo e chi, ancora, non riesce a garantire il corretto svolgimento delle lezioni con evidenti ricadute anche sull’esito dell’anno scolastico. C’è poi una impreparazione di fondo da parte dei docenti, non certo per colpa loro sia chiaro, che spesso provano a riproporre le stesse lezioni che avrebbero fatto in classe davanti ad uno schermo senza riuscire così a catturare l’attenzione di studenti che rimangono come automi a ricevere informazioni senza apprendere per davvero. Ma soprattutto esiste un problema economico di fondo: non tutte le famiglie italiane hanno a disposizione gli strumenti per connettersi. Banda larga, computer, webcam, tablet e chi più ne ha più ne metta sono per molti un lusso che rischia di tagliare fuori i ragazzi dal loro sacrosanto diritto allo studio.

E proprio i problemi economici si fanno sentire, ancora di più, per gli studenti universitari che in questo periodo sembrano essere abbandonati a loro stessi. Nel silenzio del Ministro Manfredi e del Governo sono molte le grida di protesta che si alzano dal mondo accademico. I primi a pagare per questa situazione sono senza dubbio quei fuorisede che, per responsabilità civica e morale, hanno deciso di non prendere parte all’esodo verso il sud della ormai celebre notte tra il 7 e l’8 marzo. Intrappolati in città non loro, senza alcuna apparente ragione che li trattenga se non la Ragione stessa, venuta meno la possibilità di sostentarsi con quei lavoretti che prima potevano svolgere saltuariamente si ritrovano ora completamente soli a dover affrontare spese che non sono diminuite. Perché il virus che li costringe in casa, non ha fermato né le tasse universitarie da pagare né gli affitti di case e studentati. E mentre il governo spinge per implementare la didattica online, incluso lo svolgimento regolare di esami e sessioni di laurea, sembra trascurare la realtà quotidiana di chi vive le università italiane. La chiusura delle biblioteche e i ritardi nella digitalizzazione dei cataloghi costringono ad esempio gli studenti a dover forzatamente comprare libri costosissimi da usare un mese o poco più. Stage e tirocini sono diventati allo stesso tempo indispensabili per potersi laureare ma impossibili da svolgere a causa delle limitazioni, costringendo di fatto molti a dover rimandare il conseguimento del titolo. Si consiglia ai professori di far lezioni più brevi per aiutare gli studenti a restare concentrati ma allo stesso tempo si pretende che venga portato a termine il programma previsto.

La possibilità, prevista dall’ultimo decreto, di svolgere esami, laboratori e sessioni di laurea in presenza su disposizione dei singoli atenei non risolve i problemi reali di un mondo che sembra essere abbandonato a sé stesso. Un mondo che ora, con la crisi economica che inevitabilmente seguirà a quella sanitaria, rischia di uscire pesantemente ridimensionato anche nei numeri. Ne abbiamo avuto un esempio nel recente passato con il drastico calo delle immatricolazioni a seguito della crisi economica del 2008 che in 5 anni ha visto gli iscritti all’università calare dai 307mila del 2007 ai 270mila del 2013. Una tendenza che si è ribaltata solo negli ultimi anni con una crescita stabile che non ha ancora portato ai livelli di un decennio fa ma che rischia di interrompersi bruscamente. Senza aiuti agli studenti e sgravi sulle imposte accademiche si rischia un calo brusco degli immatricolati per il prossimo anno. Si rischia che molti si vedano costretti ad abbandonare un percorso già iniziato ma diventato insostenibile tra tasse, affitti e sostentamento. L’Università rischia l’inizio di una crisi pesantissima.

Una crisi che non metterebbe a rischio solo migliaia di posti di lavoro ma anche, e soprattutto, il futuro del nostro paese. Perché dopo aver perso la generazione “del passato” a causa del virus, non possiamo permetterci di sacrificare quella “del futuro”. Serve un intervento deciso per mettere in condizione studenti e professori di continuare quel contagio di sapere che è necessario per far ripartire la società dopo una crisi come quella che stiamo vivendo. È necessario tanto quanto far ripartire l’economia. È necessario senza dubbio di più, e non ce ne vogliano i diretti interessati, di far ripartire centri estetici e centri massaggi. Perché il futuro lo si deve costruire da ora. E ogni studente che deciderà di ritirarsi perché non riesce più a pagare le tasse, ogni diplomato che cercherà un lavoro perché non può permettersi di continuare gli studi, saranno una sconfitta per l’intero paese.

Cartelli e coronavirus: il Messico è sempre più un narco-stato

“Messico e nuvole la faccia triste dell’America
il vento insiste con l’armonica,
che voglia di piangere ho”
– Enzo Jannacci-


Il Messico si appresta a vivere i momenti più drammatici dall’inizio dell’emergenza sanitaria. Con oltre 10.000 contagi, di cui oltre mille nella sola giornata di ieri, e quasi 1.000 vittime il paese sta infatti entrando nel pieno della crisi con prospettive di certo non rosee. “La diffusione del virus” ha detto nei giorni scorsi il ministro della salute Lopez “può essere così veloce da non consentire l’adattamento del sistema sanitario anche se stiamo attraversando il processo di riconversione”. Il governo centrale ha imposto, seguendo l’esempio del resto del mondo, condizioni severe disponendo la quarantena per i propri cittadini e sospendendo le attività non essenziali. Ma mentre l’intero paese si chiude in casa, c’è chi proprio ora esce allo scoperto: la criminalità organizzata.

Background – Il potere dei gruppi criminali messicani è cresciuto in maniera vertiginosa negli ultimi decenni del Novecento in modo parallelo alla crisi dei cartelli colombiani. Il declino dei principali concorrenti sulle rotte del narcotraffico ha infatti portato la criminalità messicana ad assumere un controllo quasi monopolistico dei flussi di cocaina verso gli Stati Uniti che ha generato un aumento non solo dei profitti ma anche e soprattutto del loro ruolo a livello internazionale. Se nei rapporti con l’esterno, questo potere ha portato a veri e propri accordi ed alleanze con i principali gruppi mafiosi sudamericani ed internazionali, ‘ndrangheta e Cosa nostra soprattutto, all’interno dei confini messicani ha prodotto profondi rapporti con la politica, l’economia, la società e la cultura messicana. Una penetrazione totale che ha interessato ogni ambito del tessuto sociale messicano tanto da indurre molti a reputare il Messico come un narco-stato.

Se fino agli anni ’90 si poteva individuare in messico la presenza di un solo gruppo criminale prevalente, il cartello di Gadalajara, negli ultimi 30 anni si è assistito ad un processo di frammentazione. Attualmente nel paese operano almeno 9 cartelli principali ma si contano almeno un centinaio di gruppi criminali minori legati in vario modo ai principali gruppi di narcos.  La frammentazione ha inevitabilmente portato ad un graduale aumento del conflitto tra i vari cartelli con un sempre più frequente uso della violenza per affermare il proprio potere sul territorio.

Violenza – Ed è proprio il carattere violento di queste organizzazioni ad emergere con dirompente chiarezza in questo periodo di crisi. Il governo federale e i funzionari statali stanno infatti concentrando i propri sforzi e le proprie risorse nella lotta al coronavirus lasciando di fatto ampio argine di manovra ai gruppi criminali che si trovano ad operare in un cono d’ombra mediatico-istituzionale che gli permette di agire con maggior libertà. Una maggior libertà che si è trasformata ben presto in un riacutizzarsi dello scontro tra i cartelli nel tentativo di ridisegnare gli equilibri e la geografia criminale aggredendo, spesso militarmente, i gruppi rivali. Una strategia frutto della brusca interruzione dei traffici di droga, in forte calo a causa delle restrizioni, che ha portato i cartelli a concentrarsi maggiormente su obiettivi “politici” provocando nel solo mese di marzo 2.585 omicidi, il numero più alto dall’inizio della raccolta dei dati nel 1997.

Caso emblematico è quanto accaduto nello stato di Guanajuato dove, a metà mese, si sono verificati violenti scontri tra il cartello locale di Santa Rosa de Lima, indebolito dalla repressione statale, e il rivale Jalisco New Generation. L’intervento statale in contrasto ai furti di carburante dagli oleodotti che attraversano lo stato del Messico centrale ha infatti indebolito in maniera significativa il cartello di Santa Rosa spingendo il gruppo rivale ad approfittare dell’emergenza sanitaria per provare a infliggergli il colpo di grazia e mettere le mani su un territorio particolarmente ambito proprio per la presenza di importanti attività criminali legate al carburante. Un episodio che rappresenta solo la punta di un iceberg molto più profondo fato di scontri e faide che stanno insanguinando l’intero paese.

Ma l’aumento della violenza non si sta manifestando solo negli scontri tra cartelli. Nel computo degli omicidi rientrano anche, purtroppo, vittime innocenti. Da Isaac Medardo Herrara Avilés, storico rappresentante legale di alcune comunità dello stato di Morelos ucciso nella piazza principale di Jiutepec, alla giornalista Maria Elena Ferral, raggiunta da otto colpi di arma da fuoco a Papantla. Un messaggio chiaro e determinato da parte dei cartelli: chi lotta e denuncia violenza, corruzione e forme di antistato, oggi, deve guardarsi da un doppio nemico. Il virus e i cartelli.

Aiuti – Il carattere di anti stato, o di potere parallelo a quello ufficiale, sta in questo periodo di crisi diventando sempre più evidente. Sfruttando la disperazione della gente e l’incapacità del governo di fornire assistenza e aiuti alle fasce più deboli della popolazione, i gruppi criminali stanno correndo in soccorso dei più poveri nelle periferie messicane. Distribuiscono cibo, portano aiuti sanitari, fanno la spesa e garantiscono aiuti economici al posto di uno stato colpevolmente assente. A Ciudad de Victoria, nello stato di Tamaulipas, il cartello del Golfo ha inviato i suoi uomini a bordo di lussuosi camion e pickup per distribuire cibo e aiuti. Le foto, pubblicate sui social come forma di propaganda, mostrano persone felici e sollevate con scatole di cartone piene di cibo e la scritta “il Cartello del Golfo a sostegno di Ciudad di Victoria”. Una dimostrazione di solidarietà e vicinanza, come se ne stanno vedendo a centinaia in tutto il paese, con cui i cartelli puntano a rafforzare il loro potere e radicamento sul territorio. Distribuendo aiuti i gruppi criminali puntano ad ottenere la riconoscenza della popolazione e di conseguenza una lealtà diffusa ed un appoggio totale. Così, alla fine della pandemia, i cittadini di Citta di Victoria e tutti quelli aiutati dai cartelli, saranno pienamente disponibili ad aiutare, coprire o difendere quel potere che si è dimostrato così disponibile ad alleviare le loro sofferenze nel momento più buio.

L’assenza dello stato, dunque, nelle aree più colpite dalla crisi economica sono colmate dai cartelli e dalla loro praticamente infinita disponibilità di capitali. Solo tra la metà di marzo e l’inizio di aprile, si stima che in Messico sono stati persi 346.000 posti di lavoro a cui si aggiunge oltre mezzo milione di lavoratori in nero che non compariranno mai nelle statistiche. Una desolazione economica diffusa che permette ai cartelli di agire su una fetta di popolazione abbandonata dallo stato e che non ha alternative se non accettare gli aiuti criminali. “Sappiamo chi sono e di cosa sono capaci” ha commentato un cittadino di Guadalajara dopo aver ritirato un pacco di alimento consegnato dalla famiglia del “Chapo” Guzman “ma non abbiamo alternative. Sono la soluzione meno negativa”. Una frase che racchiude il senso della situazione messicana. I gruppi criminali sono il meno peggio. Con uno stato che non riesce ad aiutare gli ultimi, a farlo è la criminalità organizzata con conseguenze che potrebbero essere devastanti. Tra qualche mese, quando la crisi sarà finita e il Messico tornerà alla normalità lo Stato avrà perso la fiducia dei propri cittadini, più disposti ad assecondare le richieste di quei criminali che sono corsi in loro soccorso che di un governo che li ha abbandonati. E allora sarà dura pensare di iniziare a combattere sul serio i cartelli. Sarà dura pensare di riaffermare il potere statale dove ora c’è un vuoto disarmante che solo i narcos riescono a colmare.

L’altra prospettiva: gli attivisti israeliani

Fino ad oggi vi abbiamo parlato delle forme di resistenza dei palestinesi alle ingerenze israeliane. Ma da tempo ormai sono in atto forme di protesta e resistenza attuate anche dagli stessi israeliani: cittadini, associazioni, collettivi e persino militari che si battono per i diritti del popolo palestinese.

A riconoscere ed indignarsi per un’occupazione sempre più capillare che causa pesanti ed incessanti violazioni di diritti umani non solo i palestinesi, prime vittime di tali violazioni. Infatti, anche all’interno della società israeliana è possibile confrontarsi con differenti gruppi di attivisti. Vari sono i gruppi, informali e non, che si occupano di prendere una posizione contro l’occupazione militare e le ingiustize da parte dello Stato israeliano nei confronti della popolazione palestinese. I gruppi di attivisti sono generalmente, ma non sempre, composti da poche persone, e ogni gruppo ha degli obiettivi ben specifici e dichiarati. Molti di essi partecipano alle manifestazioni di protesta non violente che si svolgono quasi giornalmente o settimanalmente in molti villaggi del West Bank. Tali attività servono principalmente a dimostrare la loro vicinanza e supporto alla popolazione, ma soprattutto ad attirare l’attenzionde dei media su questi luoghi, lontani dai grandi centri di scontro, che sono solitamente non conosciuti, se non addirittura dimenticati.

ATTIVISMO NON VIOLENTO Le organizzazioni sono varie e di diversa natura; alcune di queste sono reti informali che si organizzano semplicemente attraverso una mailing-list, le quali hanno come obiettivo il voler scuotere le coscienze della cittadinanza israeliana. La maggior parte di questi gruppi raccolgono un bacino eterogeneo di popolazione e si concentrano sulla collaborazione tra le due componenti del territorio, formando una rete congiunta di palestinesi e israeliani. Il tratto comune che unisce tutti i movimenti di attivisti israeliani è il perseguire le loro attività in maniera non violenta. Lo scopo di tali manifestazioni pacifiche è quello di poter aiutare la popolazione palestinese nelle loro esigenze quotidiane, ma anche e soprattutto, di porre l’attenzione sulle politiche espansionistiche del governo israeliano. Molti gruppi di attivisti sottolineano di non essere antisraeliani, bensì di essere contro l’occupazione di Israele nel West Bank.

B’T SELEM Una delle organizzazioni di attivisti nata all’interno del territorio israeliano è B’Tselem, fondata nel 1989, è considerata il centro d’informazione israeliano per i diritti umani nei territori occupati. La sua è un’attività di difesa a sostegno della popolazione palestinese, la quale si vede continuamente negati e violati i diritti umani fondamentali di ogni individuo. L’organizzazione documenta e pubblica statistiche e report annuali, mettendo in luce le violazioni dell’occupazione, con lo scopo di decostruire tutto il sistema che permette e legittima comportamenti di sopprusi ingiustificati e non perseguiti.

Altre ancora sono le organizzazioni che fanno pressione per una più chiara e trasparente assistenza legale fornita ai palestinesi in custodia amministrativa. Hanno come scopo il voler denunciare la violazione di alcuni diritti negati al popolo palestinese sotto il controllo militare, tra cui il diritto all’acqua e all’istruzione.

PEACE NOW Peace Now è un’organizzazione che, attraverso una vasta gamma di attività, ha l’obiettivo di educare la cittadinanza sui temi già sopraccitati e di influenzare l’opinione pubblica con il fine di avere una certa visibilità nell’agenda politica del paese. Inoltre, si occupa di informare i cittadini sulla capillare espansione degli insediamenti israeliani, attraverso il gruppo di settlement watch.

BREAKING THE SILENCE Le organizzazioni citate in precedenza sono composte da civili israeliani, attivisti che si impegnano quotidianamente per la causa palestinese. Di altra natura invece è Breaking the Silence, un’organizzazione creata da ex-soldati israeliani, che si pone come obiettivo quello di ”rompere il silenzio” sulle atrocità commesse dall’esercito israeliano durante l’occupazione. L’organizzazione nasce nel 2004, alla fine della seconda intifada, l’obiettivo è quello di raccogliere testimonianze di ciò che porta l’occupazione in Cisgiordania e portarlo alla luce all’interno del dibattito pubblico nella società israeliana, la quale, troppo spesso, sceglie il silenzio alla giustizia e l’ignoranza alla presa di coscienza. D’altronde, già nel ’75, Kapuscinsky diceva che oggi si parla molto spesso della lotta contro il rumore, mentre è molto più importante combattere il silenzio. Nella lotta al rumore è in gioco la pace dei nervi, nella lotta al silenzio la vita umana.

Author: Lamia Yasin

Coronabond e MES: Cosa sono e perchè dividono l’Europa

“Amo furiosamente l’Europa
ma ammetto che non funziona,
che dobbiamo rifondarla.”
-Emmanuel Macron-


Il coronavirus non è più solo un’emergenza sanitaria ma, in questi giorni più che mai, si sta trasformando in un’emergenza politica. Lo è per i governi statali chiamati a rispondere ad una situazione completamente nuova che spesso li ha trovati impreparati. Lo è, ancor di più, per l’Unione Europea che rischia di morire colpita da un braccio di ferro politico senza precedenti. Intrappolata nei suoi stessi meccanismi, non è stata fino ad ora in grado di dare risposte concrete per sostenere le famiglie e le imprese colpite da una crisi senza precedenti e che negli stati più colpiti arrancano e chiedono a gran voce un aiuto che non arriva. Si parla da giorni di MES e coronabond, con scontri e barricate tra chi sostiene uno e chi sostiene l’altro. Tra chi in patria chiede a gran voce una misura ma poi la boccia in Europa. Tra chi non vuole nessuno dei due e chi, invece, chiede aiuti senza condizioni.

MES – Il Meccanismo Europeo di Stabilità, MES per gli amanti degli acronimi o “Fondo salva stati” per chi vuole semplificare, è un’organizzazione intergovernativa europea attiva dal luglio 2012. Regolato dal diritto internazionale e con sede in Lussemburgo, il fondo nasce con lo scopo di fornire assistenza finanziaria agli stati dell’area euro che versino in condizioni di difficoltà tali da mettere a rischio la stabilità dell’intera Unione. A disposizione del fondo ci sono circa 700 miliardi di euro di cui solo una parte (80 miliardi) viene finanziata direttamente dagli stati membri in modo proporzionale alla loro importanza economica mentre il restante capitale viene raccolto sui mercati finanziari attraverso l’emissione di bond. L’Italia, terza economia europea dopo Germania e Francia, ha contribuito per il 17,9% versando all’organizzazione 14,3 miliardi di euro. Sette meno dei tedeschi e due meno dei francesi.

Il problema di fondo, per cui molti lo ritengono uno strumento inadeguato ad una situazione così critica, è che il meccanismo di stabilità concede prestiti dietro condizioni severe. Per poter accedere al fondo il paese che lo richiede deve sottoscrivere una lettera d’intenti concordata con la Commissione Europea, la BCE e il Fondo Monetario Internazionale in cui si impegna ad attuare interventi specifici nell’abito di un consolidamento fiscale, delle riforme strutturali, o del settore finanziario. Proprio da qui nasce lo scontro che ha spaccato il governo italiano e sta dividendo i paesi europei. I paesi che decidessero di attivare il meccanismo sarebbero infatti sottoposti a vincoli e regole più ferree rispetto agli altri stati rischiando di trovarsi ad affrontare una stagione di riforme più rigide e difficoltà finanziarie maggiori. Condizioni che stridono con il principio di solidarietà su cui si basa la comunità europea e che non sembrano in grado di rispondere in maniera efficace ad una crisi che colpisce tutti.

Coronabond – Meno condizioni sono invece richieste dai cosiddetti “eurobond”, ribattezzati “coronabond” per l’occasione. Quando si parla di Eurobond ci si riferisce ad un’obbligazione ideata nel 2011 dalla Commissione Europea presieduta dal portoghese José Manuel Barroso dietro cui si cela un ragionamento semplice: essendo l’eurozona un’entità con un’unica banca centrale e un’unica moneta, perché non creare anche un unico debito pubblico? Un titolo di stato europeo garantisce infatti una maggior stabilità e tassi di interesse minori di quelli a cui sarebbero sottoposti i titoli dei paesi più deboli.

Avendo spese superiori rispetto alle entrate, gli stati chiedono costantemente prestiti emettendo in cambio obbligazioni (bond, in inglese) che garantiscono una rendita annuale a chi li detiene. Lo stato che ha richiesto il prestito paga in questo modo gli interessi impegnandosi a ripianare il debito allo scadere delle obbligazioni. L’Italia, ad esempio, emette solitamente i cosiddetti BTP, obbligazioni decennali che al momento rende agli acquirenti un interesse di circa l’1,7%. In sostanza chi presta soldi al nostro paese riceve un 1,7% annuo per dieci anni dopodiché riottiene la somma prestata. Il rendimento dei titoli di stato è in continua evoluzione e dipende dalla solidità del paese: più un paese è stabile, più l’investimento viene considerato sicuro e più sarà basso il tasso di interesse. Al contrario per paesi in difficoltà l’interesse sarà maggiore essendo più alto il rischio che non riescano a ripagare il debito. Metro di paragone è la Germania, ritenuta l’economia più solida a livello europeo, sui cui titoli di stato viene calcolato il divario (lo “spread”) degli altri stati. Un divario che oscilla tra i 226 punti della Grecia, i cui titoli hanno un tasso di rendimento del 2,1%, e i 29 punti dell’Olanda, i cui titoli sostanzialmente non danno alcun rendimento.

Proprio le oscillazioni a cui sono sottoposte le obbligazioni rendono gli eurobond, o coronabond che dir si voglia, maggiormente utili per quei paesi meno stabili. La grande stabilità finanziaria dell’Unione Europea nel suo complesso garantisce la possibilità di emettere titoli con un tasso di interesse comune per tutti i paesi e che dunque non sia soggetto ad oscillazioni stato per stato. La condivisione di un debito comune a tutti gli stati genera però preoccupazione in quei paesi caratterizzati da un maggior rigore preoccupati per la possibilità di fallimento di stati meno inflessibili che ne potrebbero approfittare per tenere comportamenti economicamente irresponsabili lasciando di fatto il pagamento del debito in capo ai contribuenti di stati più virtuosi.

Europa – Come il premier Giuseppe Conte, anche noi siamo costretti a fare nomi e cognomi. In Europa le barricate dello scontro eurobond-Mes hanno infatti contorni e colori ben definiti: da una parte gli stati dell’area mediterranea, Italia e Spagna su tutti, dall’altra quelli del nord Europa, capeggiati dalle virtuosissime Olanda e Germania. Mentre i primi chiedono un salto culturale all’Unione Europea con l’approvazione di una misura senza precedenti, i secondi frenano spingendo invece per l’utilizzo del MES seppur con qualche correzione che lo renda meno rigido.

A chiedere l’indebitamento comune tramite coronabond è stato il cosiddetto “gruppo dei nove”, ovvero un ampio schieramento di governi nazionali che nelle scorse settimane hanno firmato una lettera indirizzata alla commissione. Italia, Spagna, Francia, Belgio, Lussemburgo, Grecia, Irlanda, Portogallo e Slovenia hanno chiesto così formalmente che la Commissione Europea apra finalmente a questo debito comune per permettere lo sfruttamento di maggiori risorse e affrontare la crisi in corso. Si tratta di stati che, oltre ad essere i più colpiti dall’emergenza coronavirus, presentano i conti pubblici più fragili e quindi maggiormente in difficoltà nel finanziare misure straordinarie per il sostegno di imprese e famiglie. Ma se la Commissione Europea ha, dopo vari tentennamenti, accettato le richieste aprendo alla possibilità di indebitarsi, a fermare il tutto sono arrivati i falchi del nord: Olanda, Finlandia, Austria e, naturalmente, la Germania. I paesi più virtuosi del continente non intendono fare ulteriori concessioni dopo le misure già approvate per lo sforamento del tetto del 3% al deficit pubblico, quello del 60% al debito pubblico e la sospensione delle regole sulla concorrenza riguardo agli aiuti di Stato. Misure che permetteranno agli stati di indebitarsi senza incorrere in conseguenze mettendo a rischio la stabilità dell’intera unione. Uno strappo dell’Unione che Berlino e si suoi satelliti non hanno mai pienamente digerito e che considerano già una misura straordinaria.

E mentre lo scontro tra nord e sud Europa imperversa, il tempo passa. Bisogna urgentemente intervenire, come ha sottolineato Mario Draghi nel suo editoriale sul ‘Financial Times’, “con la necessaria forza e rapidità per impedire che la recessione si trasformi in una depressione duratura”. Bisogna farlo prima che sia troppo tardi, prima che il costo dell’esitazione sia fatale non solo per l’Unione ma anche e soprattutto per i suoi stati membri. È ora di dimostrare, in quanto europei, che quella solidarietà su cui è stata fondata l’Unione non è solo una parola vuota ma un reale valore comune e condiviso. È necessario, oggi più che mai, mostrarci uniti per combattere un nemico che, innegabilmente, sta colpendo tutti.

Hebron, la città fantasma contesa da due popoli

Tra le ingerenze dell’esercito israeliano e i tentativi di resistenza del popolo palestinese, a Hebron convivono forzatamente due popoli. Una situazione sempre più al limite nella città divenuta fantasma dopo le chiusure imposte dai militari. Una città che sembra vivere in attesa dello scontro.

Conosciuta in arabo con il nome di Al-Khalil, Hebron è la più grande città palestinese in West Bank. Tra i suoi 250’000 abitanti, a maggioranza palestinesi, si contano anche i circa 700 coloni israeliani insediati nel cuore Città vecchia e i 7’000 dell’insediamento di Kiryat Arba, situato nella periferia della città. La fondazione di Kiryat Arba, avvenuta nel 1968, rappresenta l’inizio di una colonizzazione capillare da parte dello Stato di Israele che ha portato, e ancora porta, a sistematiche violazioni di diritti umani e incessanti violenze a danno della popolazione palestinese. Ad oggi, in città si possono contare altri quattro insediamenti (Tel Rumeida, Beit Hadassah, Avraham Avinu e Beit Romano) che, nel complesso, raccolgono alcune centinaia di coloni.

Il principale centro d’interesse dell’intera città è rappresentato senza dubbio dalla Tomba dei Patriarchi, conosciuta in arabo come la “Al-Ibrahimi Mosque”, la Moschea di Abramo, luogo sacro ove si crede giacciano le tombe di Abramo, Isacco e Giacobbe. Trovandosi Hebron al centro di un crocevia di millenarie rotte commerciali che viaggiavano fra la Palestina, la Giordania, il Sinai e il nord della penisola arabica, la Tomba dei Patriarchi divenne presto luogo di pellegrinaggio per le tre religioni monoteiste: ebraismo, islam e cristianesimo. Tuttavia, alla prosperità e floridezza che Hebron visse in passato, si contrappone oggi la cruda immagine di una città fantasma, non più crocevia di scambi commerciali e sede di crescita spirituale per i credenti, ma centro di violenze, violazioni e intimidazioni.

DAGLI ANNI ’90 AD OGGI – Gli anni Novanta sono stati un decennio particolarmente doloroso per la storia della città. Nel novembre del 1994, il colono israeliano Baruch Goldstein irruppe nella Moschea di Abramo armato di un fucile uccidendo 29 persone in quel momento impegnate in preghiera. Alla fine della giornata il numero delle vittime fu complessivamente 60, di cui 29 nella moschea, 26 palestinesi uccisi dall’esercito israeliano e 5 israeliani uccisi dalla folla inferocita. Quest’evento, conosciuto da lì in poi come il massacro di Hebron, avvenne esattamente nel luogo più sacro della città, la Tomba dei Patriarchi, luogo di culto di massima importanza sia per la religione ebraica che per quella musulmana, oggi diventato l’emblema di una città divisa in due. Tre anni dopo il massacro, lo Stato di Israele e l’Autorità palestinese firmarono un accordo, il così detto “Protocollo di Hebron”, in virtù del quale la città venne divisa in due settori: Hebron 1 (circa l’80% delle superficie totale), il cui controllo viene affidato all’Autorità Palestinese, ed Hebron 2, controllata dall’esercito israeliano. Di conseguenza, dal 1997 Hebron è – anche formalmente – una città spaccata in due.

LA CITTA’ FANTASMA – “Dietro questa barriera c’era il mercato all’ingrosso dove si poteva trovare di tutto: frutta, verdura, cammelli…” Inizia così il racconto di Issa Amro, attivista palestinese e fondatore dell’organizzazione Youth Against Settlements, mentre indica una delle centinaia di barriere che da più di vent’anni barricano le vie della Città Vecchia di Hebron. “Quando ero bambino, mio padre doveva tenermi sempre per mano a causa della folla. Oggi Hebron è una città fantasma, per colpa della politica di chiusura e delle intimidazioni e violenze dei coloni e dei soldati israeliani”. Lungo i vicoli della Città Vecchia, un tempo animati da un fiorente mercato e dal chiassoso brulichio di intere famiglie si susseguono oggi ingressi di negozi serrati alternati a qualche sporadica bancarella di frutta, verdura o oggettistica. Camminando, si riesce a percepire la vita che un tempo animava questa zona della città, e tale sensazione la rende ancor più intrisi di nostalgica malinconia. Dal 1997, sono stati all’incirca 1800 i negozi chiusi per ordine militare israeliano, e rappresentano il 77% della zona commerciale del centro.

Proprio lì dove l’esercito sigillava quasi tutti i negozi palestinesi, i coloni israeliani si insediavano ed espandevano, occupando principalmente i tetti della Città Vecchia. I palestinesi, che ancora oggi vivono e popolano quest’area, hanno dovuto provvedere a proteggere le strade dell’antico mercato con ogni tipo di rete poiché dagli insediamenti sovrastanti viene gettato ogni genere di rifiuto e pietre, ma anche liquami, tra cui acqua sporca, candeggina e urina. Ad alimentare un progetto che mira a cancellare la storia, l’identità e la cultura palestinese, si aggiunge la distruzione di vecchi edifici del centro storico prontamente sostituiti con nuove e discordanti strutture.

Dal 2017, la Città vecchia di Hebron è stata inserita nella lista dei Patrimoni dell’umanità dell’UNESCO nella quale, nonostante l’opposizione d’Israele, figura come “sito palestinese”. Tra le numerose vie e stradine che percorrono la Città Vecchia, la principale è Shuhada Street, la strada che conduce al centro d’interesse e cuore pulsante di Hebron, la Tomba dei Patriarchi. Ma oggi, come in un tremendo scherzo, la principale strada palestinese è chiusa ai palestinesi. Shuuada Street è diventata accessibile solamente a israeliani e internazionali.

Quello di Shuuada Street è però solo il caso più emblematico di una città che, su una superficie di appena 74 kilometri quadrati, vede la presenza circa ventidue checkpoint e cento barriere di movimento che rendono impossibile la vita di decine di migliaia di palestinesi. Oggi, nella Città Vecchia di Hebron vi si possono trovare strade completamente chiuse, alcune accessibili solo ai settlers israeliani, altre accessibili solo ai palestinesi, o altre ancora divise in due per essere percorse separatamente da israeliani e palestinesi.  E come se non bastasse, nell’estremo tentativo di cancellare la storia del popolo palestinese, le insegne originali delle vie e piazze della città sono state ormai sostituite da nuove targhe con nuovi nomi, tutti completamente in ebraico. I nomi originali arabi rimangono vivi solo nelle memorie dei palestinesi residenti ad Hebron.

Questo regime di separazione ha contribuito a rendere Hebron uno dei simboli più emblematici della profonda e lacerante frattura fra palestinesi ed israeliani che, però, proprio in questa città vissero anche gesti di solidarietà reciproca in un passato non troppo remoto. Come nell’agosto del 1929, quando, durante una serie di moti contro i primi coloni ebrei, la comunità ebraica di Hebron rifiutò la protezione dell’Haganah (un’organizzazione paramilitare ebraica) contando sui buoni rapporti instauratasi da tempo con la popolazione palestinese e i suoi rappresentanti. Ciononostante, oggi la caratteristica di Hebron è la divisione. Strade divise, accessi separati ai luoghi di culto, negozi differenti. Una città contesa e divisa. Una città dove arabi e israeliani sembrano vivere in attesa della prossima forzatura, del prossimo scontro.

Authors: Morgane Afnaim; Giulia Marini

Come la ‘ndrangheta si è presa la Germania

“Ricordati, Il mondo si divide in due:
ciò che è Calabria e ciò che lo diventerà.”
-Intercettazione telefonica-


“Signora Merkel, non arretri!”. Titolava così il delirante articolo, comparso qualche giorno fa sull’edizione online del quotidiano tedesco “Die Welt”, in cui il giornalista Christoph Schiltz invitava la cancelliera tedesca a non cedere sugli eurobond. Secondo l’autore, infatti, concedere aiuti comunitari ai paesi in difficoltà rappresenterebbe uno spreco di denaro pubblico per la Germania, soprattutto se destinati all’Italia dove “la mafia sta aspettando solo una nuova pioggia di soldi da Bruxelles”. Una frase che lascia attoniti davanti ad un tale esempio di rara aridità intellettuale e morale. Perché se è vero le mafie in Italia sono un problema e faranno di tutto per uscire rafforzate da questa emergenza, un giornalista che si rispetti dovrebbe anche sapere che il nostro paese ha la legislazione antimafia più avanzata al mondo. Un giornalista che si rispetti dovrebbe essere al corrente del fatto che i controlli antimafia che vengono fatti in Italia non sono secondi a quelli di nessun paese al mondo, nemmeno a quelli di Bruxelles invocati da Schiltz. Ma soprattutto un giornalista che si rispetti, a maggior ragione se tedesco, dovrebbe sapere che la Germania non è immune a tutto questo. Dovrebbe sapere che la mafia esiste anche a casa loro.

Duisburg – Nella città tedesca va in scena il 15 agosto 2007 l’ultimo atto della infinita faida di San Luca iniziata nel 1991 tra i Nirta-Strangio e i Pelle-Vottari. Una faida che ha visto un susseguirsi di morti e di regolamenti di conti, spesso perpetrati in occasione di ricorrenze religiose come estremo atto di sfida alla famiglia rivale rendendo di fatto un giorno di festa in un giorno di lutto.  Proprio secondo questo schema, a riaccendere lo scontro tra le fazioni in lotta era stato l’omicidio di Maria Strangio, moglie del boss Giovanni Nirta, avvenuto a San Luca il 25 dicembre 2006, in un agguato che aveva come obiettivo principale il boss calabrese. Le armi utilizzate in quell’occasione provenivano proprio dalla Germania, proprio da Duisburg. Un elemento che ha portato i Nirta-Strangio a prendere una decisione senza precedenti: spostare la faida a 2000 km di distanza e colpire i propri nemici nella città del Nordreno-Vestfalia.

Nella notte tra il 14 e il 15 agosto, davanti al ristorante “da Bruno”, a Duisburg, vengono uccisi a colpi d’arma da fuoco sei uomini di origine calabrese di età compresa tra i 16 e i 39 anni. I killer per accertarsi della loro morte colpirono una seconda volta a bruciapelo tutte le vittime. La matrice mafiosa della strage e chiara fin da subito ma il quadro per gli inquirenti tedeschi diventa ancor più chiaro, e inquietante, quando nelle tasche di Tommaso Venturi viene ritrovato un santino bruciato di San Michele Arcangelo. Nella pizzeria “da Bruno” quella notte, non si stava solo festeggiando il 18esimo compleanno di Tommaso. Quella notte da Bruno si era svolto il rito di affiliazione alla ‘ndrangheta del ragazzo.

“La strage di Duisburg è stata come un geyser.” scrisse la Commissione Parlamentare Antimafia nella sua relazione annuale sulla ‘ndrangheta “Uno zampillo ribollente e micidiale che da una fessura del suolo ha scagliato verso l’alto, finalmente visibile a tutti, il liquido miasmatico e pericolosissimo di una criminalità che partendo dalle profondità più remote della Calabria, si era da tempo diffusa ovunque nel sottosuolo oscuro della globalizzazione”. Quello che da tempo succedeva nell’ombra era ora visibile a tutti in tutta la sua drammaticità. La ‘ndrangheta era in Germania. Non vi era arrivata quel giorno, né nelle settimane precedenti. Silenziosa e letale si era infiltrata nel tessuto economico e sociale tedesco a tal punto da decidere di colpire proprio a Duisburg con una facilità tale da lasciar intendere una grande confidenza con il territorio. La Germania e l’Europa quella notte si accorsero che la mafia non era più un problema solo italiano. Era, ed è, un problema globale che non risparmia nessuno. Nemmeno la Germania.

Storia – La colonizzazione mafiosa della Germania sembra aver seguito lo stesso schema che ha portato la ‘ndrangheta nel nord Italia. Con un accordo siglato a Roma il 20 dicembre 1955, la Repubblica Federale Tedesca si impegnava a ridistribuire lavoratori italiani nei Lander occidentali del paese. Ebbe così inizio una fitta migrazione che dal sud Italia portò migliaia di persone nelle regioni più industrializzate del paese, soprattutto nel bacino della Ruhr. Una migrazione che, come accaduto per la colonizzazione del nord Italia, portò diversi soggetti legati alla criminalità organizzata a spostarsi e creò un terreno fertile per riprodurre modelli e tecniche già consolidate in patria. Si vennero a creare in Germania comunità di italiani che resero più semplice all’organizzazione calabrese, e non solo, rinsaldare quei legami di solidarietà e protezione con i propri corregionali costruendo la base per una infiltrazione profonda della società. Con il passare degli anni, grazie all’indifferenza delle istituzioni e all’inconsapevolezza della società civile, la ‘ndrangheta ha sfruttato ogni opportunità allungando i propri tentacoli anche sulla Germania orientale dopo la caduta del muro di Berlino.

Una presenza criminale che se da un lato non sembra esercitare un pieno controllo del territorio, nonostante la presenza di diverse locali, dall’altro sembra non interessarsene. In Germania, infatti, la ‘ndrangheta sembra voler applicare una strategia diversa, poco improntata ad una riproduzione totale del modello mafioso tradizionale ma più indirizzata verso interessi di carattere economico. Se mancano infatti rapporti con la politica e una presenza capillare sul territorio, è evidente come il paese abbia offerto alla criminalità organizzata opportunità di riciclaggio senza precedenti. Mantenendo un profilo basso, senza destare clamore a livello mediatico ed istituzionale con atti eclatanti, la ‘ndrangheta ha potuto operare lontana dai riflettori approfittando di una legislazione antimafia assente e di una noncuranza pressoché totale del fenomeno.

Una noncuranza divenuta evidente, e colpevole, proprio con i fatti di Duisburg. Una strage vera e propria con cui, per la prima volta, la ‘ndrangheta si espone e si manifesta in tutta la sua ferocia anche in Germania portando alla luce del sole una presenza radicata e forte anche nella prima potenza economica europea. Ma se nell’immediato Germania ed Europa se ne sono rese conto ed hanno attivato una stretta collaborazione con le autorità italiane per l’arresto dei responsabili della strage, subito dopo è calato nuovamente il silenzio. Quel silenzio di cui la ‘ndrangheta aveva bisogno per rafforzarsi ulteriormente. Lo stupore ed il clamore iniziali hanno lasciato spazio alla rimozione della società tedesca. L’immagine della Germania non poteva essere intaccata dalla presenza mafiosa. Era necessario dimenticare il più in fretta possibile i fatti di Duisburg, riportarli sotto una luce diversa e meno preoccupante. Così, non appena il processo venne spostato in Italia, la Germania spense i riflettori. La strage di Ferragosto divenne una questione tutta italiana, un problema tra famiglie calabresi che si era solo risolto sul territorio tedesco ma non interessava il paese. Così calò il silenzio su Duisburg. Calò il silenzio sulla presenza mafiosa in Germania. Così il paese perse la sua possibilità di reagire, di ribellarsi alla presenza mafiosa, e preferì fingere che quello che era successo non lo riguardasse. La Germania si voltò, colpevole, dall’altra parte lasciando campo libero alla criminalità organizzata. Lasciando che, anno dopo anno, anche la Germania divenisse Calabria.

Patrimonio culturale: il passato per proteggere il futuro

Nell’infinito conflitto israelo-palestinese anche il patrimonio storico e culturale gioca un ruolo di primo piano. Così anche luoghi di inestimabile valore diventano pedine sullo scacchiere di una guerra impari.

L’incessante conflitto israelo-palestinese si è evoluto dal ’48 ad oggi cambiando spesso forma, luogo, e modalità. Alcune di queste modalità sono piuttosto chiare ed ampliamente trattate, come ad esempio la sottrazione strategica delle risorse idriche a danno della popolazione palestinese. Tuttavia, altre fra queste, non sono facilmente individuabili rendendo così qualsiasi tipo di intervento più complicato. Tra questi, un argomento di cui poco si conosce e ancora meno si tratta è quello del patrimonio culturale palestinese.

IL PATRIMONIO CULTURALE Secondo l’UNESCO, Organizzazione delle Nazione Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura, il “Patrimonio rappresenta l’eredità del passato di cui noi oggi beneficiamo e che trasmettiamo alle generazioni future. Il nostro patrimonio, culturale e naturale, è fonte insostituibile di vita e di ispirazione”. Tale definizione racchiude in sé l’eredità ricevuta dal passato, che ispira e anima la vita nel presente e il lascito di cui godranno le generazioni future. Inevitabile è quindi lo stretto legame che si instaura fra il patrimonio culturale e l’identità del popolo che l’ha creato e mantenuto nel tempo. Senso di appartenenza, spirito d’identità collettiva e legame con la propria terra si intersecano indissolubilmente e si rispecchiano nella promozione e valorizzazione del proprio patrimonio culturale. Scriveva nel ‘75 Kapuscinsky riguardo al legame del palestinese con la propria terra che “è il saldo e irriducibile il patriottismo del contadino per il quale la terra possiede un valore sovramateriale, è parte della sua personalità e ragione della sua vita”. Si possa immaginare il valore di questa terra se su questa sia espressa una qualsiasi rappresentazione della propria storia e cultura. 

In seguito alla massiccia distruzione di patrimoni culturali durante la Seconda guerra mondiale, nel 1954 è stata approvata ed entrata in vigore la “Convenzione per la Protezione dei Beni Culturali in caso di Conflitto Armato”, primo trattato internazionale con l’obiettivo di salvaguardare i patrimoni culturali mondiali dalle possibili conseguenze devastanti dei conflitti. Tuttavia, in un conflitto in cui la terra è l’obiettivo e l’occupazione il mezzo, è facile, nonché strategicamente vantaggioso, non attenersi alla convenzione. Difatti, spesso, è stata sottratta al popolo palestinese la gestione del proprio patrimonio culturale, ponendo i siti di interesse sotto il controllo civile e militare israeliano, nella cosiddetta AREA C. Per quanto non si tratti di un attacco armato, tale sottrazione è un attacco alla vera identità palestinese. Inoltre, in questo modo vengono neutralizzate potenziali risorse economiche e turistiche che la Palestina potrebbe sfruttare.

BATTIR Ma esiste un caso in cui il titolo di patrimonio culturale dell’umanità conferito dall’UNESCO ha portato anche ad un trionfo palestinese. È successo con il sito UNESCO “paesaggio culturale di Battir”, situato a pochi chilometri a sudovest di Gerusalemme e noto per i suoi terrazzamenti di viti e ulivi risalenti all’epoca romana. Il villaggio di Battir è stato minacciato a lungo dal tracciato della “barriera di separazione israeliana” che avrebbe, oltre che causato danni irreversibili a questo sito culturale, isolato i contadini del villaggio dai terrazzamenti coltivati da secoli. Solamente la nomina del sito di Basir a patrimonio dell’UNESCO ha fermato la realizzazione del muro, impedendo di fatto il piano israeliano per indebolire il villaggio palestinese.

Immagine che contiene esterni, erba, pietra, roccia

Descrizione generata automaticamente

 SEBASTIA In linea con la narrazione della potenza occupante c’è Sebastia, n piccolo villaggio di 4500 abitanti a circa 12km a nord ovest di Nablus. Sebastia, città dell’antica Samaria, presenta al suo interno una divisione tra AREA B, a controllo misto di autorità palestinese ed israeliana, ed AREA C, comprendente tutto il sito archeologico, sotto completo controllo israeliano. In pochi chilometri di terra, Sebastia raccoglie nel suo territorio i resti di una città risalente all’Età del Ferro, la città romana di Erode, la Chiesa dei Crociati e la Tomba di Giovanni Battista, venerato anche dall’Islam. La ricchezza del patrimonio rende Sebastia una pedina sullo scacchiere politico israelo-palestinese che vede le due parti scontrarsi con i molti mezzi dell’uno ed i pochi dell’altro. A prendersene cura, vista la difficoltà dei locali a causa della divisione in aree, sono in particolare organizzazioni no profit internazionali, tra queste l’Associazione ATS Pro-Terra Sancta.

Si tratta di un’organizzazione no profit che realizza progetti di conservazione del patrimonio culturale, di sostegno alle comunità locali e di aiuto nelle emergenze umanitarie. L’impegno nella conservazione dei luoghi si traduce in quello di accrescere la consapevolezza del loro valore in tutte le comunità locali. Dalle attività svolte in loco si creano opportunità per formare tecnici e artigiani qualificati, occupare giovani, donne e persone con disabilità, generando inoltre fonti di reddito tramite l’attivazione di iniziative socio-imprenditoriali legate al turismo sostenibile ed a nuove forme di accoglienza. Proprio in termini di accoglienza, da diversi anni, il Mosaic Centre di Gerico e l’Associazione Pro-Terra Sancta lavorano insieme per preservare e valorizzare il patrimonio culturale delle comunità locali in due villaggi della Cisgiordania: Sabastia e Nisf Jubeil. Oggi anche sede di accoglienti guest house che hanno dato nuova vita a rovine abbandonate.

Quanto conta il patrimonio culturale? Sono due gli elementi da considerare. Esternamente, le barriere, siano esse fisiche o legislative, deturpano il patrimonio, togliendo a tutti, non soltanto alle comunità locali, la possibilità di godere della loro straordinarietà. Sarebbe stato questo il caso di Battir ed è il caso di Sebastia, dove non è scontato il semplice utilizzo di bidoni della spazzatura che ridonerebbero dignità alla bellezza antica del luogo.

Internamente, il patrimonio culturale è senso di appartenenza e radici di un popolo, ma anche possibilità di giovare di tale bellezza in termini di sviluppo economico e sbocchi lavorativi. La sottrazione di tali risorse altro non è che una strategia mirata a tagliare il cordone ombelicale che li lega alla propria storia e terra. Tuttavia, ne scaturisce un effetto opposto. Il ricordo e la lotta per la libertà divengono sinonimo di resilienza e resistenza. Sui muri di tante città Palestinesi c’è un simbolo: la chiave. Quella delle loro case di cui, prima o poi, torneranno a prendersi cura.

Authors: Morgane Afnaim; Carolina Lambiase

La privatizzazione della sanità lombarda

“Tierra de sabbia fina
di tesori in cantina
di animali strani
Formigoni e pescecani”

Alessandro Sipolo


La sanità pubblica lombarda è al limite. Assediata da oltre un mese da un nemico invisibile che riempie gli ospedali costringendo medici ed infermieri a turni massacranti per salvare vite e scongiurare il peggio. Ogni giorno alle 17.30 migliaia di lombardi assistono al bollettino di guerra diffuso quotidianamente dall’assessore al welfare Giulio Gallera sperando che non annunci il collasso del sistema sanitario lombardo. Un sistema da sempre considerato eccellenza nazionale e modello per l’Europa. Un sistema che punta sulla sinergia tra pubblico e privato grazie ad un modello pensato dall’ex governatore Formigoni e implementato dai suoi successori. Una sinergia che, come emerge con disarmante evidenza in questi giorni drammatici, è sempre più sbilanciata verso il privato mentre il pubblico perde posti letto e finanziamenti.

Il modello – La storia recente della sanità lombarda, che assorbe circa il 75% del bilancio regionale, è indubbiamente legata a doppio filo con la figura di Roberto Formigoni. L’ex governatore, quattro volte presidente della Regione dal 1995 al 2013, è stato il regista della legge 31/1997 che riformò il settore sanitario lombardo basandolo di fatto sul principio di sussidiarietà solidale tra pubblico e privato. Se nelle intenzioni del governatore, sicuramente in buona fede, vi era l’idea di una cooperazione tra sanità pubblica e sanità privata per meglio rispondere alle esigenze dei cittadini, la riforma ha invece prodotto un effetto contrario. La sanità privata ha, di fatto, iniziato una sorta di corsa ai fondi pubblici riservando per sé i settori più remunerativi della sanità e dell’assistenza, quali ad esempio i reparti di alta specializzazione in cardiologia o le RSA lasciando al pubblico la gestione dei settori meno redditizi quali ad esempio i servizi di pronto soccorso e la psichiatria. Una corsa ai fondi che ha visto la sanità privata sempre in vantaggio sulla pubblica con la conseguente, ed inevitabile, perdita di risorse importanti per le strutture pubbliche costrette a far fronte a continui tagli.

Quella che doveva essere una compartecipazione solidale al servizio del cittadino è dunque diventata una corsa al finanziamento a cui, a dire la verità, la sanità pubblica non ha mai partecipato per davvero. Tagliata fuori, non solo dalle risorse maggiori di cui disponevano in partenza le strutture private, ma anche dal sistema corruttivo che ha per diverso tempo favorito proprio quelle strutture che ne avrebbero avuto meno bisogno. Non è certo un caso che, proprio per il cosiddetto “Caso Mauggeri” e per tangenti milionarie alla sanità privata, Formigoni sia stato condannato in via definitiva a 5 anni e 10 mesi di reclusione. Così il modello solidale è diventato lo strumento per arricchire le strutture private e costringere il cittadino a rivolgersi a loro, ovviamente a pagamento, per evitare i tempi di attesa sempre più lunghi che i continui tagli hanno imposto al pubblico.

Nato con Formigoni, il modello è stato foraggiato e implementato dal suo successore Roberto Maroni durante il suo mandato. La privatizzazione della sanità ha così raggiunto livelli talmente inaccettabili da costringere l’attuale governatore, ancora una volta di centrodestra, a intraprendere una graduale riforma che smantelli il modello dei predecessori. Troppo grande il malcontento dei cittadini. Troppo rischioso, ai fini elettorali, tirare ancora la corda per farlo continuare. Con la riforma annunciata un anno fa, Regione Lombardia vuole iniziare un percorso di valorizzazione del pubblico e di finanziamenti mirati al privato con la previsione di un tavolo di confronto tra attori pubblici, privati ed istituzionali per decidere insieme priorità e investimenti. Una riforma che mira a sospendere i finanziamenti al privato su base “storica” e punta invece a finanziare il settore in modo più preciso in base a determinate esigenze.

Squilibrio – Se la riforma di Fontana mira a ridare ossigeno alla sanità pubblica, è innegabile che nei 25 anni di governi di centrodestra si sia creato uno sbilanciamento tra settore privato e settore pubblico. Nel 1994 il sistema sanitario lombardo poteva contare su 27 ospedali, 5 strutture “classificate”, 5 Irccs (Istituti di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico), 3 università (Milano, Pavia, Brescia) mentre il privato aveva 52 strutture, 6 Irccs, zero università. Oggi il privato conta 102 strutture, 21 Irccs e 4 università (San Raffaele, Humanitas più due progetti), mentre il pubblico si è grandemente ridimensionato. Da una ricerca condotta dalla professoressa Maria Elisa Sartor, docente di Programmazione, organizzazione, controllo nelle aziende sanitarie all’Università degli Studi di Milano, emerge chiaramente come il settore privato abbia lentamente rosicchiato terreno al pubblico fino a compiere un sostanziale sorpasso. Se a livello regionale si evidenzia una perfetta coincidenza tra le strutture private a contratto con il SSL (99) e quelle pubbliche (99) questo dato non da indicazioni esaustive sul numero dei posti letto per ricoveri ordinari e Day Hospital. I numeri dei posti letto nel settore pubblico, infatti, continuano ad essere in numero maggiore rispetto a quelli delle strutture private anche grazie alle dimensioni estremamente maggiori degli ospedali pubblici. Ma se i numeri in termini assoluti non sembrano così drammatici, il trend sembra evidenziare una lenta ma inesorabile crescita del privato. “Dalla metà degli anni ’90 al 2018” evidenzia la dott.ssa Sartor “i posti letto pubblici sono stati più che dimezzati e nello stesso arco temporale, in parallelo, i posti letto privati sono considerevolmente aumentati”.

Se la tendenza indica un progressivo avvicinamento del privato al pubblico per quanto riguarda i posti letto, l’avvicinamento è stato molto più veloce per quanto riguarda la destinazione dei fondi. Dal versante economico, infatti, il sorpasso del privato sul pubblico è in procinto di avverarsi. Dallo studio, che esclude dalla valorizzazione le IRCSS e i poli universitari che sbilancerebbero ancor di più i valori, emerge infatti come le strutture private abbiano in generale incassato sempre di più per ricoveri e day hospital fino a raggiungere, ed in alcuni casi sorpassare, le strutture pubbliche. Mentre a Como si registra, unico caso, il sorpasso del privato con incassi superiori ai 145 milioni (105 quelli del pubblico), nel resto della regione ci siamo sempre più vicini: a Milano il privato incassa il 47% della torta, a Bergamo il 44%, a Brescia il 43%, a Pavia il 37%, a Mantova il 36%, a Monza-Brianza il 33%.

Lo studio della professoressa Sartor indica dunque un’ascesa silenziosa ma incessante della sanità privata che, grazie alla politica lombarda, è riuscita ad insinuarsi nel Sistema Sanitario Regionale erodendo le risorse a disposizione del pubblico. Un’ascesa avvolta nella nebbia di una dissimulazione generale che ha reso quasi impossibile accertarne la portata nel corso degli anni. Come evidenzia lo stesso studio infatti “nei flussi informativi, e soprattutto nelle elaborazioni primarie di tali flussi rese pubbliche, non sono state sempre evidenziate le variabili “natura privata” e “natura pubblica” delle strutture”. Le informazioni sulla divisione pubblico-privato sono addirittura sparite completamente dai resoconti a partire da metà anni 2000, nel pieno dell’implementazione del “modello Formigoni”, rendendo di fatto impossibile storicizzare il fenomeno. Si è insomma fatto di tutto per insabbiare una trasformazione lenta ma costante che ha portato ad un sistema sanitario che poggia le proprie fondamenta sulla presenza del privato senza cui il pubblico, svuotato di risorse e fondi, non potrebbe sostenere il peso della sanità lombarda. Insomma, alla fine dei conti, il motto della classe dirigente lombarda sembra essere sempre lo stesso:

“Siamo tutti Daccò-rdo
Che se paghi me lo scordo”

Youth of Sumud – Quando esistenza significa resistenza

La sfida dei giovani palestinesi che tornano ad abitare le grotte di At-Tuwani per resistere all’espansione coloniale dell’insediamento israeliano di Ma’on

Ci troviamo ad At-tuwani, villaggio palestinese incastonato fra le pendici delle colline a sud di Hebron, in Cisgiordania. È uno di quei villaggi della cosiddetta “Area C” che, secondo la divisione amministrativa stabilita dagli Accordi di Oslo del ’93, designa il controllo esclusivo israeliano della zona, sia militare che civile.

Gli abitanti di At-tuwani e dei villaggi limitrofi sono in gran parte pastori e agricoltori, circondati da un paesaggio collinare arido, con sfumature che variano dal grigio delle pietre, al marrone-giallo della terra, al verdone di qualche solitario cespuglio. In un paesaggio così desolato distinguono zone, precisamente delineate, particolarmente folte di una vegetazione rigogliosa. Sono le aree abitate dai coloni israeliani nell’insediamento di Ma’on e nell’avamposto di Havat Ma’on, situato a soli 500 metri da At-tuwani. La differenza fra un insediamento e un avamposto israeliano è principalmente che il primo è ritenuto illegale dal diritto internazionale delle Nazioni Unite, ma legale dal punto di vista del diritto israeliano, al contrario, il secondo – l’avamposto – è illegale per entrambe le fonti del diritto.

I TRASCORSI – Le storie di At-tuwani, e di un altro di questi villaggi, Sarura, altro non sono che ennesime storie di gente semplice e di resistenza nonviolenta che chiedono a gran voce di essere raccontate e denunciate. Sarura è stato uno dei tanti posti da cui, verso la fine degli anni ’90, i residenti sono stati evacuati a seguito della costruzione di due insediamenti israeliani che hanno reso la quotidianità dei pastori palestinesi insopportabile a tal punto da dover abbandonare le proprie case. L’arrivo dei coloni in queste aree ha infatti portato con sé la brutalità di un’occupazione con violenze su tutta la popolazione, bambini inclusi, arresti arbitrari, demolizioni di case e strutture pubbliche, attacchi ai greggi, e privazione di acqua ed elettricità.

Con la costruzione nel 2001 dell’avamposto di Ma’on Farm, lungo la strada dove è situata la scuola frequentata da bambini provenienti da diversi villaggi, sono cominciati una serie di attacchi agli studenti diretti all’istituto. Violenze ed aggressioni sempre più frequenti da parte dei coloni tanto da costringere, nel 2004, diverse organizzazioni internazionali, tra cui ‘Christian Peacemaker Teams’ e ‘Operazione Colomba’, a scortare i bambini palestinesi lungo questo tragitto. Un’esperienza che non ha però fermato le violenze continuate anche ai danni dei volontari con due membri delle associazioni rimasti vittime delle aggressioni dei coloni. Un’episodio che ha convinto il Comitato per i Diritti dell’Infanzia del Parlamento israeliano (Israeli Knesset Committee for Children’s Rights) a decretare che una scorta armata dell’esercito israeliano accompagnasse i bambini palestinesi lungo questo tratto di strada. La scorta militare non ha però fermato le aggressioni ai bambini anche a causa di inadempienze ripetute. Spesso infatti chi avrebbe dovuto accompagnarli non si presenta o arriva con forti ritardi, causando così la perdita di ore e giorni di scuola ai bambini dei villaggi delle colline del sud di Hebron.

YOUTH OF SUMUD – Nel 2017 è nato un collettivo di giovani palestinesi, Youth of Sumud, dalle figlie e i figli degli attivisti nonviolenti del Comitato di Resistenza Popolare che per anni è riuscito a respingere i tentativi di evacuazione di At-tuwani, e di altri villaggi situati sulle colline a sud di Hebron, organizzando attività di solidarietà e resistenza nonviolenta per contrastare le politiche espansionistiche di colonie e avamposti israeliani. Negli ultimi anni, infatti, i coloni di Ma’on e Havat Ma’on continuano a pianificare l’espansione dei propri insediamenti incrementando le demolizioni, gli arresti e le violenze a danno dei palestinesi e moltiplicando significativamente il loro numero di abitanti. Mentre le politiche coloniali spinte dal fine ultimo di allontanare tutti gli abitanti palestinesi da quest’area aumentano, i ragazzi di YOS cercano di riappropriarsi e riportare in vita il villaggio evacuato di Sarura, tornando ad occupare le grotte in cui i pastori vivevano prima di essere costretti ad abbandonare il villaggio. È quello che hanno ribattezzato come “Sumud Freedom camp”, una semplice grotta riaperta e animata e vissuta dai ragazzi di YOS che è diventata così il simbolo della lotta nonviolenta e incessante delle generazioni delle colline a sud di Hebron. Il simbolo di un passaggio da una generazione che quelle grotte le abitava ed una che non le vuole lasciare, che vuole riappropriarsene per ribadire la propria identità. Una lotta fragile ed estenuante ma potente, in grado di costituire un esempio di speranza e perseveranza per tutti gli altri palestinesi costretti ad abbandonare le loro terre.

PERCHE’ ESISTENZA È RESISTENZA – Sumud è una parola araba che rispecchia sia una strategia politica che una determinata ideologia nata per la prima volta dalle pratiche di resistenza emerse dopo la Guerra dei Sei Giorni. Sumud può essere tradotto letteralmente con fermezza, perseveranza, tenacia, determinazione ma anche resilienza. L’ideologia dietro questo termine è esattamente quella dei ragazzi di YOS, vale a dire semplicemente esistere sulle proprie terre ed affrontare la quotidianità nonostante le violenze e gli ostacoli, al fine di resistere l’occupazione israeliana. Sumud è quindi attaccamento alla propria terra, che si declina in attaccamento alla propria storia e alla propria cultura, e mira quindi a una più alta affermazione identitaria. Ed è così che per i ragazzi di YOS cucinare, mangiare, ballare e dormire al Sumud Freedom Camp costituisce sia un atto di resistenza alle mire espansionistiche israeliane, e in particolare all’avamposto che si erge esattamente di fronte alla collina su cui si situa la grotta riaperta, sia un atto di affermazione identitaria palestinese.


Author: Morgane Afnaim