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I tentacoli dei clan sul Foggia Calcio tra estorsioni e pressioni su società e allenatori

Dai recenti processi alla criminalità organizzata foggiana è emerso come i clan avessero allungato i propri tentacoli anche sul calcio tra estorsioni e ricatti alla proprietà e all’allenatore del Foggia Calcio.

Da sempre il mondo del calcio è stato terreno fertile per gli affari delle mafie. Le organizzazioni criminali, italiane e non solo, da decenni hanno allungato i propri tentacoli sullo sport più amato degli italiani alla ricerca di profitto, potere e consenso sociale. Per questo non sorprende che anche la “quarta mafia” foggiana, dimostrando di aver imparato dalle altre organizzazioni criminali italiane, abbia tentato di condizionare la gestione del Foggia Calcio.

I recenti processi “Decima Azione” e “Decimabis” hanno infatti portato alla luce gli interessi della criminalità organizzata foggiana per la società militante in Serie C. I giudici hanno sottolineato come “i membri della Società Foggiana hanno imposto alla società sportiva Foggia Calcio la stipulazione di contratti di ingaggio nei confronti di soggetti vicini all’associazione di cui all’art. 416 bis c.p., pur non disponendo di qualità sportive significative. Al riguardo, si osserva che i dirigenti (Di Bari Giuseppe, direttore sportivo) ed allenatori (De Zerbi Roberto) del Foggia Calcio lungi dal denunciare l’accaduto — come dovrebbe fare ogni vittima di estorsione, affidandosi alla forza dello Stato per sradicare fenomeni di mantenimento parassitario come quello attuato e realizzato dagli odierni imputati — hanno preferito in maniera pavida accettare supinamente le richieste formulate, abiurando anche a quei valori di lealtà e correttezza sportiva che dovrebbe ispirare la loro condotta”. 

Esponenti della criminalità foggiana, dunque, avrebbero fatto pressioni sulla società affinché ingaggiasse giovani affiliati ai clan senza alcun merito sportivo. Pressioni che, in qualche caso, avrebbero effettivamente portato rampolli delle famiglie criminali foggiane ad allenarsi con la squadra rossonera. Come sottolineato dai giudici nella sentenza, infatti, le sempre più insistenti richieste di Francesco “u’ sgarr” Pesante avrebbero fatto crollare l’allora presidente Sannella costringendolo ad assicurare un contratto a Luca Pompilio, cognato di Ciro Spinelli detenuto per omicidio, nonostante fosse completamente privo dei requisiti atletici e tecnici per giocare in una squadra professionistica. Per il giudice “è di meridiana evidenza, dunque, che in disparte ogni facile ironia sulla palese inadeguatezza calcistica del Pompilio, il contratto venne stipulato unicamente per le pressioni esercitate dal Pesante, che aveva anche manifestato la sua determinazione al Sannella, al Di Bari Giuseppe ed allo stesso allenatore De Zerbi Roberto, rappresentando loro di avere libero accesso agli spogliatoi, dove li avrebbe raggiunti con intenzioni non certo amichevoli”. Ma quello di Pompilio, smentito con forza dalla società e dall’allenatore, non sarebbe l’unico caso essendo emerso dalle indagini anche il tentativo di far ingaggiare anche il figlio del boss Rodolfo Bruno, ucciso il 15 novembre 2018 in una faida tra clan.

Arrivare ai vertici del Foggia Calcio, d’altronde, per la criminalità organizzata non è stato difficile. Dalle indagini è emerso come nella lista delle imprese costrette a pagare il pizzo alla mafia foggiana ci fosse anche la “Tamma – Industrie alimentari srl” di proprietà proprio di Franco e Fedele Sannella, i due imprenditori che di lì a poco avrebbero ceduto il Foggia Calcio perché sommersi dai debiti. I due fratelli sarebbero stati costretti dai clan ad un pagamento di tremila euro ogni mese da destinare alla “cassa comune”, una sorta di salvadanaio mafioso utilizzato per mantenere le famiglie dei clan e pagare le spese legali. La disponibilità a pagare senza denunciare da parte dei due imprenditori avrebbe convinto gli uomini dei clan a fare un salto di qualità puntano dritti sul mondo del calcio grazie alla disponibilità dei Sannella.

Nonostante le continue smentite dei fratelli Sannella e degli altri interessati, da De Zerbi a Pompilio, sembra dunque certo il tentativo della “quarta mafia” di seguire le orme delle altre organizzazioni criminali italiane sfruttando le opportunità offerte dal mondo del calcio. L’ingaggio di giovani rampolli dei clan nella squadra simbolo della città avrebbe infatti permesso un rafforzamento significativo di quel consenso sociale di cui le mafie si nutrono aprendo per la mafia foggiana nuovi ulteriori canali da sfruttare all’interno della società. 


Vuoi sapere di più sugli interessi della criminalità organizzata nel mondo del calcio?

Corri a rileggere il nostro speciale “Pallone Criminale”, quattro articoli che ti porteranno alla scoperta della presenza mafiosa nello sport più seguito dagli italiani. Un viaggio nel tempo e nello spazio che dalle serie minori arriva fino alla Serie A dei giorni nostri.
Tutti gli articoli li trovi qui: https://pocketpress.news/pallone-criminale/

Perché oggi la Norvegia potrebbe decidere di boicottare i mondiali in Qatar del 2022

Sarà come giocare in un cimitero
-Ole Kristian Sandvik-


“Diritti umani in campo e fuori”. È iniziata con questa frase, impressa sulle maglie utilizzate dalla nazionale norvegese nei prepartita di diverse gare disputate negli ultimi mesi, la campagna del mondo del calcio contro i Mondiali in Qatar in programma per il 2022. Dopo la decisione della nazionale scandinava di indossare un messaggio forte e diretto lo stesso hanno fatto Germania e Olanda e ora molte squadre sarebbero pronte a schierarsi in questa battaglia.

Qatar 2022 – Una protesta nata dai numeri angoscianti che si nascondono dietro l’entusiasmo con cui Doha continua a rilanciare l’evento calcistico più importante in programma per il prossimo inverno. Più di 6.500 lavoratori provenienti prevalentemente da India, Pakistan, Nepal, Bangladesh e Sri Lanka sono morti durante la costruzione di stadi ed altre opere collegate al mondiale di calcio negli ultimi dieci anni. Un numero impressionante che, tradotto, significa dodici morti al giorno da quando a dicembre 2010 la Fifa annunciò l’assegnazione dei mondiali 2022 al Qatar. Per dare un’idea dell’eccezionalità di ciò che sta accadendo in Qatar, il un report dell’ITUC ha comparato le morti legate ai mondiali Qatar 2022 con quelle di altri mega-eventi sportivi a partire dalle Olimpiadi di Sydney nel 2000: il numero massimo di morti si era raggiunto con le Olimpiadi invernali di Sochi 2014, quando morirono 60 persone. Negli altri eventi, le morti sono state tra le 0 (Olimpiadi di Londra 2012) e le 40 (Olimpiadi di Atene 2004). In Qatar, a oltre un anno dalla fine dei lavori, i morti sono già oltre 6.500.

Il paese, che vuole farsi trovare pronto agli occhi del mondo, ha dato il via a una imponente progetto infrastrutturale che prevede la realizzazione di sette nuovi stadi, un aeroporto, nuove infrastrutture e una nuova città per ospitare la finale. Per la partita più importante, infatti, il Qatar ha deciso di non limitarsi a costruire uno stadio ma sta realizzando una città partendo da zero. Losail, questo sarà il nome, è “un progetto futuristico, che creerà una società moderna e ambiziosa.” Una società moderna che nascerà dalla violazione dei diritti dei lavoratori migranti, sfruttati ed esposti al pericolo per non intralciare la realizzazione del più ambizioso progetto della monarchia. Il tutto mentre il comitato organizzatore e le autorità qatariote negano ogni legame tra i mondiali e le morti affermando che i decessi collegati alla realizzazione degli stadi siano solo 37 mentre gli altri sono da ricondurre a cause naturali. Cause naturali che, però, sarebbero facilmente collegabili al lavoro svolto se il governo del Qatar non avesse negato l’autopsia.

All’origine di questo trattamento disumano risiede il sistema della kafala, denunciato da molte organizzazioni a sostegno dei diritti umani come una forma di moderna schiavitù. Questa regolamentazione prevede che il datore di lavoro abbia forti tutele legali per poter controllare i lavoratori migranti che fa entrare nel proprio paese. Tra queste ci sono forti restrizioni sulla possibilità di cambiare impiego, senza aver ottenuto il permesso del datore di lavoro, sulla facoltà di dimettersi e perfino sulla possibilità di lasciare il paese senza permesso. A seguito delle ripetute denunce a livello internazionale e delle indagini dell’Organizzazione mondiale del lavoro o di Ong come Amnesty international, il Qatar ha finalmente abolito la kafala a settembre del 2020. Un’abolizione solo formale che, nella pratica, non ha cambiato in modo incisivo il meccanismo di assunzione di lavoratori stranieri né aumentato le tutele per i dipendenti.

Ora – Le possibilità che la Fifa, sempre più sotto pressione, decida di revocare l’assegnazione dei mondiali al Qatar è però quantomai remota. Il massimo organo del calcio mondiale fino ad ora si è limitato ad adottare nel 2017 una “Politica sui diritti umani” e nel 2019 la “Strategia congiunta di sostenibilità sui mondiali di calcio del 2022 in Qatar”. Due documenti volti a lasciare “un’eredità di standard e prassi di primo livello per i lavoratori sia in Qatar che a livello internazionale” ma che non stanno impendendo né rallentando lo sfruttamento dei lavoratori migranti.

L’immobilismo della Fifa, però, non è stato accolto con favore da tutte le federazioni e molte nazioni sembrano pronte ad intraprendere azioni formali per chiedere un cambio di rotta. C’è chi, come la Svezia sceglie una linea soft, con una lettera indirizzato al massimo organismo del calcio mondiale in cui afferma che “tutti abbiamo il dovere di fare il possibile per assicurare che i diritti umani siano rispettati nella fase di preparazione e attuazione del torneo” chiedendo ai responsabili di verificare il rispetto delle condizioni dei lavoratori nelle fasi che precedono il torneo. Ma c’è anche chi potrebbe optare per una linea più dura: la Federcalcio Norvegese oggi potrebbe votare per autoescludere la nazionale dal mondiale del 2022. “Andare in Qatar sarebbe come giocare in un cimitero” ha detto Ole Kristian Sandvik, portavoce dell’associazione dei tifosi norvegesi. Una decisione che, se presa, sarebbe storica e renderebbe la Norvegia la prima nazionale al mondo a rinunciare volontariamente ad un mondiale. Una decisione che, però, porterebbe anche effetti collaterali non indifferenti: in caso si boicottaggio, infatti, la Norvegia andrebbe incontro ad una multa di 20.000 franchi svizzeri e l’esclusione dai successivi mondiali del 2026. Una scelta coraggiosa, un segnale forte alle altre federazioni ed un messaggio molto chiaro: i diritti umani valgono più di qualsiasi mondiale.

Il caso Zaki e il cortocircuito istituzionale tra Parlamento e Governo

Oggi Patrick Zaki compie 30 anni. Per il secondo anno di fila, però, festeggerà questa ricorrenza dal carcere di massima sicurezza in cui è detenuto. Il tutto mentre in Italia va in scena un cortocircuito istituzionale con il Governo che non dà seguito alle richieste del Parlamento. 

Non ci saranno torta e candeline. Non ci sarà una festa. Non ci saranno amici e parenti. Per Patrick Zaki non ci sarà nemmeno la libertà come regalo. Oggi lo studente dell’Alma Mater di Bologna compie trent’anni ma da 493 giorni è detenuto senza alcuna accusa formale nel carcere di massima sicurezza di Tora. Inghiottito nel più infernale carcere del suo paese senza un processo, né celebrato né in programma, dal 7 febbraio 2020. Per il secondo anno di fila Patrick trascorrerà il giorno del suo compleanno in quella cella dove, come hanno testimoniato i suoi legali, sta lentamente crollando fisicamente e mentalmente. Sedici mesi in cui la società civile italiana e non solo si è mobilitata per chiedere che questo ennesimo sopruso del regime egiziano finisca al più presto. Dalle associazioni all’impegno instancabile dell’Università di Bologna, dai cittadini ai sindaci che gli hanno concesso la cittadinanza in decine di città. Tutta Italia sembra avere a cuore le sorti di Patrick. Tutta Italia tranne, a quanto pare, il Governo.

Era il 14 aprile quando, con 208 voti favorevoli e 33 astenuti, il Senato approvava un ordine del giorno unitario per chiedere al governo di riconoscere il prima possibile la cittadinanza italiana a Patrick Zaki. Indimenticabili le parole di Liliana Segre, corsa a Roma da Milano appositamente per votare quella mozione, che davanti ai colleghi senatori disse: “C’è qualcosa nella storia di Patrick Zaki che prende in modo particolare ed è ricordare quando un innocente è in prigione. Questo l’ho provato anch’io e sarò sempre presente, almeno spiritualmente quando si parla di libertà. Ricordo cosa sono i giorni passati dentro la cella, quando non si sa se preferire la porta chiusa o che si apra, nel timore che qualcuno entri e faccia aumentare la tua sofferenza. Potrei essere la nonna di Zaki e sono venuta qui perché gli arrivi anche il mio sostegno”. Parole che hanno toccato tutti e sono arrivate fino a Patrick che ha voluto scrivere una lettera di ringraziamento alla Senatrice a vita. Senza mandargliela però. Gliela consegnerà a mano una volta libero, ha detto.

Ma quelle parole così forti e profonde, qualcuno sembra averle dimenticate in fretta. Dopo oltre due mesi da quel voto, infatti, nulla si è minimamente mosso. Pochi giorni dopo l’approvazione dell’ordine del giorno il governo ha fatto sapere di essere pronto ad avviare le verifiche necessaria per la concessione della cittadinanza. Era il 19 aprile e dopo quel primo segnale di disponibilità tutto sembra essersi fermato tanto che qualche giorno dopo lo stesso Draghi dichiarò: “Quella su Zaki è un’iniziativa parlamentare. Il governo al momento non è coinvolto.” Il disinteresse del governo per la questione della cittadinanza allo studente egiziano può certamente essere giustificato da tante questioni, nessuna buona per carità, come il non voler rovinare le buone relazioni tra il nostro paese e l’Egitto con cui nonostante le polemiche continua una fitta collaborazione anche in ambito militare. Si presenta però un problema politico interno non indifferente. Che rapporto c’è tra il Parlamento ed il Governo? Può quest’ultimo ignorare una richiesta unanime del Senato? I Senatori che hanno votato lo hanno fatto per prendere una posizione netta e decisa e passare la palla all’esecutivo perché ne desse attuazione. Sono passati due mesi e dal Governo non è stata intrapresa, almeno pubblicamente, nessuna azione in quella direzione. Una vicenda che rischia di sbilanciare i poteri con un parlamento incapace di impegnare il Governo ed un esecutivo tranquillo nel fare quel che più crede senza sentirsi legato alle due camere. Una vicenda che, dunque, dovrebbe portare a riflettere sui ruoli e sulle competenze di chi governa questo paese. Se non fosse che nel mezzo c’è una vita che merita tutta l’attenzione del caso. La vita di Patrick, che da 493 giorni è detenuto. Che oggi compie trent’anni. Che guarda al nostro paese e aspetta. Che non merita tutto questo.

La glorificazione di Ratko Mladic: da “boia di Srebrenica” a Eroe serbo

Questo sta accadendo nel cuore dell’Europa e non facciamo il necessario per fermarlo.
Si trova nella sfera di influenza europea. Se ne dovrebbe prendere coscienza in ambito europeo.
Siamo più che complici del massacro.

-Margaret Thatcher-


26 anni dopo il primo mandato di cattura è arrivata la condanna definitiva per Ratko Mladic. Il “boia di Srebrenica”, 78 anni compiuti, ha ascoltato per oltre un’ora il giudice del tribunale dell’Aia leggere il dispositivo che lo condanna a passare il resto della vita in carcere. Vestito con un abito nero e una cravatta azzurra, l’uomo che ha teorizzato e messo in atto uno dei più violenti genocidi della storia recente ha ascoltato in silenzio senza mai intervenire, come era invece accaduto nel 2017 quando in occasione della condanna di primo grado aveva più volte gridato “sono tutte bugie”.

Il massacro – Non sono tutte bugie, invece, e a confermarlo è il Tribunale Internazionale per i Crimini nella ex Jugoslavia. Ventisei anni fa, a partire dall’11 luglio 1995, a Srebrenica andò in scena il peggior massacro in Europa dalla fine della Seconda Guerra Mondiale definito dalla corte dell’Aia come un vero e proprio genocidio. 

Designata nel 1993 dalle Nazioni unite come “area sicura” per i civili in fuga dai combattimenti tra il governo bosniaco e le forze serbe separatiste Srebrenica ospitava nel luglio 1995 ventimila profughi e trentacinque mila residenti difesi da circa cinquecento soldati delle forze internazionali posti a tutela della sua neutralità. Una tutela che, però, servì a ben poco. Scarsamente equipaggiati e impreparati ad un possibile combattimentoi soldati delle Nazioni Unite, facenti parte del battaglione olandese “DutchBat III”, furono sovrastati senza problemi dall’esercito serbo che l’11 luglio entrò nella città. Una volta preso il controllo di Srebrenica venne messo in atto un piano accuratamente studiato: il personale delle Nazioni Unite presente fu preso in ostaggio e posizionato in punti strategici della città per evitare attacchi volti a liberare Srebrenica mentre gli uomini al di sopra dei sedici anni venivano isolati e separati da donne e bambini. I primi vennero fucilati e gettati in fosse comuni, le seconde violentate e picchiate prima di essere trasportate in altre città. Il bilancio del controllo serbo a Srebrenica parla di oltre 8.000 musulmani giustiziati senza motivo dall’esercito comandato da Mladic.

Sostegno – Un massacro orrendo e ingiustificato che in Serbia viene visto diversamente. La condanna di Mladic è stata infatti accolta con sdegno da quella parte di popolazione secondo cui non è né il “macellaio della Bosnia” né “il boia di Srebrenica” ma un eroe nazionale. Il giorno del verdetto, un’organizzazione serbo-bosniaca ha proiettato nella piazza centrale di Bratunac, una cittadina a 10km da Srebrenica, un documentario apologetico sulla sua vita. A Banja Luka, capitale de facto della Republika Srpska di Bosnia, è comparso uno striscione con la scritta: “Non riconosciamo le decisioni dell’Aja. Sei l’orgoglio della Repubblica serba”. Il tutto mentre diversi tabloid titolavano “Mladic sarà per sempre un Eroe serbo”.

Esempi di come parte della Serbia ancora oggi non riconosca l’esistenza del genocidio e veneri le figure che invece lo causarono. Si tratta di quello che Hariz Halilovic definì “trionfalismo”: rimozione della realtà storica e glorificazione dei suoi protagonisti. Un meccanismo radicato nel paese e fomentato dalle istituzioni e da quei media che provano a raccontare la loro versione della storia. Basti pensare che Milorad Dodik, principale politico Serbo, ha più volte ripetuto pubblicamente che Mladic non è un criminale e che “è inaccettabile che venga definito così”. Così la macchina della contronarrazione serba ha dato vita ad una versione per cui ibosgnacchi sono descritti come dei serbi autoctoni che avevano “abbandonato” e “tradito” la loro etnia convertendosi all’Islam con l’obiettivo di colonizzare il paese e per questo andavano fermati. La rimozione del genocidio e della pulizia etnica si inserisce dunque in un quadro storico totalmente alterato, in cui i serbo-bosniaci si sono legittimamente difesi contro gli “invasori” musulmani. Una versione sempre sostenuta da buona parte della popolazione serba che ha preso ancora più piede nel clima islamofobo scaturito dagli attacchi dell’11 settembre a New York. Sfruttando il clima islamofobo post-attentato alle Torri Gemelle, insomma, la macchina propagandistica serbo-bosniaca ha avuto gioco facile nel dipingere il conflitto civile come una “guerra al terrore” ante litteram, arrivando a dire che le vittime di Srebrenica non erano bosgnacchi inermi ma “terroristi” in potenza. Con una simile operazione di revisionismo, dunque, le guerre jugoslave sono diventate il primo capitolo del nuovo “scontro di civiltà” tra il cristianesimo e l’islam; e quello della “Grande Serbia” non era un piano d’espansione nazionalista, ma la prima linea di difesa costruita per proteggere l’Europa dall’“invasione islamica”.

Una narrazione portata avanti con convinzione da più parte che ha finito per plasmare l’opinione pubblica allargando la platea di nostalgici ed estimatori di Mladic: non più il “boia di Srebrenica” ma un Eroe serbo. Quello che accadde ventisei anni fa, invece, rimane una macchia indelebile nella storia dell’uomo. A Srebrenica andò in scena quella disumanizzazione generalizzata che porta ad una violenza cieca ed immotivata. Ricordare i genocidi come quello di Srebrenica non impedirà che queste tragedie si verifichino ancora in futuro. Dopo il 1995 altri gruppi emarginati sono stati violentemente attaccati in paesi come Sudan, Siria e Birmania. Oggi gli uiguri, minoranza musulmana in Cina, vengono chiusi nei campi di concentramento e sterilizzati. Ma non possiamo smettere di ricordare Srebrenica e le atrocità passate. Il ricordo rimane l’unico strumento a difesa dell’integrità del passato dalle persone che vorrebbero correggere la storia per fare i propri interessi

La nascita della Repubblica tra tensioni, morti, accuse di brogli e un’Italia divisa

Tutto quello che c’è da sapere sul referendum che portò alla nascita della repubblica. Dagli aventi diritto al voto alle accuse di brogli, passando per la tensione crescente che portò alla forzatura di De Gasperi.

Era il 2 giugno 1946. La Seconda guerra mondiale era appena finita e con lei anche il ventennio di dittatura fascista. In un’Italia martoriata che si apprestava a ripartire il primo forte segnale arrivò dalle urne con la prima elezione a suffragio universale della storia del nostro paese. Il 2 e 3 giugno 1946 gli italiani furono chiamati al voto per l’elezione di un’Assemblea Costituente, alla quale sarebbe stato affidato il compito di redigere la nuova carta costituzionale, e la scelta della forma di governo da dare allo stato: Monarchia o Repubblica. Fu proprio quello il quesito più importante di quel giorno, in grado di mostrare le spaccature di un paese ancora diviso. Un quesito che si risolse con la vittoria risicata della Repubblica: 12.717.923 voti contro i 10.719.284della Monarchia.

Votanti – La prima curiosità su quella tornata elettorale, però, riguarda proprio i votanti. Se è vero che furono le prime elezioni a suffragio universale e videro la partecipazione dell’89% degli aventi diritto (circa 25 milioni di votanti su un totale di 28 milioni) furono in molti quelli che non poterono votare quel giorno. Non poterono votare, ad esempio, i prigionieri di guerra e gli internati in Germania. Non poterono votare i cittadini della provincia di Bolzano, passata alla Germania durante la guerra e in quel momento ancora sotto il controllo militare alleato. Non si votò a Pola, Fiume e Zara, tre città italiane passate sotto il controllo della Jugoslavia. Non si votò neppure a Trieste, sottoposta ad amministrazione internazionale e al centro di un complicato contenzioso diplomatico che si sarebbe risolto soltanto nel 1954. Furono tanti, insomma, i territori esclusi in quella che fu un’elezione anomala quanto storica. 

Risultati – Altra curiosità è quella che riguarda i risultati e la distribuzione del voto. L’esito delle consultazioni, infatti, non fu annunciato subito ma bisognò aspettare una settimana prima che, il 10 giugno, la Corte Costituzionale annunciasse la vittoria della Repubblica sulla monarchia con il 54% dei voti. Una vittoria resa possibile dalle circoscrizioni del nord Italia dove la forma repubblicana ottenne consensi altissimi e poté contrastare la vittoria della Monarchia al sud. Lo spoglio dei risultati, infatti, rese l’immagine di un paese profondamente diviso: in tutte le province a nord di Roma, tranne Padova e Cuneo, vinse la Repubblica. In tutte le province dal Lazio in giù vinse la Monarchia. In Piemonte, culla dei Savoia, la repubblica ottenne 1.250.070 voti, in Toscana 1.280.815. In Sicilia, al contrario, furono 1.301.200 i voti per la monarchia e «solo» 708.109 quelli per la Repubblica. Roma rimase nel mezzo, non solo a livello geografico facendo da spartiacque tra un nord repubblicano e un sud monarchico, ma anche a livello politico registrando una sostanziale parità tra i due schieramenti: 711mila voti per la Repubblica (49%), 740mila per la Monarchia (51%).

Brogli – I ritardi nello spoglio, che vide continui ribaltamenti soprattutto nei primi giorni, e il distacco minimo tra le due parti fece nascere le più varie teorie del complotto tanto che, ancora oggi, sono in molti a credere che in quell’occasione si verificarono brogli elettorali. I monarchici presentarono migliaia di ricorsi alla Corte di Cassazione, denunciando ogni tipo di anomalie rivelatrici, a loro dire, di un voto pilotato per far vincere la Repubblica.  Per mettere i bastoni tra le ruote alla Repubblica chiesero anche di includere tra i votanti le schede bianche o nulle, sperando almeno di togliere la maggioranza assoluta raggiunta dai Repubblicani e aprire uno spiraglio per dichiarare il referendum non valido. Tentativi che si sono protratti nel tempo tanto da portare numerosi storici e studiosi ad occuparsene analizzando i risultati anche con tecniche moderne e all’epoca sconosciute. Il risultato delle analisi è sempre stato unanime: non ci fu alcun broglio. 

L’incertezza e la macchinosità dello spoglio, certo, alimentarono i sospetti e favorirono la creazione di una leggenda che dura tutt’ora. Una leggenda su cui provò a scherzare, nel 1990, Gianni Minoli organizzando uno scherzo nel suo programma di approfondimento “Mixer” su Rai Due. Nella puntata del 5 febbraio 1990 il pubblico si ritrovò di fronte ad Alberto Sansovino, presidente di Corte d’appello in pensione, che tra le lacrime confessava l’impensabile. La notte tra il 3 e il 4 giugno 1946 faceva il presidente a Modena durante lo spoglio. Un misterioso professor Salemi chiese a lui e ad altri sei magistrati di fede repubblicana un atto patriottico. Al Sud in troppi votavano monarchia, e bisognava prendere provvedimenti. I magistrati decisero di sostituire le schede monarchiche, che sarebbero state distrutte al ministero dell’Interno, con nuove schede a favore della repubblica fornite da Salemi. Si decise che l’ultimo dei sette giudici a rimanere in vita dovesse confessare pubblicamente, e il fardello era toccato a lui. Solo alla fine dello show, che tenne incollati milioni di italiani al televisore, Minoli annunciò che si trattava di una bufala. Sansovino non era mai esistito, si trattava di un attore ingaggiato appositamente. E così quello scoop che in migliaia stavano aspettando da decenni non ci fu. Ci fu invece il tentativo, più che mai riuscito, di Minoli di mostrare a tutti quale potere potesse avere la televisione nella società moderna. Uno strumento in grado di far credere persino a teorie complottiste più volte smentite. 

Scontri – Ma la questione dei brogli, soprattutto nei giorni immediatamente successivi fu centrale ed alimentò tensioni. Se oggi il 2 giugno è un giorno di festa non bisogna infatti pensare che fu così anche 75 anni fa quando, anzi, la tensione era altissima. I leader dei principali partiti, Democrazia Cristiana, Partito Socialista, Comunista e Repubblicano, erano quasi tutti a favore della Repubblica, ma temevano che al sud i monarchici avrebbero potuto organizzare insurrezioni o rivolte e che in caso di disordini i carabinieri si sarebbero schierati con il re. Anche i repubblicani erano divisi tra di loro: i centristi temevano che i comunisti stessero organizzando un colpo di stato o una rivolta, non troppo diversa da quella scoppiata in Grecia in quei mesi. Nell’attesa dei risultati la tensione crebbe a dismisura alimentata anche dallo scontro tra il governo provvisorio e la monarchia culminato con la celebre frase che De Gasperi rivolse al Ministro della Real Casa, Falcone Lucifero: “Entro stasera, o lei verrà a trovare me a Regina Coeli, o io verrò a trovare lei”.

Intanto il sud Italia, a prevalenza monarchica aveva iniziato a ad essere irrequieto e iniziarono le prime azioni di protesta. A Napoli gruppi monarchici assaltarono la sede del partito Comunista, al cui interno si trovava tra gli altri anche Giorgio Napolitano, e l’intervento della polizia causò la morte di 9 manifestanti. Il 13 giugno, in un clima ormai troppo teso per attendere oltre, De Gasperi decise di forzare la mano. Senza aspettare i risultati ufficiali, confermati dalla cassazione solo il 18 giugno, annunciò la nascita della Repubblica e il passaggio dei poteri dal Re al governo. Nacque così, in un clima quasi da guerra civile, la Repubblica Italiana.