Monthly Archives: gennaio 2021

Guerriglia a Tripoli: Le tre crisi che stanno mettendo in ginocchio il Libano

“Tutti noi per la patria, la gloria e la bandiera”


Guerriglia, fuoco e feriti. Dopo le proteste che hanno segnato la fine del 2019 e i primi mesi del 2020 e che si sono riacutizzate dopo le tragiche esplosioni al porto di Beirut, il 4 agosto scorso, il Libano torna ad essere teatro di violente manifestazioni. Da giorni, infatti, a Tripoli migliaia di persone scendono in piazza sfidando le forze dell’ordine e le misure anti-contagio per esprimere la propria rabbia per le crisi che attanagliano il paese.

Le proteste – È stata una settimana di vera e propria guerriglia quella che si è appena conclusa a Tripoli, seconda città del Libano per popolazione e tra le più povere del paese. Per giorni, ogni sera, migliaia di persone sono scese in piazza sfidando i blindati e le camionette delle Internal Security Forces (Isf) schierati a piazza Al Nour in attesa di una nuova esplosione della rabbia popolare. A caratterizzare questa settimana di proteste, infatti, è stata proprio la violenza che ha portato a violenti scontri tra esercito e manifestanti con ripercussioni altissime. Il bilancio provvisorio degli scontri, quasi ininterrotti dal 25 gennaio, è di due manifestanti uccisi e più di 300 feriti, tra cui una trentina di militari e agenti di polizia ma l’episodio più eclatante è stato l’assalto al municipio di Tripoli. L’antico edificio che ospita il governo della città è stato dato alle fiamme dai manifestanti nell’ultima notte di scontri.

Le Isf hanno tentato di reprimere le proteste utilizzando idranti, gas lacrimogeni e proiettili di gomma a cui i manifestanti hanno risposto con pietre, copertoni in fiamme e molotov. Molti cittadini, però, hanno denunciato l’utilizzo da parte delle forze dell’ordine di armi da fuoco caricate con proiettili veri ed il quotidiano “Orient Today” riporta di diversi manifestanti portati in ospedale con ferite d’arma da fuoco alle gambe. Quello che prima era solamente un sospetto è divenuto certezza dopo la morte di un manifestante, colpito al torace da un proiettile sparato dai militari.

Crisi – Ma gli abitanti di Tripoli non hanno nulla da perdere. In un paese che sta affrontando la peggior crisi economica della sua storia ed ha dichiarato un default tecnico a causa del mancato pagamento di 1,2 miliardi di eurobond, nella città settentrionale la situazione sembra essere peggiore che nel resto del Libano con un tasso di disoccupazione che sfiora il 60%. Secondo il Fondo monetario internazionale, lo scorso anno il prodotto interno lordo del Libano è diminuito del 25%, mentre i prezzi sono aumentati del 144% causando un aumento esponenziale della povertà anche estrema. Ad aggravare la situazione, le banche hanno impedito ai depositanti di accedere ai propri risparmi in valuta estera, consentendo loro di convertirli nella valuta locale solo alla metà del tasso di mercato, causando una perdita sostanziale. Si stima che circa metà della popolazione totale del Libani, di quasi 7 milioni di abitanti, viva in una condizione di povertà.

Come se non bastasse la crisi economica è arrivata la pandemia ad aggravare ulteriormente una situazione già drammatica. A scatenare la rabbia della popolazione ed innescare le proteste di questa settimana è stata infatti la decisione del governo di imporre un nuovo lockdown totale fino all’8 febbraio. Una decisione che, seppur necessaria visto l’incremento dei contagi e delle morti nelle ultime settimane, rischia di mettere definitivamente in ginocchio l’economia del paese costringendo imprenditori e commercianti a chiudere, forse per sempre. Il lockdown si è però reso necessario a causa dell’aumento esponenziale dei casi confermati che dall’inizio dell’anno ad oggi sono stati quasi quanti quelli registrati nei primi dieci mesi di emergenza sanitaria con una media di quattromila contagi al giorno su un territorio grande all’incirca quanto l’Abruzzo. Una crescita che ha messo in ginocchio il sistema sanitario, con i pochi ospedali pubblici al collasso costretti a rifiutare pazienti mentre quelli privati sono un privilegio per pochi con prezzi che arrivano fino a 2,5 milioni per posto letto.

Una situazione difficilmente risolvibile, a maggior ragione perché intrecciata con un’altra profonda crisi che attanaglia il paese: quella politica. Dal novembre 2019 a oggi si sono succeduti quattro premier (Hariri, Diab, Adib e ancora Hariri) e da ottobre scorso il Libano è in attesa che si formi un nuovo governo, appoggiato dalla Francia, che faccia uscire il paese dalla crisi. Dopo l’esplosione al porto dello scorso agosto, infatti, si è giunti alle dimissioni del governo con l’apertura di una nuova crisi politica ancora irrisolta. Lo stallo politico, però, sta avendo effetti drammatici sulla situazione del paese non potendo garantire una risposta immediata alle crisi economiche e sociali che attraversano il paese. Fino a quando durerà lo stallo politico, il Libano non potrà sperare di contrastare efficacemente pandemia e crisi economica e non potrà richiedere aiuti internazionali per interventi decisi sull’economia del paese.

La formazione di un governo stabile ed in grado di guidare il paese appare dunque come la precondizione necessaria affinchè il libano possa sperare di rialzarsi. Senza una guida politica il paese non sembra in grado di uscire da un vortice che sta pericolosamente trascinando nel baratro l’intera popolazione facendola sprofondare sempre di più.

L’Italia come la Russia: si va verso l’esclusione dalle Olimpiadi

Una legge voluta dal governo gialloverde nel 2019 mina l’indipendenza del Comitato Olimpico Nazionale (CONI) violando di fatto i principi fondamentali della Carta Olimpica. Dopo due anni di avvertimenti domani potrebbe arrivare il verdetto finale che escluderebbe l’Italia dalle prossime Olimpiadi.

Il verdetto è atteso per domani ma la voce che ha iniziato a circolare da ieri ha già fatto gelare il sangue agli sportivi italiani. Il Comitato Olimpico Internazionale, infatti, sarebbe pronto a sospendere con effetto immediato il CONI dalle federazioni riconosciute. Una decisione che avrebbe come effetto più evidente l’assenza di una nazionale italiana alle Olimpiadi di Tokyo dove, qualora fossero confermate le indiscrezioni, gli atleti azzurri gareggeranno da indipendenti e non potranno utilizzare la bandiera, le divise e l’inno che rappresentano il nostro paese. Ma non solo. La sospensione del CONI, infatti, provocherebbe anche uno stop dei finanziamenti al nostro paese da parte del CIO con evidenti e pesantissime ricadute anche sull’organizzazione delle Olimpiadi invernali del 2026 già assegnate a Milano e Cortina.

A generare una situazione surreale è stata la riforma dello sport voluta ed approvata dal governo gialloverde durante il “Conte I”. Il passaggio controverso, su cui si basa la decisione del CIO, è sostanzialmente contenuto nella prima frase del testo di legge che, all’art. 1, recita: “Il Governo è delegato ad adottare, entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, uno o più decreti legislativi per il riordino del Comitato olimpico nazionale italiano (CONI)”. Tale disposizione, però, incide in maniera decisiva sull’autonomia del CONI e viola, di conseguenza, la Carta Olimpica che tra i propri principi fondamentali prevede la totale autonomia dei comitati olimpici nazionali e la loro completa neutralità politica. Non si tratta dunque di un fulmine a ciel sereno ma di una situazione nota dal 6 agosto 2019, data di approvazione della riforma dello sport, e più volte sottolineata dal presidente del CIO Bach che ha ripetutamente sollecitato il premier Conte chiedendo un adeguamento normativo.

Ogni ora che passa si assottigliano sempre più quindi le speranze di vedere la nazionale italiana alle prossime olimpiadi con i nostri atleti che parteciperanno da indipendenti al pari dei russi, il cui comitato olimpico è stato sospeso per le vicende relative al doping di stato. Per salvare la situazione sarebbe infatti necessario, entro stasera, che il Consiglio dei ministri si riunisse per approvare un decreto salva – CONI che possa aggiustare all’ultimo minuto la posizione del comitato olimpico italiano facendolo rientrare nei canoni del CIO. Una possibilità che sembra essere sempre più remota soprattutto dopo le ultime evoluzioni della crisi di Governo che tengono impegnato il premier e i ministri su altri fronti considerati prioritari. E mentre tra CONI e Governo è un continuo rimbalzo di responsabilità, con Malagò che punta il dito contro il governo e gli autori della legge che la difendono a spada tratta, l’Italia vede sempre più vicina la possibilità di una Olimpiade senza tricolore e inno di Mameli. Uno schiaffo all’orgoglio nazionale che attorno a quei simboli si arrocca ogni qualvolta vi siano eventi sportivi di questa portata, siano essi mondiali o Olimpiadi.


+++ Aggiornamento +++
Poco prima di salire al Colle per rassegnare le sue dimissioni, il premier Giuseppe Conte ha firmato un decreto che restituisce autonomia al CONI. Il provvedimento dovrebbe scongiurare la possibilità di un’esclusione dell’Italia dalle prossime Olimpiadi ma rimane la possibilità di sanzioni al nostro paese. Domani verrà annunciata la decisione del CIO.

“Gridava e chiedeva aiuto”. L’ombra di un pestaggio degli agenti dietro la morte in cella di Scalabrin

Si infittisce il mistero dietro la morte Emanuel Scalabrin. Secondo un testimone, interrogato dagli inquirenti, il 33enne fermato per droga e deceduto dopo una notte in cella avrebbe gridato in cerca di aiuto lasciando intendere la possibilità di un pestaggio ad opera degli agenti.

Nessun malore, ne una tragica fatalità. Secondo alcune nuove testimonianze la morte di Emanuel Scalabrin, deceduto in cella ad Albenga dopo un fermo per droga, sarebbe stata causata da un pestaggio ad opera di alcuni agenti. Se fino ad oggi le ricostruzioni non avevano chiarito a pieno le dinamiche che avevano portato alla morte del 33enne lasciando aperte diverse possibilità, le dichiarazioni rilasciate da un testimone interrogato dagli inquirenti che stanno indagando sulla vicenda potrebbero aprire una nuova fase dell’inchiesta. Secondo la testimonianza di Pietro Pelusi, infatti, Scalabrin sarebbe stato vittima di un violento pestaggio.

Fermato anche lui per questioni di droga e portato nel penitenziario di Albenga, Pelusi ha raccontato di aver sentito più volte Emanuel urlare chiedendo aiuto. “A metà pomeriggio” ha raccontato Pelusi “sono stato prelevato dalla mia cella e portato in una sala d’attesa. Mi ero convinto che mi volessero rilasciare. A un certo punto ho sentito delle urla provenire dalla cella di Scalabrin. Diceva: “Aiuto! Aiuto! Basta!”. Non ho visto cosa gli succedeva ma lui chiedeva aiuto”. La testimonianza, tanto delicata quanto scottante, è ora al vaglio delle forze dell’ordine che ne stanno valutando l’affidabilità. Pelusi è infatti un testimone facilmente smontabile in un eventuale contenzioso: tossicodipendente, pluripregiudicato, per di più era stato arrestato con Scalabrin nell’ambito della stessa indagine. Insomma, sarebbe fin troppo facile reputarlo inaffidabile. Ma proprio il suo essere pluripregiudicato lo rende un soggetto attento alle dinamiche e ai rapporti con le forze dell’ordine e dunque ben consapevole di come una falsa accusa di omicidio a un militare potrebbe avere ripercussioni pesantissime su di lui. Ripercussioni che lo avrebbero certamente dissuaso dal testimoniare il falso.

La testimonianza di Pelusi si aggiunge così ad un quadro estremamente confuso e pieno di elementi che non tornano. Verso le 21 Scalabrin si sente male, la dottoressa che lo visita riscontra tachicardia e pressione alta e consiglia “l’accompagnamento al pronto soccorso per somministrazione metadone e monitoraggio delle condizioni cliniche”. I carabinieri lo accompagnano al pronto soccorso ma proprio questo rimane uno dei punti da chiarire della vicenda. Il referto segnala l’ingresso alle 22.57, l’apertura della cartella clinica alle 22.59 e la chiusura della cartella clinica alle 23.02. In soli tre minuti, riferisce il referto, gli vengono somministrati 90 millilitri di metadone e viene sottoposto a “visita pronto soccorso”. Dopo i tre minuti al pronto soccorso, Sclabrin viene riportato nella sua cella intorno alle 23.30. Passano quasi dodici ore e alle 10.30 del mattino seguente i carabinieri che provano a svegliarlo ne constatano la morte. Alle 11.20 il medico certifica il decesso. Sul referto la possibile causa di morte viene indicata in “abuso di sostanze, accertamenti da esperire”. Nei giorni successivi emerge il secondo punto oscuro della vicenda: i tecnici della procura non sono riusciti a recuperare i video di sorveglianza della cella di Scalabrin perché i filmati di quella notte non sono stati salvati sull’hard disk. Nessuna immagine, dunque, di quello che è accaduto quella notte nella cella di Albenga. Rimangono solo le testimonianze e un’autopsia che parla di un “arresto cardiocircolatorio” senza però chiarire i dubbi intorno ad una vicenda opaca.

“Anche se si è trattato di una morte naturale, bisognerebbe capire che cosa ha originato il decesso e se c’è qualcosa di innaturale che lo ha provocato” aveva commentato l’avvocato della famiglia di Scalabrin chiedendo chiarezza sulla vicenda. Chiarezza che a distanza di quasi due mesi dal decesso, ancora non è stata fatta. Sono anzi aumentati i dubbi e resta costante una domanda: cosa è successo ad Emanuel Scalabrin?

Italia radioattiva: dove e come smaltire le scorie nucleari

“Così si chiudono gli occhi e si fa finta che siano scomparse”


33mila metri cubi di rifiuti radioattivi da conservare in sicurezza per almeno trecento anni e altri 45mila metri cubi che saranno prodotti nei prossimi anni da settori come la medicina, la ricerca e l’industria. A tanto ammonta nel nostro paese la presenza di rifiuti nucleari che, per essere smaltiti, hanno bisogno di essere depositati per centinaia di anni al fine di farne calare la radioattività.

Deposito – Così, nei giorni scorsi, ha iniziato a prendere concretezza l’idea di un deposito nazionale che possa contenere tutte le scorie attualmente suddivise in oltre venti siti dislocati tra Italia, Francia e Regno Unito. Tra il 5 e il 6 gennaio Sogin, la società pubblica che ha il compito di smantellare le centrali nucleari presenti in Italia e di mettere in sicurezza i rifiuti radioattivi, ha infatti pubblicato la lista di 67 luoghi idonei ad ospitare un deposito di questo tipo. La pubblicazione della mappa, pronta dal 2015 ma sempre rimasta segreta per evitare tensioni politiche e non, è il primo passo verso l’individuazione di un luogo in cui far sorgere il deposito nazionale ed ovviamente non ha mancato di suscitare la reazione di sindaci, governatori e cittadini dei luoghi individuati.

I punti in cui secondo Sogin potrebbe nascere questa struttura sono 67 distribuiti tra Lazio, Toscana, Piemonte, Sardegna, Sicilia, Basilicata e Puglia. Per la compilazione della mappa, validata dall’Ispettorato nazionale per la sicurezza nucleare e dai ministeri dello Sviluppo economico e dell’Ambiente, sono stati presi in considerazione una serie di criteri volti ad escludere aree potenzialmente a rischio. Sono stati ad esempio esclusi tutti i luoghi con alta densità abitativa, quelli dove è maggiore il rischio sismico e idrogeologico ma anche quelli troppo vicini ad autostrade, ferrovie e aeroporti e quelli in cui la falda acquifera e quelli in prossimità di aree naturali protette o siti UNESCO. Una serie di criteri stringenti volti ad individuare l’area più idonea e meno pericolosa in cui costruire, in un’area di 150 ettari, il Deposito e un Parco tecnlogico. Il primo sarà sarà costituito dalle strutture per lo smaltimento dei rifiuti radioattivi a molto bassa e bassa attività e da quelle per lo stoccaggio temporaneo dei rifiuti radioattivi a media e alta attività, che dovranno essere successivamente trasferiti in un deposito geologico idoneo alla loro sistemazione definitiva. Il Parco Tecnologico, invece, si configurerà come un polo di ricerca tecnologica e industriale all’avanguardia.

Nei prossimi due mesi verranno studiate più nello specifico le 67 aree individuate procedendo ad una ulteriore scrematura prima di aprire la fase delle consultazioni durante la quale il governo intende aprire un dibattito con i territori potenzialmente coinvolti nel tentativo di arrivare ad una decisione condivisa. Fino ad ora, però, il più grande ostacolo sembrano essere proprio i territori. Cittadini e istituzioni dei 67 luoghi individuati hanno da subito manifestato la propria contrarietà al progetto. Puglia e Basilicata hanno già fatto fronte comune per negare la costruzione nelle loro regioni, dalla Toscana sembra alzarsi un unanime coro di protesta ad un eventuale deposito e in tutta Italia sindaci e governatori stanno da giorni ripetendo di non volere scorie radioattive sul proprio territorio. Unico caso controcorrente sembra essere quello del sindaco leghista di Trino, Daniele Pepe, che si è fatta avanti dichiarando pubblicamente di voler ospitare il deposito nazionale.

Rifiuti – Il Deposito Nazionale, che sarebbe operativo entro 4 anni dal momento della decisione sulla locazione, ospiterebbe un totale di 95mila metri cubi di scorie radioattive. La gran parte, circa 78mila metri cubi, sarebbe costituita da rifiuti a bassa attività mentre i restanti 17mila metri cubi sarebbero rifiuti ad alta attività la cui permanenza all’interno della nuova struttura sarebbe solamente temporanea. Sono considerati “ad attività molto bassa” e “bassa” i rifiuti radioattivi che nell’arco di 300 anni raggiungeranno un livello di radioattività tale da non generare danni per la salute e per l’ambiente. Tali rifiuti saranno definitivamente smaltiti nel Deposito nazionale. I rifiuti considerati a “media” e “alta attività”, invece, perdono la radioattività in migliaia o centinaia di migliaia di anni, e quindi devono essere smaltiti in un deposito geologico sotterraneo: verranno stoccati temporaneamente (si prevede per alcune decine di anni) nel Deposito nazionale, per poi essere trasportati nel deposito geologico non appena sarà pronto.

Durante il periodo necessario ad abbattere la radioattività delle scorie, i rifiuti verrebbero sigillati dentro moduli di cemento armato che li isolino dall’ambiente circostante. I rifiuti a bassa attività, in particolare, sono conservati con sistemi che si basano sulla cosiddetta tecnologia multibarriera, ossia un insieme di “scatoloni” di cemento armato posti l’uno dentro l’altro, riempiti di calcestruzzo e strati terrosi e infine sigillati. Quelli ad alta attività (sempre nell’attesa della costruzione del deposito geologico) saranno invece conservati in contenitori ancora più impenetrabili, i cosiddetti cask, che sono adatti, oltre che allo stoccaggio, anche al trasporto delle scorie.

La necessità di un Deposito Nazionale è data principalmente da ragioni di tipo economico e da valutazioni sulla sicurezza. Per quanto riguarda le prime ragioni è inevitabile che la costruzione di un deposito su territorio italiano possa abbattere i costi annui derivanti dallo stoccaggio in paesi esteri. Ad oggi migliaia di metri cubi sono stoccati all’estero, tra Francia e Regno Unito, con costi elevatissimi per deposito e smaltimento che verrebbero eliminati dalla nuova struttura. Molte scorie invece, sono già stoccate negli oltre 20 depositi già presenti sul territorio nazionale i quali però presentano un livello di sicurezza inferiore rispetto a quello che si andrebbe a costruire. Da qui la necessità di un deposito nazionale che possa raccogliere in un unico luogo con condizioni di sicurezza ottimali tutte le scorie prodotte in Italia senza doverle dislocare tra più strutture meno idonee.

Ora la palla passa al confronto tra stato e regioni. Ma mentre da un lato arrivano le rassicurazioni sulla totale sicurezza dell’impianto e sul rischio quasi nullo per l’ambiente e le persone, dall’altro si registra una levata di scudi difficilmente superabile.

L’altro assalto: le violenze sui media a Capitol Hill

Mentre gli occhi del mondo erano puntati sulla devastazione del Campidoglio e sull’orda che ha tenuto in scacco per ore la democrazia americana, un altro assedio è passato inosservato. Un secondo obiettivo è infatti stato colpito dai sostenitori di Donald Trump: i giornalisti.

“Murder the media”, tradotto: morte ai giornalisti. È la scritta incisa durante l’assalto su una porta del Congresso americano da parte di qualche sostenitore di Trump. Un grido di battaglia che, purtroppo, non è rimasto solo su quella porta ma si è tradotto in un vero e proprio assalto ai media che si trovavano sul luogo per dare copertura ad un evento senza precedenti. Giornalisti e operatori sono stati aggrediti ripetutamente con una violenza ed una sistematicità che non trova precedenti.

Mentre dentro il Campidoglio i giornalisti sono stati portati dalle forze di sicurezza in un’ala sicura del palazzo per sottrarli alla furia dei sostenitori di Trump, all’esterno del palazzo del Congresso si è consumata una vera e propria caccia ai giornalisti. Un video diffuso da William Turton, giornalista di Bloomberg News, mostra un gruppo di manifestanti accerchiare una troupe televisiva intimandogli di andarsene prima di distruggere a calci e bastonate l’attrezzatura abbandonata dai giornalisti in fuga. Una scena che si è ripetuta in diversi punti della città dove, come denunciato da diversi media statunitensi, molte delle postazioni allestite per dare copertura all’evento sono state assaltate dai manifestanti. Le attrezzature di CNN ed Associated Press sono state distrutte e diversi giornalisti sono stati aggrediti e messi in fuga mentre con il cavo di una cinepresa veniva costruito un cappio da issare davanti al Campidoglio. Anche il nostro Antonio di Bella, durante collegamento con il TG3 notte, è stato costretto da un manifestante a spegnere la telecamera e ad interrompere la diretta al grido di “le vostre sono solo fake news”.

Un vero e proprio attacco alla libertà di stampa ed al Primo Emendamento della Costituzione statunitense che ha trasformato Washington in un teatro di guerra. “È stato spaventoso” ha raccontato Chip Reid, di CBS News “non c’era polizia a proteggerci e ne hanno approfittato per attaccarci. Ho dovuto indossare il casco e un giubbotto antiproiettile. Non mi accadeva da quando coprivo i conflitti in Iraq e Afghanistan”. Scene che in una democrazia non si dovrebbero vedere e che, invece, Sotto il governo di Donald Trump sono state addirittura alimentate e giustificate dallo stesso presidente. La violenza contro i media, infatti, è frutto della retorica di Trump che per quattro anni ha soffiato sul fuoco del sentimento anti-mediatico, etichettando regolarmente i notiziari come “il nemico del popolo” e accusando i media non allineati al suo pensiero di diffondere fake news. Così per anni, supportato da un esercito di fedelissimi pronti a sostenere lo stesso in ogni occasione, ha alimentato la sfiducia dei suoi sostenitori verso i giornalisti fomentandone la rabbia. Durante le proteste la repubblicana Sarah Palin, sostenitrice di Trump, in diretta su Fox News ha rilanciato per l’ennesima volta questa teoria sostenendo che “gran parte della colpa di quel che sta accadendo è dei media”.

Nel giorno della rabbia dei fedelissimi trumpiani, quindi, oltre alla democrazia è stato assaltato l’altro nemico del presidente uscente. A Washington, come nel resto degli Stati Uniti dove si sono verificati episodi simili, si è così registrata l’ora più buia per il giornalismo occidentale, raramente finito così platealmente sotto attacco. Quella frase incisa su una porta rimarrà per sempre come manifesto di quanto sia difficile oggi essere giornalisti. Chi filma, documenta, scrive, intervista, chi insomma scrive oggi quella che sarà la storia di domani è costantemente sotto attacco da parte di chi sostiene che il giornalismo sia il male. Senza accorgersi che a manipolare la verità è proprio chi chiude la bocca agli altri per veicolare un pensiero unico.

Tutto Gallera minuto per minuto: storia tragicomica di un assessore.

Sembra ieri che Giulio Gallera, frontman leghista dell’emergenza covid, sembrava a un passo dalla candidatura a Sindaco di Milano per il centrodestra. Oggi, invece, dopo una serie infinita di gaffe e sparate pubbliche si ritrova isolato sempre più vicino ad una sostituzione.

Giunge al capolinea l’avventura di Giulio Gallera nella giunta del presidente Fontana. Uno scenario inimmaginabile un anno fa quando l’assessore al welfare era una delle figure di punta della squadra di governo leghista. Sceso in politica nel 1990, quando venne eletto consigliere di Zona19 a Milano, fu uno dei primissimi sostenitori di Berlusconi e di Forza Italia con cui viene eletto per la prima volta nel 1997 in consiglio comunale a Milano. Dopo altri tre incarichi da consigliere, con la rielezione nel 2001 nel 2006 e nel 2011, arriva il passaggio in Regione con l’elezione al Pirellone nel 2013 come consigliere regionale. Nel 2018, dopo la vittoria di Fontana entra a far parte persino della giunta chiedendo e ottenendo anche una delle deleghe più prestigiose e complicate: la sanità.

Se gli avessero detto che proprio la sanità avrebbe posto fine anzitempo alla sua esperienza in giunta, forse ci avrebbe pensato due volte. Da marzo in poi, con lo scoppio della pandemia, quello di Giulio Gallera è diventato un nome conosciuto da tutti nel bene e nel male. L’inizio, bisogna ammetterlo, fu scoppiettante: in una situazione epocale, in cui nessuno sembrava capire nulla, lui era costantemente in tv o sui social a spiegare cosa stesse accadendo e cosa fosse necessario fare. A marzo nell’immaginario collettivo Giulio Gallera era la Lombardia. Un uomo forte e instancabile che, mentre la stessa OMS brancolava nel buio, era sempre pronto a dar risposte ai cittadini. La sovraesposizione mediatica aveva portato i suoi consensi alle stelle tanto che avevano iniziato a circolare voci su una sua candidatura per il centrodestra a sindaco di Milano. Voci mai smentite veramente e anzi cavalcate dallo stesso assessore che dichiarò apertamente: “Sono milanese, sono stato vent’anni al Comune, conosco ogni via della mia città e ne sono innamorato. Mi sono sposato qui, ho due figli al liceo, se servirà candidarmi, non mi tirerò indietro”.

Poi, però, qualcosa si è rotto. La Lombardia, divenuta epicentro europeo della pandemia, ha mostrato gradualmente tutti i suoi limiti e lo scoppio di casi eclatanti, dalla gestione delle RSA all’inutilità dell’ospedale in fiera, ha alzato attorno a Gallera polemiche e richieste di dimissioni. Al dramma della sanità Lombarda si sono aggiunte poi le sue uscite pubbliche. Quello che era il suo punto di forza è diventata la sua croce e nelle sue dirette ha inanellato una serie di strafalcioni da far invidia a un Luca Giurato qualsiasi. Celebre è diventata ad esempio la sua spiegazione dell’indice RT che in quel momento era a 0,51 in Lombardia: “Che cosa vuol dire questo?” si chiese in diretta sulla pagina Facebook di regione Lombardia “Vuol dire che per infettare me bisogna trovare due persone nello stesso momento infette… Questo vuol dire che non è così semplice trovare due persone infette nello stesso momento per infettare me”. Poi ancora, dopo essere scivolato sulla temperatura corporea sostenendo che sia preoccupante se superiore al “37,5%”, aveva deciso di ringraziare le strutture private che “hanno aperto le loro terapie intensive e le loro stanze lussuose anche a pazienti ordinari”. Una serie di dichiarazioni fuori luogo e sconclusionate che hanno costretto Matteo Salvini ad intervenire direttamente e, pur lasciando al suo posto l’assessore nonostante le richieste di dimissioni da parte di tutte le opposizioni, chiedere a Gallera di fare un passo indietro e smettere di apparire pubblicamente.

Così il frontman leghista è passato nel giro di tre mesi da uomo di punta dell’amministrazione lombarda a figura imbarazzante, da silenziare per evitare polemiche e crisi. Richieste di dimissioni e di commissariamento della sanità lombarda si sono susseguite per mesi prima di affievolirsi, solo parzialmente, con l’arrivo dell’estate e il calo nella curva dei contagi. Ma proprio in estate, soffrendo forse il calo della popolarità, Gallera ha deciso di attirare nuovamente su di sé i riflettori. Dopo mesi passati a chiedere ai cittadini lombardi sacrifici e responsabilità esortandoli a rinunciare alle vacanze per scongiurare una seconda ondata ha infatti deciso bene di pubblicare una sua foto dal pronto soccorso di Lavagna, in Liguria. Nulla di grave, per fortuna, solo una brutta ferita alla testa mentre giocava a paddle, durante una vacanza con amici e parenti. E via di nuovo con accuse e polemiche per la sua decisione di partire fregandosene dei suoi stessi appelli alla responsabilità. Polemiche che sono continuate per tutto settembre con le mozioni di sfiducia presentate dalle opposizioni che hanno tenuto occupato Gallera fino ad un finale di anno non meno turbolento. Con l’arrivo dell’autunno, infatti, a tenere sulla cresta dell’onda l’assessore lombardo è stato il caos vaccini con la Lombardia che si è fatta trovare ampiamente impreparata per la campagna antinfluenzale tanto che, dopo 13 gare indette e fiale pagate fino a 13 euro ciascuna (contro una media nazionale di 4,5 euro a dose), a inizio dicembre due terzi delle persone che ne avrebbero avuto diritto non avevano ancora fatto il vaccino per mancanza di dosi. Sfumata anche la polemica sui vaccini è di nuovo un suo post su Instagram a riaccendere le polemiche. Da buon milanese Gallera ha infatti deciso di celebrare Sant’Ambrogio facendo quello che lo fa stare meglio: una corsa con un gruppo di amici lungo il naviglio immortalata sul popolare social network con tanto di didascalia. “Oggi 20 km lungo il Naviglio Martesana. La maratona è maestra di vita. Stringere i denti e non mollare mai”. 20km, almeno tre comuni diversi attraversati. Il tutto mentre la Lombardia si trovava in zona arancione con il conseguente divieto di uscire dal comune e di praticare sport in gruppo.

Buio. Sipario. Applausi.

Prima di tornare in scena per salutare il suo pubblico con l’ultimo bis: “Ci avevano detto che i vaccini sarebbero arrivati a metà gennaio, poi hanno detto il 4 gennaio. Noi ci siamo organizzati per quella data. Abbiamo medici e infermieri che hanno 50 giorni di ferie arretrate. Non li faccio rientrare in servizio per un vaccino nei giorni di festa”. Immediata e inequivocabile la replica di Regione Lombardia: “Le dichiarazioni dell’assessore Gallera non sono state condivise e non rappresentano il pensiero del governo della Lombardia”. Anche il suo partito ora lo scarica, sbugiardandolo pubblicamente e prendendo le distanze. Entro metà mese sarà rimpasto in giunta e Gallera dovrà lasciare la sua poltrona. L’ex frontman lombardo, isolato come non mai, tornerà nel camerino a ripensare a quel breve momento in cui è stato il leader del centrodestra lombardo. Un ricordo lontano mentre sulla sua esperienza politica scorrono i titoli di coda.

Forse.

L’anno che verrà: cosa tenere d’occhio nel 2021

Ma la televisione ha detto che il nuovo anno
Porterà una trasformazione
E tutti quanti stiamo già aspettando

-Lucio Dalla-


Dopo un anno in cui la pandemia da coronavirus ha monopolizzato la scena è iniziato un anno in cui, si spera, il mondo proverà a trovare una nuova normalità. Dopo avervi raccontato gli eventi salienti del 2020 nel nostro riassunto, oggi proviamo a tracciare un quadro di quello che sarà il 2021 attraverso alcuni elementi chiave che abbiamo individuato per voi. Fermo restando che uno dei temi principali sarà la lotta al coronavirus e la campagna vaccinale più grande di tutti i tempi, oggi non vogliamo parlare di pandemia.

La svolta politica dell’anno: Germania – A livello politico tutti gli occhi saranno inevitabilmente puntati sulla Germania e la data cerchiata in rosso sul calendario è una sola: il 26 settembre 2021. In quella data, infatti i tedeschi andranno alle urne per eleggere il proprio governo e, per la prima volta da 16 anni, tra i candidati alla cancelleria non ci sarà Angela Merkel. Erano le 16:00 del 22 novembre 2005 quando la Merkel giurò diventando per la prima volta Cancelliere Federale, un ruolo che lascerà per la prima volta a settembre dopo quattro mandati consecutivi e 5782 giorni ininterrotti alla guida della Germania.

La fine dell’era-Merkel porta con sé innumerevoli punti interrogativi. Il primo riguarda inevitabilmente il suo successore che verrà deciso il 16 gennaio dal congresso della CDU che dovrà anche fare i conti con la decisione di Annegret Kramp-Karrenbauer, già individuata come erede della Merkel, di non candidarsi dopo la sconfitta delle scorse amministrative in Turingia. Al momento sembrano essere in tre a contendersi il ruolo: l’ultraconservatore Friedrich Merz, l’ex Ministro dell’ambiente Armin Laschet e il Ministro presidente della Renania Settentrionale-Vestfalia Norbert Röttgen. Nessuno dei tre sembra però essere in grado di riempire il vuoto che lascerà la cancelliera, ancora capace di raccogliere da sola un terzo delle preferenze dei tedeschi. Gli interrogativi sono molteplici anche su come sarà la politica tedesca post-Merkel e sul ruolo che il paese avrà nell’Unione Europea dopo l’uscita di scena di quella che per anni è stata il vero leader dell’UE.

Lo scontro dell’anno: Taiwan – Per qualcuno è “l’isola che non c’è” visto che, con i suoi 23 milioni di abitanti in 35mila Km2, molti stati non hanno relazioni diplomatiche con Taipei. Ma quest’anno Taiwan potrebbe trasformarsi in un nuovo focolaio di tensione con la Cina che, dopo Hong Kong, vorrebbe portare sotto il proprio controllo anche quella “provincia ribelle” che negli anni ha sviluppato una forte identità e un’autonomia sempre maggiore. Le relazioni tra i due stati non sono certo mai state semplici tanto che, dopo la cessione dell’isola alla Cina da parte del Giappone nel 1945, già nel 1947 iniziarono i primi moti indipendentisti che portarono due anni dopo ad una sostanziale indipendenza da Pechino. Dopo anni di guerra aperta e decenni di stallo diplomatico e militare, le relazioni sembravano essersi stabilizzate alla fine degli anni ’90. Lo scorso anno, però, Taiwan è stato terreno di scontro per tre motivi: lo scoppio di proteste anticinesi, il supporto del governo dell’Isola ai movimenti democratici di Hong Kong e le relazioni sempre maggiori con gli USA.

Imponendo la sua legge su Hong Kong, ponendo di fatto fine all’esperienza “un paese due sistemi” che avrebbe voluto applicare anche a Taiwan, Pechino ha mostrato il suo vero volto esasperando la situazione. Da un lato Taiwan non è disposta a fare la fine dell’ex colonia britannica e vuole a tutti i costi affermare la propria autonomia, dall’altro la Cina vorrebbe definitivamente porre fine alle mire indipendentiste e per questo ha fatto salire tensioni e allarmismo, intensificando la pressione militare su Taiwan ad un livello senza precedenti per decenni. Negli ultimi mesi le forze armate di Pechino hanno condotto una fitta serie di esercitazioni militari, aeree e terrestri, insolitamente vicino all’isola per intimidire i suoi leader e la sua popolazione. A differenza di quanto accaduto ad Hong Kong, però, se decidesse di forzare la mano con Taiwan la Cina troverebbe una situazione ben diversa con un governo che non ha intenzione di piegarsi a Pechino e che è disposto a schierare il proprio esercito per resistere. Per questo motivo Xi Jinping si è fino ad ora trattenuto da un attacco frontale ma è improbabile che le tensioni si riducano. Saranno invece sempre maggiori, con Pechino che ha compreso la necessità di una maggiore coercizione e intimidazione per mettere in ginocchio una Taiwan sempre più capricciosa e che potrebbe dunque fare del 2021 l’anno della stretta finale.  

Summit dell’anno: COP26 – Dall’1 al 12 novembre 2021 andrà in scena la 26° conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (cop26). Rinviata di un anno a causa della pandemia, sarà organizzata congiuntamente da Italia e Regno Unito anche se avrà luogo, se mai sarà possibile svolgerla in presenza, esclusivamente al SEC Center di Glasgow mentre nel nostro paese avranno luogo appuntamenti ad essa collegati. Il summit di Glasgow avrà l’arduo compito di riportare le tematiche ambientali al centro delle strategie degli stati dopo un anno in cui tutte le attenzioni sono state concentrate sulla pandemia. Come previsto nell’Accordo di Parigi sul Clima, siglato nel 2015, verrà attivato il cosiddetto “meccanismo a cricchetto” che porterà ad una rivalutazione delle strategie e degli obiettivi delineati nella capitale francese. Nell’Accordo era infatti previsto che ogni cinque anni, divenuti sei a causa della pandemia, gli stati presentassero un rapporto su quanto fatto per calibrare la strategia comune e verificare l’attualità e la fattibilità degli obiettivi. Ad oggi, secondo il monitoraggio effettuato da Climate Action Tracker, tutti i principali stati avrebbero fatto sforzi insufficienti o gravemente insufficienti per raggiungere gli obiettivi di Parigi.

Da monitorare nel corso dell’anno per avvicinarsi al summit di Glasgow sarà senza dubbio la posizione degli Stati Uniti. Dopo la decisione del Presidente Donald Trump di uscire dall’accordo di Parigi, infatti, sembra possibile un’inversione di rotta con Joe Biden che ha già annunciato di voler incrementare gli sforzi in ambito ambientale e di voler rientrare immediatamente negli accordi internazionali sul clima, Parigi incluso. Se dovesse mantenere fede alle promesse fatte in ambito green, il nuovo presidente potrebbe affrontare la COP26 ponendosi come guida per gli altri paesi nel tracciare la linea da seguire.

L’addio dell’anno: Raul Castro – Per chi ha sempre guardato a Cuba come alla terra di Fidel Castro e Che Guevara, il 2021 sarà un anno di grande cambiamento. Dopo la svolta del 2019 con la decisione di cedere la presidenza a Miguel Díaz-Canel, Raul Castro ha infatti già annunciato una decisione che porrà definitivamente fine alla Cuba castrista. In occasione del Congresso del Patrito Comunista Cubano, che si terrà tra il 16 e il 19 aprile, Il fratello di Fidel dirà addio alla scena politica dimettendosi da leader del partito e passando il testimone all’attuale presidente. Per la prima volta dalla sua creazione nel 1965, il Partito Comunista Cubano sarà guidato da qualcuno di esterno alla famiglia Castro ponendo fine ad un’era che durava dalla rivoluzione cubana. “Sarà il congresso della continuità, espressa attraverso il passaggio progressivo e ordinato delle principali responsabilità del Paese alle nuove generazioni” scrive il quotidiano ufficiale del partito Granma. Ma ciò che è certo è che, continuità o meno, sarà un momento storico per l’isola socialista che vedrà per la prima volta fuori dalla politica nazionale i principali fautori della rivoluzione che rese celebre Cuba.

Evento sportivo dell’anno: Olimpiadi Tokyo – Sarà l’anno buono? Non lo possiamo sapere ancora, ma tutto lascia presagire che i Giochi Olimpici andranno in scena regolarmente. Al di là delle competizioni sportive, quelle di Tokyo saranno Olimpiadi che rimarranno nella storia per diversi motivi. Un primo dato a renderle uniche sarà innanzitutto la data: pur continuando a chiamarsi Tokyo 2020, saranno i primi Giochi Olimpici della storia a svolgersi in un anno dispari. Se durante le guerre le olimpiadi vennero annullate a mai recuperate, è infatti la prima volta che la rassegna olimpica viene posticipata di un anno. Curioso che sia toccato proprio a Tokyo che già nel 1940 dovette rinunciare alle olimpiadi, già assegnate ed organizzate, a causa dello scoppio della guerra. Ma al di là delle date sarà un evento che rimarrà nella storia come il primo grande evento sportivo post pandemia, un segnale di ripresa e speranza per il mondo che dovrà essere completamente ripensato e riorganizzato per renderlo compatibile con l’emergenza sanitaria che, presumibilmente, non sarà ancora del tutto terminata.

Il 2021 sarà dunque un anno pieno di momenti chiave e ricorrenze. Sarà l’anno del 700° anniversario della morte di Dante e del 75° della nascita della Repubblica Italiana, sarà l’ultimo anno di Mattarella come Presidente della Repubblica e il primo di Joe Biden come Presidente degli Stati Uniti d’America. Insomma, sarà un anno pregno di eventi e di spunti che, speriamo, potrà farci dimenticare un 2020 monopolizzato dalla pandemia. Forse.