Monthly Archives: giugno 2020

Amministratori nel mirino: minacce, intimidazioni e violenze nel 2019

I Sindaci e gli amministratori pubblici rappresentano un baluardo di legalità.
Per questo dovrebbero interpretare il loro ruolo nella difesa della collettività,
per il soddisfacimento degli interessi dei cittadini, il rispetto dei diritti, la trasparenza
.”
-Federico Cafiero de Raho, Procuratore Nazionale Antimafia-


In Italia uomini e donne che per un estremo senso di responsabilità civile hanno deciso di dedicare parte della propria vita alla comunità che vivono sono sempre più sotto tiro. Sindaci, assessori, amministratori locali, consiglieri e chiunque svolga una funzione pubblica è sempre più esposto ad intimidazioni, violenze e minacce. A riportarlo è il report annuale dell’associazione “Avviso Pubblico” che da nove anni denuncia la crescente violenza fisica, psicologica e mediatica contro gli amministratori locali. Dal rapporto, pubblicato questa settimana, relativo al 2019 emerge un quadro destabilizzante che mette in luce come da nord a sud non esista regione dove la criminalità, sia essa organizzata o comune, non colpisca chi svolge il proprio compito con competenza, responsabilità e trasparenza. Minacce e violenze che mettono a rischio uno svolgimento pienamente democratico della funzione pubblica.

I dati – “Violento, esteso e costante”. Bastano tre parole a descrivere il quadro della situazione registrata nel 2019 dall’associazione “Avviso Pubblico” che ha censito in 12 mesi 559 tra intimidazioni, aggressioni e minacce nei confronti degli amministratori locali. una media di 11 ogni settimana. Una ogni 15 ore. Una lunga scia di violenza che ha letteralmente travolto 336 comuni, il numero più alto mai registrato, in 83 province diverse. E per la seconda volta nella storia del rapporto, la prima nel 2017, sono coinvolte tutte le regioni italiane. Emerge quindi in modo chiaro ed inequivocabile la capillare diffusione di quelle che Antonio Decaro, sindaco di Bari e presidente di ANCI, definisce “vere e proprie forze che, attraverso la corruzione e il disprezzo delle regole, alimentano sentimenti eversivi nei confronti dei valori democratici su cui si basa la nostra Costituzione”.

A preoccupare ancor di più è l’aumento degli attacchi diretti che sono cresciti del 6% rispetto al 2018 e lo scorso anno hanno rappresentato l’87% dei casi, dato più alto mai registrato. Gli attacchi, cioè, sono rivolti sempre più in modo diretto alle persone mentre calano gli attacchi indiretti rivolti alle proprietà o ai parenti degli amministratori. Una vera e propria sfida allo Stato e alle sue istituzioni che colpisce in modo particolare le amministrazioni comunali che, essendo le istituzioni politiche più vicine ai cittadini e al territorio, sono quelle su cui maggiormente provano a fare pressioni criminalità e estremismi. Proprio nei confronti degli amministratori locali (Sindaci, consiglieri, assessori, vicesindaci ecc) si sono infatti registrate il 56% delle intimidazioni o violenze contro un 27% al personale della pubblica amministrazione e un 3% a rappresentati di regioni e province.

Ma c’è un dato che ancor di più fa emergere come questi episodi possano minare la vita democratica del paese. Non è un caso, infatti, che lo scorso anno il mese con più intimidazioni sia stato aprile con 58 casi. Proprio in quel periodo era in pieno svolgimento in gran parte del territorio nazionale la campagna elettorale che ha preceduto le elezioni amministrative del maggio scorso che hanno portato alle urne il 48% dei Comuni Italiani per la scelta del sindaco e la relativa composizione dei consigli comunali. Mai come lo scorso anni si sono registrati infatti così tanti atti intimidatori nei confronti di candidati alle elezioni amministrative. Atti intimidatori che in diversi casi hanno portato addirittura le vittime a rinunciare alla propria candidatura ritenendo insostenibile il peso di tali minacce. È accaduto ad esempio a Parabita, Comune in provincia di Lecce chiamato alle urne dopo uno scioglimento per mafia e la gestione straordinaria dei commissari prefettizi, dove i reiterati atti intimidatori hanno spinto il candidato sindaco Marco Cataldo a ritirare la propria lista. Una chiara dimostrazione del perché non sia giusto inquadrare queste situazioni a meri atti di violenza ma si debba necessariamente vederli come un tentativo di sabotare i valori democratici costituzionalmente riconosciuti.

Modalità – Il rapporto evidenzia poi come vi sia una differenza nelle modalità con cui questi atti vengono perpetrati al Nord rispetto al Sud. Se nelle regioni meridionali, infatti, il principale metodo di intimidazione rimangono gli incendi (un caso ogni quattro) al nord i roghi sono solo al settimo posto tra le minacce per gli amministratori locali mentre crescono le violenze verbali sui social network. Unico filo conduttore che unisce l’intero paese sono le aggressioni fisiche che rappresentano la seconda minaccia tanto al nord quanto al sud. In generale emerge come, mentre al nord le minacce sono per lo più verbali o scritte, al sud si manifestano in modo più evidente ed eclatante. Nelle regioni meridionali, infatti, sembra esserci una minor preoccupazione di attirare l’attenzione o generare allarme sociale forse dovuta ad un maggior radicamento di fenomeni criminali nelle regioni a tradizionale presenza mafiosa. Così sono proprio le regioni del sud quelle in cui le minacce verbali si tramutano più spesso in vere e proprie aggressioni, dirette o indirette, nei confronti degli amministratori locali.

Le regioni – Come detto, per la seconda volta nella storia del rapporto, sono coinvolte tutte le regioni italiane anche se, ovviamente, in misura differente. Il triste primato per il maggior numero delle aggressioni se lo è aggiudicato per il terzo anno consecutivo la Campania con 92 episodi nel corso del 2019 e 217 se si considera il triennio 2017-2019. Dati che fanno rabbrividire e che significano un attacco ogni quattro giorni evidenziando le criticità della regione. Dietro alla Campania si trovano altre 3 regioni del sud Italia: la Puglia (71 casi), la Sicilia (66) e la Calabria (53). Ma se le prime quattro posizioni non sorprendono, confermando i livelli registrati negli anni precedenti, la prima sorpresa arriva dal Nord Italia. Al quinto posto infatti si trova, con 46 atti intimidatori e un incremento del 64% in due anni, la Lombardia. La presenza pervasiva della criminalità organizzata calabrese e di un sistema corruttivo sempre più diffuso rendono infatti gli amministratori locali della regione “locomotiva d’Italia” maggiormente esposti ad episodi di questo tipo. In particolare, emerge il ruolo della città Metropolitana di Milano in cui si sono registrati nel corso del 2019 ben 16 casi che rendono il capoluogo lombardo la nona provincia per numero di intimidazioni.

Se i dati registrati nel corso del 2019 ci appaiono già tragici e ben poco incoraggianti, sembra proprio che il peggio debba ancora venire. In questo 2020, infatti, si potrebbero aprire ulteriori spazi per episodi del genere a causa della forte instabilità economica e politica generata dal coronavirus. L’emergenza sanitaria sarà certamente accompagnata da una forte crisi economica e sociale che le mafie, come affermato dal ministro dell’Interno e dal Procuratore nazionale antimafia, stanno già cercando di sfruttare per accumulare consenso sociale sui territori ed espandere la loro presenza nel nostro sistema produttivo e all’interno degli Enti locali. Quegli stessi enti locali che dovrebbero essere baluardo di legalità sui territori potrebbero così ritrovarsi ancor più assediati da nemici pronti a tutto. Nemici contro cui tutti noi siamo chiamati a combattere. Per difendere la democrazia. Per difendere il nostro paese.

Alla scoperta del TAV tra ritardi, costi alle stelle e benefici nulli

“Arriverà un governo che prenderà atto dell’evidenza: la valle non vuole i cantieri.
E finalmente darà l’ordine alle truppe di tornare a casa”
-Erri de Luca-


Lo scorso agosto il dibattito la realizzazione della cosiddetta TAV, la linea ferroviaria che dovrebbe collegare Torino a Lione, aveva dato uno scossone decisivo al governo giallo-verde aprendo le crepe che avrebbero poi portato alla rottura definitiva tra Lega e Movimento 5 Stelle. Per arginare la crisi il premier Giuseppe Conte aveva dato il via libera all’opera, da sempre malvista dai pentastellati, sostenendo che sarebbe stato più costoso interrompere i lavori che continuarli. Dopo il polverone che quel dibattito aveva generato, riportando la TAV al centro della scena politica e mediatica, il cantiere infinito è tornato nel dimenticatoio fino a mercoledì quando la Corte dei Conti Europea ha stroncato il progetto ritenendolo troppo costoso, troppo in ritardo e con un beneficio ambientale praticamente nulla.

TAV – Di Alta velocità Torino – Lione si parla dai primi anni ’90 quando è iniziata di fatto la progettazione di un’opera che da oltre 25 anni divide opinione pubblica ed esperti. Dopo anni di dibattito interno l’impulso ad una effettiva realizzazione arrivò nel 1994 quando il Consiglio Europeo di Essen inserì l’opera tra le 14 infrastrutture prioritarie da finanziare prevedendo investimenti da parte della BEI e chiedendo agli stati di iniziare i lavori entro il 1996. Una data che rimarrà la prima di una lunga serie di scadenze non rispettate nella storia della TAV con i due governi che solo 5 anni più tardi, nell’ottobre 2001, iniziarono i lavori di ricognizione per la realizzazione della parte comune.

Il progetto, infatti, prevede una divisione in tre blocchi. Da un lato due tratte nazionali per un totale di circa 180km, a carico dei singoli stati, dall’altro il grande progetto di una nuova galleria di base a doppia canna lunga 57 km (12 su territorio italiano e 45 in Francia) che colleghi Saint-Jean-de-Maurienne e Susa/Bussoleno, finanziata dall’Unione Europea. Proprio la realizzazione del tunnel del Moncenisio si è rivelata nel corso degli anni l’aspetto più problematico dell’intera opera tanto che ad oggi solamente sono stati realizzati solamente i primi 9 km, tutti però sul versante francese. Dal lato italiano la situazione appare più complicata e il cantiere sta subendo ritardi e rallentamenti infiniti anche a causa di una strenua opposizione del movimento No Tav che sin dai primi anni ’90 si oppone all’opera e che l’8 dicembre 2005 occupò e smantellò il cantiere di Venaus al termine di una manifestazione a cui parteciparono oltre 30mila persone. Tra scontri politici, manifestazioni e cambi di progetto, la realizzazione dei 12 km di galleria in capo all’Italia non è infatti ancora partita. Se dunque i lavori in Francia continuano, nel nostro paese ad oggi non si è ancora scavato un centimetro del tunnel di base mentre si procede con la realizzazione di gallerie esplorative e di analisi preliminari. Una situazione che rende di fatto impensabile la conclusione dell’opera entro il 2030, data ultima prevista dalla Commissione Europea.

Ritardi – Uno dei principali problemi sollevati dalla Corte dei Conti è proprio quello relativo ai tempi di realizzazione e di messa in funzione dell’opera. Secondo le prime stime, realizzate a metà degli anni ’90, i lavori avrebbero dovuto iniziare nei primi anni 2000 con una serie di gallerie esplorative che avrebbero permesso di iniziare il cantiere per la realizzazione del tunnel di base nel 2008. Nei piani originali, infatti, dopo una serie di indagini preliminari i lavori avrebbero dovuto procedere in modo rapido e lineare portando ad una conclusione in circa 7 anni e alla relativa inaugurazione dell’opera nel 2015. Le stime, come ben sappiamo, si sono rivelate alquanto ottimistiche.

Nel 2008 l’apertura dei cantieri per la realizzazione del tunnel era infatti ancora un miraggio e sarebbe iniziata addirittura solo in corrispondenza della data indicato come termine ultimo dei lavori, il 2015. Un ritardo in partenza che ha ovviamente condizionato in modo pesante la realizzazione dell’opera portando la Commissione a rivalutare tempistiche e progetti individuando nel 2030 il termine ultimo per l’inaugurazione dell’opera e dunque il dicembre 2029 come deadline per il completamento dell’intera opera. Nonostante la previsione di tempi più lunghi, raddoppiati rispetto ai 7 previsti per il suo completamento nel progetto iniziale, sembra ancora difficile che la tratta Torino – Lione possa essere completata nei prossimi 10 anni. Mentre in Francia si continua a lavorare, infatti, in Italia manca ancora una data certa per l’inizio dei lavori di realizzazione del tunnel di base. Un ritardo, l’ennesimo, sulla tabella di marcia che rischia di far slittare ulteriormente un’opera a cui si lavora da 25 anni e che, da progetto iniziale, sarebbe dovuta essere attiva già da 5.

Costi e benefici – Altro tema particolarmente scottante è quello relativo ai costi e ai benefici. Numerose analisi negli anni hanno provato a stimare il costo complessivo dell’opera, che aumenta anno dopo anno tra ritardi e nuovi progetti, e i benefici che deriverebbero dalla sua realizzazione nel tentativo di valutare l’effettiva utilità dell’opera. Tutte le analisi si devono però confrontare con la problematica previsione dei costi di un’opera la cui realizzazione sta richiedendo investimenti sempre maggiori e non previsti. Se si considera solamente la realizzazione della tratta comune che collega Bussoleno a Saint-Jean-de-Maurienne, costituita quasi esclusivamente dal tunnel sotto il Moncenisio, i costi sono lievitati in maniera vertiginosa passando da una previsione di 3,8 miliardi di euro nel 1998 ad una attuale di 9,6 miliardi che potrebbe però subire ulteriori incrementi nei prossimi anni. I Costi per la realizzazione della parte comune sarebbero coperti per il 40% dall’Unione Europea, per il 25% dalla Francia e per il 35% dal nostro paese. Nonostante, dunque, l’Italia si debba occupare di 12 dei 57 km di galleria dovrà investire nell’opera più di quanto farà la Francia che, al momento della ripartizione della spesa, ha fatto leva sul maggior costo della tratta nazionale da realizzare per ottenere una riduzione della spesa nell’opera comune.

Ma se quantificare i costi è difficile, ancor di più lo è per i benefici comuni. Ma mentre inizialmente tutte le analisi sembravano indicare l’utilità dell’opera, negli ultimi anni si è registrata un’inversione di tendenza. Ad aprire la pista ad una nuova visione è stata nel 2016 la Corte dei Conti francese che ha sonoramente bocciato la TAV definendolo come un progetto “molto preoccupante per l’equilibrio futuro delle finanze pubbliche”. Anche in Italia, dopo sette precedenti analisi costi-benefici congiunte con esiti positivi con una previsione nel 2010 di benefici per 12 miliardi, l’ultima analisi commissionata dal governo lo scorso anno ha evidenziato l’inutilità dell’opera. La nuova valutazione ha infatti riscontrato un impatto negativo dell’opera che si aggira intorno ai -6,9 miliardi. Ad influire in modo pesante su questa inversione di rotta vi sono stati due fattori: il calo del traffico di merci e persone nelle tratte già esistenti e il minor beneficio ambientale. In particolare, su quest’ultimo aspetto, la Corte dei Conti Europea ha sottolineato come “i vantaggi ambientali in termini di emissioni di CO2 devono tener conto degli effetti negativi della costruzione, e degli effetti positivi a lungo termine dell’operatività”. E proprio considerando gli effetti negativi nella fase di realizzazione gli esperti consultati dalla Corte hanno concluso che le emissioni di CO2 verranno compensate solo 25 anni dopo l’entrata in servizio dell’infrastruttura. Per di più, quella previsione dipende dai livelli di traffico: se i livelli di traffico raggiungono solo la metà del livello previsto, occorreranno 50 anni dall’entrata in servizio dell’infrastruttura prima che le emissioni di CO2 prodotte dalla sua costruzione siano compensate.

La bocciatura dell’opera da parte della Corte dei Conti Europea sembra dunque essere solo l’ultimo tassello di una storia controversa. La storia di un cantiere infinito con costi mai definiti e benefici dubbi. Un cantiere contro cui si sono mobilitati negli anni milioni di persone dando vita ad uno dei principali movimenti di protesta nel nostro paese. Ora, dopo l’ennesima stroncatura, sembra più che mai necessario prendere una posizione netta sull’opera. Sembra più che mai necessaria una rivalutazione del progetto e degli obiettivi. Perché se prima si poteva utilizzare la scusa, aberrante, di un profitto messo prima della tutela dell’ambiente ora nemmeno più quella scusa può risultare credibile.

“Concludo confermando la mia convinzione che la linea di sedicente alta velocità in Val di Susa va ostacolata, impedita, intralciata, dunque sabotata per la legittima difesa della salute, del suolo, dell’aria, dell’acqua di una comunità minacciata.”

The Room Where It Happened: Il libro che fa tremare Trump

L’ex Consigliere alla Sicurezza Nazionale John Bolton è pronto a rivelare con il suo libro alcuni dei retroscena più gravi ed imbarazzanti dei 17 mesi passati al fianco di Donald Trump. La casa Bianca si affretta per provare a bloccarne la pubblicazione ma diversi passaggi sono già trapelati.

577 pagine di rivelazioni esplosive. Il primo “j’accuse” a Trump da parte di un alto esponente dell’amministrazione americana. Parole che pesano come pietre a 5 mesi dalle elezioni presidenziali. John Bolton sarebbe pronto a pubblicare “The Room Where It Happened”, il libro in cui racconta i retroscena vissuti durante i suoi 17 mesi da Consigliere alla sicurezza Nazionale del presidente Donald Trump. La sua uscita in libreria è prevista per martedì prossimo, 23 giugno, ed è già al primo posto nelle classiche sugli ordini di vendita online di Amazon. E mentre monta il clamore per un libro che potrebbe travolgere Trump, la Casa Bianca prova a correre ai ripari. Il Dipartimento della Giustizia sarebbe al lavoro nel tentativo di impedire la pubblicazione ed avrebbe già presentato un’ingiunzione contro la “Simon & Schuster” sostenendo che nel testo siano rivelate informazioni confidenziali e top secret che potrebbero mettere a rischio la sicurezza degli americani. Ma mentre la Casa Bianca corre contro il tempo, i libri sono già arrivati alle librerie in vista di quello che potrebbe diventare “il martedì nero” di Donald Trump. E, come se non bastasse, diversi estratti sono già trapelati.

Cina – La rivelazione più scioccante, tra quelle in possesso della stampa statunitense, riguarda il rapporto tra Donald Trump e il presidente cinese Xi Jinping. Dietro la guerra commerciale tra USA e Cina ci sarebbe infatti ben altro e i fatti sembrano non rispecchiare la linea politica di Trump. Secondo quanto riportato da Bolton, durante il G20 di Osaka di un anno fa il presidente americano avrebbe a lungo discusso con il suo omologo cinese chiedendo aiuto a Xi per aumentare le proprie possibilità di rielezione nel 2020. In particolare Trump avrebbe chiesto al presidente cinese, sulla carta un nemico politico e commerciale, di prevedere un sostanzioso investimento per acquistare prodotti agricoli americani in stati considerati strategici in vista delle presidenziali di novembre. Per tentare di rimanere al potere, il presidente americano, si è mostrato aperto ad ogni genere di distensione dei rapporti con la Cina arrivando a promettere un alleggerimento delle sanzioni alla “ZTE” il colosso delle comunicazioni cinese finito al centro di inchieste federali.

Se da un lato, dalle prime indiscrezioni, non si sa se le affermazioni di Bolton siano fondate e dimostrabili, dall’altro l’analisi di quel che è accaduto dopo quel G20 sembra confermare le sue dichiarazioni. Pochi mesi dopo, in autunno, la guerra commerciale tra le due potenze si è affievolita grazie ad un accordo tra i due governi per l’acquisto da parte della Cina di prodotti agricoli statunitensi per un totale di 40-50 milioni annui. Un accordo che seguì alla decisione del Dipartimento di Giustizia di lasciar cadere le accuse e interrompere il divieto di acquisto di prodotti americani da parte della ZTE in cambio del pagamento di una multa di 1 miliardo di dollari.

Impeachment – Altro tema scottante toccato nel libro è quello relativo al processo al presidente Trump celebrato ad inizio anno in Senato. Bolton sembra infatti offrire prove concrete e dirette del fatto che Trump abbia negato l’elargizione di aiuti all’Ucraina se non in cambio di un’indagine su Biden. Si tratta di fatto del cuore dell’accusa di impeachment mossa dai democratici contro il presidente, assolto poi in Senato. Bolton afferma che lui e il segretario di Stato Mike Pompeo e il segretario alla Difesa Mark T. Esper hanno più e più volte provato a convincere il presidente a sbloccare gli aiuti militari all’Ucraina che ne aveva un disperato bisogno per resistere alla pressione della Russia. Trump, sostenitore di teorie complottiste secondo cui il paese avrebbe tentato di fargli perdere le elezioni del 2016, avrebbe letteralmente detto ai suoi consiglieri di non essere “per un cazzo interessato ad aiutarli” almeno fino a quando “tutti i materiali di indagine della Russia relativi a Clinton e Biden non fossero stati consegnati”.

Accuse pesanti che riportano al centro del dibattito pubblico e politico l’impeachment contro il presidente. Se infatti la tesi di Bolton fosse vera dimostrerebbe che Trump ha di fatto utilizzato i soldi dei contribuenti americani come leva per ottenere aiuti personali da un paese straniero. Verrebbe dunque confermata la tesi sostenuta dalla Camera secondo cui si sarebbe verificato un vero e proprio abuso di potere tanto anche se poi il Senato, a maggioranza repubblicana, ha smontato le accuse.

Ignoranza – Dai tanti episodi trapelati emerge in modo chiaro una profonda e malcelata ignoranza del più potente uomo al mondo. Nel 2018, ad esempio, durante un incontro con l’allora primo ministro britannico Theresa May, Trump si era mostrato sorpreso nell’apprendere che il Regno Unito fosse una potenza nucleare. “Ah voi avete il nucleare?” avrebbe chiesto, in tono “tutt’altro che ironico”, il presidente alla May dimostrando di fatto di non essere a conoscenza del fatto che uno dei principali alleati degli Stati Uniti sia stato il terzo paese al mondo dopo USA e Unione Sovietica a testare dispositivi nucleari nel 1952. Non proprio una gaffe da poco che, probabilmente, si sarebbe potuto evitare facilmente. Come era riuscito per un soffio ad evitare un’altra brutta figura durante un incontro con il presidente Putin ad Helsinki. Secondo quanto riportato nel libro, infatti, poco prima dell’inizio del vertice, Trump avrebbe chiesto ai suoi consiglieri spiegazioni sul ruolo della Finlandia sostenendo che fosse “una sorta di paese satellite della Russia”. La lezione di geografia da parte dei suoi consiglieri, che si sono affrettati a chiarire che si tratta di un paese sovrano pienamente indipendente, ha evitato il peggio.

Consiglieri che hanno evitato, oltre a figuracce, anche scenari ben peggiori. Dopo aver etichettato Maduro come dittatore ed essersi schierato apertamente con Guaidò, Trump avrebbe ventilato l’ipotesi di un operazione militare in Venezuela. Stando a quanto riporta Bolton, il presidente americano durante un vertice alla Casa Bianca avrebbe detto che sarebbe stato “figo invadere il Venezuela” che tanto “è parte degli Stati Uniti d’America”. Oltre all’ennesimo strafalcione geografico, in questo caso, i suoi funzionari hanno dovuto rimediare anche alla semplicità con cui Trump sarebbe voluto entrare in guerra con il paese sudamericano.

Bolton – L’ex Consigliere alla sicurezza Nazionale non solo è una figura di spicco nella storia americana ma è anche spesso al centro di bufere e polemiche. Ex esponente delle amministrazioni Reagan, Bush senior e George W. Bush ha posizioni spesso estreme soprattutto in fatto di politica estera tra cui spicca la sua strenua difesa della guerra in Iraq e le proposte di interventi armati in Iran e Corea del Nord. La recensione del New York Times sul libro non fa sconti a Bolton. Definisce il racconto di Bolton come pieno di dettagli di scarso rilievo, ossessionato da nemici, auto-celebrativo. Nell’insieme a tratti noioso e a tratti con segni di squilibrio. Non per questo, però, appare oggi meno significativo nella battaglia sul futuro della presidenza Trump.

Obiettivo: scuole e ospedali

Le forze governative insieme agli alleati russi hanno intensificato gli attacchi a strutture civili colpendo ripetutamente scuole, ospedali, moschee, mercati e strutture residenziali costringendo quasi un milione di persone a fuggire nei primi due mesi del 2020.

“In Siria sta andando in scena la più grande violazione dei diritti umani nel 21° secolo. Assistiamo ad una violenza indiscriminata. Ospedali, scuole, strutture residenziali, moschee, mercati vengono sistematicamente colpiti.” A dirlo è Mark Lowcock, sottosegretario generale dell’ONU per i diritti umani, sottolineando come nell’area nordoccidentale del paese l’esercito siriano e gli altri attori coinvolti nel conflitto colpiscano, spesso volontariamente, strutture e obiettivi civili. Una frase che fotografa il dramma di un paese che da nove anni affronta una guerra che non accenna a placarsi e che ha già costretto oltre 6 milioni di cittadini ad abbandonare le proprie case per chiedere rifugio in altri paesi.

Le forze governative e alleate tra l’aprile 2019 e il febbraio 2020 hanno colpito con attacchi via aria e via terra, spesso con l’utilizzo di armi vietate da convenzioni internazionali, 53 strutture mediche e 95 scuole di cui molte adibite a rifugio per i civili. Tra dicembre e febbraio sono stati 10 gli ospedali colpiti dalle forze siriane e russe tra Idlib ed Aleppo provocando la morte di nove tra medici e personale sanitario e costringendo le strutture a chiudere ed interrompere le attività di assistenza. L’ultimo in ordine di tempo è stato poco prima del cessato il fuoco dichiarato a inizio marzo a causa dell’epidemia da coronavirus. Il 17 febbraio con due diversi attacchi aerei sono stati colpiti due ospedali nella città di Daret Izza, a ovest di Aleppo. Nel giro di una decina di minuti i razzi russi e siriani hanno distrutto prima l’“al-Ferdous Hospital” e poi l’“al-Kinana hospital” provocando ingenti danni ma, fortunatamente nessuna vittima. I testimoni raccontano di aver avuto subito la certezza che fossero proprio gli ospedali l’obiettivo dell’attacco. Un bombardamento mirato che non ha colpito nulla al di fuori delle due strutture sanitarie in un momento della giornata, tra le 11 e mezzogiorno, in cui erano piene di pazienti e personale medico. Solo poche settimane prima, con tre diversi raid aerei, l’aviazione russa aveva colpito l’ospedale di Ariha provocando il crollo di alcuni complessi residenziali e di parte dell’ospedale oltre alla morte di un medico e almeno 10 civili. Attacchi che lasciano paralizzati e increduli i testimoni e che lo stesso dovrebbero fare con il resto del mondo. “Il mio lavoro è aiutare le persone” ha raccontato ad Amnesty International un medico di Ariha “ma sono rimasto impotente e paralizzato davanti a questo. Perché? Assad ci bombarda perché aiutiamo esseri umani?”.

Ancor più evidente è la volontà di colpire i civili quando l’obiettivo dei raid diventano le scuole. Secondo l’Ong siriana Hurras Network (Rete siriana per la protezione dei bambini), nei soli primi due mesi di questo 2020 sono state 28 le strutture scolastiche, sia utilizzate come rifugi sia per scopi educativi, colpite dai bombardamenti russi e siriani. Di quelle 28, 10 sono state colpite con attacchi quasi simultanei nello stesso giorno: il 25 febbraio 2020. “Ho lasciato mio figlio a scuola alle 8.00” racconta una madre ad Amnesty International “e alle 9 ho sentito le esplosioni. Sono corsa a scuola senza sapere cosa fosse successo ed ho visto mio figlio in piedi davanti all’edificio distrutto. Gli insegnanti hanno fatto evacuare i ragazzi ma non sono riusciti a fuggire. Molti erano feriti. Almeno tre erano morti”. Come per gli ospedali, anche i bombardamenti alle scuole non lasciano spazio per i dubbi. Lontane da obiettivi militari o da zone di combattimento, gli edifici scolastici sono diventati obiettivi a tutti gli effetti per le truppe governative che negli ultimi mesi prima del cessate il fuco hanno aumentato la frequenza e l’intensità degli attacchi a obiettivi civili. Non si può più parlare di incidenti.

Si tratta di reiterate e sistematiche violazioni del diritto internazionale secondo il quale gli attori coinvolti in un conflitto devono distinguere tra obiettivi militari e civili e colpire solo ed esclusivamente i primi. Crimini di guerra che stanno costringendo la popolazione siriana al più grande esodo di massa mai registrato. Se dal 2011 al 2019 sono stati circa 6 milioni i cittadini siriani che hanno chiesto asilo in altri paesi, si stima che l’avanzata delle forze governative abbia costretto circa 960.000 civili, di cui circa l’80% donne e bambini, a lasciare le loro case tra il dicembre 2019 e il febbraio 2020. Quasi un milione di sfollati costretti a scappare verso la Turchia o a cercare riparo in moschee o scuole sperando che non vengano colpiti. E se il cessate il fuoco di inizio marzo ha posto un freno ad una situazione che sembrava potesse toccare un punto di non ritorno, non ha alleviato le sofferenze di chi è scappato da casa propria per sfuggire alla morte. Con aiuti umanitari sempre più difficili e condizioni sempre più disumane, i crimini di Assad hanno conseguenze pesantissime anche quando non arrivano le bombe. Lo testimoniano le parole di una bambina in lacrime mentre con la madre cerca l’ennesimo rifugio: “Perché Dio non ci uccide? Nessun posto è più sicuro per noi”.

_____________________________
Fonte: Amnesty International, Nowhere is safe for us – Unlawful attacks and mass displacement in north-west syria, maggio 2020

Generali, golpisti e bolsonaro: come il brasile vira verso la dittatura

“Ordem et progresso”


Da quando ha preso il potere, il 1° gennaio 2019, Bolsonaro si è presentato come un “uomo del popolo” pronto a lottare al fianco dei propri cittadini contro la corruzione e l’inadeguatezza della classe politica brasiliana. Con le sue politiche ha fatto scivolare il Brasile in un vortice di paura e caos che ora potrebbero portare a conseguenze anche gravi. Perché mentre nel paese monta il timore per un’epidemia che il governo non sa e non vuole affrontare, l’ala più estrema della destra brasiliana continua a sostenere il proprio presidente che con i suoi discorsi e le sue azioni alimenta il caos portando il Brasile verso una nuova governance autoritaria.

Militari – La situazione è resa ancor più grave da un ruolo sempre più centrale di funzionari dell’esercito nel governo brasiliano. Con la nomina di Eduardo Pazuello, generale dell’esercito senza esperienza politica né medica, nel ruolo di Ministro della Sanità il presidente brasiliano ha confermato la sua tendenza a utilizzare uomini dell’esercito per ricoprire cariche civili. Dal generale Hamilton Mourão, che ricopre la carica di vicepresidente, all’ufficiale Luiz Eduardo Ramos, attualmente segretario di stato, passando per il generale Augusto Heleno e per decine di ministri e funzionari Bolsonaro si è circondato di militari.

La presenza di ufficiali dell’esercito nell’esecutivo, secondo molti osservatori, ha rappresentato almeno inizialmente un elemento di stabilità a garanzia dell’ordinamento democratico. I militari, infatti, hanno per diverso tempo arginato l’ideologia di Bolsonaro opponendosi alle decisioni più estreme che il leader populista avrebbe voluto prendere nei primi mesi del suo mandato. Sono stati i militari, ad esempio, a dissuadere il presidente dall’ordinare un intervento armato in Venezuela così come sempre dai generali è arrivato il consiglio di non spostare l’ambasciata brasiliana in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme per non alimentare polemiche. Ma non è passato molto tempo prima che Bolsonaro sostituisse a quei generali “moderatori” ufficiali dell’esercito più disposti ad assecondare le sue idee. Così, a partire dalla seconda metà del 2019, a prevalere è stata l’ala bolsonarista caratterizzata da una forte ideologia e da una totale disponibilità nei confronti del presidente. E mentre cresce la militarizzazione delle cariche politiche, cresce anche la complicità tra gli ufficiali nominati da Bolsonaro e il presidente stesso. Quei militari, prima garanti della democrazia, ora si dimostrano disposti ad accogliere ogni idea del presidente. Così il neoministro della Sanità, dopo che i suoi due predecessori si sono dimessi in due mesi in polemica con il presidente, appoggia totalmente la linea politica negazionista dettata da Bolsonaro. Intanto il vicepresidente Mourão attacca ripetutamente la stampa colpevole, a suo dire, di diffondere fake news per screditare il presidente mentre il generale Heleno minaccia la corte suprema promettendo “conseguenze imprevedibili” se venisse portata avanti l’inchiesta su Bolsonaro.

Manifestazioni – E mentre l’esercito ricopre un ruolo sempre più centrale nella politica bolsonarista, nelle piazze del paese la destra brasiliana auspica un golpe militare. Si sono moltiplicate nelle ultime settimane manifestazioni di sostenitori di Bolsonaro scesi in piazza per protestare contro la Corte Suprema, che sta indagando sul presidente, e chiedere una svolta autoritaria del presidente con il supporto dell’esercito. Manifestazioni che Bolsonaro ha volutamente alimentato ed incoraggiato scendendo più volte in piazza al fianco dei propri sostenitori legittimando di fatto le frange più estreme della destra brasiliana. In piena emergenza sanitaria, il presidente brasiliano ha più volte sfidato buonsenso e democrazia per unirsi alle manifestazioni ed arringare la folla contro il congresso e la corte suprema considerati “nemici del popolo”. “Ora il potere spetta al popolo brasiliano” ha gridato ad aprile in una piazza gremita di Brasilia “e tutti devono capire che bisogna rispettare la volontà del popolo”. Il popolo a cui si riferisce è quella minoranza che ancora sostiene a spada tratta l’operato e l’ideologia di un presidente il cui indice di gradimento è colato a picco.

Le minacce di una possibile virata militare sostenuta dal popolo contro le istituzioni democratiche sono quotidiane ed i toni si stanno facendo via via sempre più duri. A Brasilia, da alcune settimane, gruppi neofascisti hanno istituito un presidio permanente denominato “300 Pelo Brazil” il cui slogan è “Ucrainiziamo il Brasile”, con un chiaro riferimento ai gruppi neonazisti armati che si sono formati nelle sanguinose proteste in Ucraina nel 2014, culminate con il rovesciamento del presidente. Il gruppo ha ricevuto gli elogi di Eduardo Bolsonaro, figlio del presidente e senatore, e anche il padre guarda a loro con simpatia. Associare il bolsonarismo al neonazismo non è una forzatura, tutt’altro. I gruppi neonazisti brasiliani sono già scesi in piazza per difendere Bolsonaro quando era ancora deputato e lo hanno sostenuto strenuamente nella sua campagna elettorale e durante la sua presidenza. Un supporto che il presidente sta ricambiando ampiamente attraverso le continue legittimazioni e favori. Da ultima è arrivata la proposta, nel corso di una riunione con i ministri, di armare la popolazione per evitare derive autoritarie di sindaci e governatori.

Così, mentre i militari al governo assicurano lealtà alla costituzione e negano ogni possibilità di un colpo di stato, crescono i timori per una svolta autoritaria. In soli 17 mesi agli occhi del mondo il Brasile è passato da essere un gigante buono e colorato, seppur con enormi problemi e difficoltà, ad un paese sull’orlo di un collasso. Con un presidente che incita le frange più estreme e l’esercito che è diventato una stampella necessaria per un governo sempre più pervaso dall’ideologia bolsonarista, sembra che la democrazia sia ora più che mai in pericolo. Se ne è accorto il mondo anche se non può, o non vuole, intervenire. Se ne sono accorti i brasiliani e loro, invece, devono intervenire. E mentre caos e paura si diffondono in tutto il paese destra e sinistra provano a dare vita ad un movimento ampio e trasversale che possa contrastare le mire autoritarie di Bolsonaro e dei suoi ufficiali vigilando sulla democrazia da qui alle prossime elezioni del 2022. Sperando che siano libere e pienamente democratiche.

Inferno a Saydnaya

“Conoscevamo bene Saydnaya. Sapevamo di essere arrivati all’inferno”. Partendo dalle parole di chi è sopravvissuto ricostruiamo le torture e le violenze portate avanti nel più pericoloso penitenziario siriano dove dal 2011 tutto si svolge in segreto senza che nessuno possa accedervi.

A 25 km a nord di Damasco, vicino all’antico monastero di Saydnaya, dove cristiani e musulmani hanno pregato insieme per secoli, si trova un punto nero sulla mappa dei diritti umani: la prigione di massima sicurezza di Saydnaya. Una struttura a tre braccia, che si staglia in mezzo ad un’area desertica di oltre cento ettari, a cui viene vietato costantemente l’accesso a chiunque ne faccia richiesta. Nessuno, dal 2011 ad oggi è mai potuto entrare nel penitenziario militare dove dall’inizio della rivoluzione sono stati incarcerati, torturati e spesso uccisi centinaia di migliaia di oppositori politici. Diverse testimonianze di ex detenuti raccolte da Amnesty International hanno contribuito a scoprire cosa accade in quella fortezza inespugnabile in cui i militari del regime fanno il bello e il cattivo tempo.

Il primo ricordo di quell’inferno è per tutti il “comitato di benvenuto” che accoglie i nuovi detenuti arrivati al penitenziario. “Hanno iniziato ad insultarci” racconta Jamal Abdou “ci hanno spogliato e fatto inginocchiare con le mani dietro la schiena e gli occhi bendati. Poi hanno iniziato a picchiarci. Volevano vedere quanto ognuno di noi potesse resistere.” È solo l’inizio di un inferno. I detenuti, ammassati a decine in celle di due metri per due progettate per un solo individuo, sono costretti a stare al buio. Senza vedere i propri compagni, senza vedere i propri carcerieri. Samer al-Ahmed ricorda come unico spiraglio di luce una piccola finestrella sulla porta, a 30 cm dal pavimento, dove era costretto a infilare la testa mentre i militari all’esterno la calciavano con forza. E mentre il buio avvolge tutto, l’udito diventa l’unico senso utile per capire cosa accade intorno. “Cerchi di ricostruire quello che ti circonda attraverso l’udito” spiega Salam Othman, anche lui ex detenuto, “Riconosci i militari dal suono dei loro passi. Capisci quando sta per arrivare il cibo dal rumore dei piatti. Se senti urlare qualcuno sai che sono arrivati nuovi prigionieri. Chi è a Saydnaya da tanto tempo non grida più. Chi è a Saydnaya da tanto tempo sa che più gridi, più loro picchiano.”

A Saydnaya non si cercano prove. Non si vogliono strappare confessioni attraverso torture e minacce. Non si vogliono estrapolare i nomi di attivisti o rivoltosi. L’unico obiettivo, nel penitenziario più temuto della Siria, è quello di far crollare i detenuti. Botte, minacce, insulti e abusi. Tutto con il solo obiettivo di far crollare fisicamente e psicologicamente non solo attivisti ed oppositori politici ma anche semplici cittadini. Una sorta di gioco perverso per logorare giorno dopo giorno i detenuti. Svegliati alle 3 del mattino e costretti a rimanere in ginocchio nel buio della cella. Senza poter parlare, senza poter pregare, senza poter bere né mangiare. E per chi non rispetta le regole o si lamenta c’è la tortura. Bastoni, cavi elettrici, scosse, bruciature, catene. “Il senso di paura e impotenza è inimmaginabile” riporta un altro ex detenuto, testimone al processo di Coblenza, “ho sperato più volte di morire”. E sono molti in effetti quelli che da quel penitenziario non sono mai usciti. Torturati a morte, lasciati morire nelle celle senza alcuna assistenza medica o giustiziati. A Saydnaya si muore ogni giorno. E proprio il numero sempre crescente di decessi a partire dall’inizio della rivoluzione del 2011 ha costretto il regime a costruire di fianco alla prigione un forno crematorio. Comparso quasi dal nulla nel 2016 si è reso necessario con l’incremento delle esecuzioni di massa, solitamente tramite impiccagione, che ha reso impossibile la creazione di altre fosse comuni in cui far sparire i cadaveri. Dal 2011 ad oggi, denunciano diversi gruppi per i diritti umani, le esecuzioni sono continuate con ritmi sempre più elevati arrivando a 50 ogni settimana. Si stima che tra il 2011 e il 2016, nei primi cinque anni del conflitto civile, abbiano perso la vita nel penitenziario tra i 10.000 e i 15.000 detenuti i cui corpi non sono mai stati ritrovati.

Ma chi riesce ad uscirne rimane segnato a vita. Sfigurato da un’esperienza che non ha eguali nella storia recente. Un luogo dove si tortura senza uno scopo, senza un motivo. Un luogo dove la violenza gratuita diventa una tremenda normalità. Omran Al-Khatib è rimasto dieci mesi nel penitenziario tra il 2012 e il 2013, quando ne è uscito pesava 32 kg e aveva riportato traumi psicologici pesantissimi curati per anni in Turchia. Ma se dalla sua testimonianza e da quelle di tanti altri sopravvissuti il mondo sta scoprendo l’orrore di Saydnaya, c’è una cosa che ancora non riesce ad accettare: “Perché ora che sapete cosa accade, nessuno fa niente per fermarlo? Questa non è forse complicità?”