Monthly Archives: settembre 2020

Il carosello degli eletti tra condannati, incandidabili, parenti ed amici

Cosa porterei dal mondo del calcio a quello della politica?
Comincerei col portare le regole, noi in campo le abbiamo e le dobbiamo rispettare.

-Zdeněk Zeman


Una settimana fa in sette regioni e 1.177 comuni non si è votato solo per il referendum ma anche, e soprattutto, per le elezioni regionali e comunali. Elezioni che hanno portato al rinnovo di consigli e giunte e che hanno permesso a migliaia di nuovi consiglieri di entrare nel mondo della politica. Non tutti, infatti, hanno preso la stessa decisione della candidata di centrodestra alla presidenza della Regione Toscana che, esattamente come fece in Emilia-Romagna la Borgonzoni, una volta sconfitta ha rinunciato anche alla poltrona di consigliere regionale per tenere quella ben più remunerativa da Europarlamentare. Ma tra chi ha deciso di rimanere attaccato alla poltrona appena conquistata c’è anche una schiera di soggetti ambigui.

Regionali – Le elezioni regionali hanno portato al rinnovo dei consigli in Campania, Liguria, Marche, Puglia, Toscana, Veneto e Valle d’Aosta. Proprio in quest’ultima regione si sta scatenando in questi giorni una feroce battaglia politica a seguito dell’accordo tra centrosinistra e autonomisti che ha di fatto escluso la lega dalla maggioranza nonostante fosse risultata il primo partito alle urne. Un dibattito che ha messo in secondo piano la bizzarra rielezione di Augusto Rollandin. L’ex presidente della regione nel marzo 2019 scorso era stato condannato a 4 anni e sei mesi per corruzione con la conseguente interdizione dai pubblici uffici che in base alla legge Severino lo aveva fatto decadere da consigliere regionale. Ma con gli effetti della Severino che scadranno a fine novembre, un nuovo posto in consiglio ha certamente fatto gola a Rollandin che ha deciso di candidarsi con la lista “Pour l’Autonomie” ed ha conquistato la sua poltrona. A partire da novembre, però. Fino ad allora il suo seggio sarà occupato dal primo degli esclusi nella sua lista.

Ma la legge Severino, fortunatamente per Zaia, non si applica a molti reati. Così nel consiglio regionale del Veneto possono essere eletti senza troppi problemi due consiglieri condannati in via definitiva. Tra i cinque consiglieri che rappresenteranno Fratelli d’Italia troviamo Daniele Polato, già assessore alla sicurezza a Verona condannato nel dicembre scorso per aver convalidato in documento di raccolta firme per la presentazione della lista di Forza Nuova alle passate elezioni regionali. Non ci sarebbe nulla di strano, tantomeno di illegale, se non fosse che molte di quelle firme sono poi risultate false. A 9 mesi dalla condanna è risultato il più votato di Fratelli d’Italia con oltre 10mila preferenze. Semila in più di quante ne abbia prese Enrico Corsi, eletto nelle file della Lega nonostante una piccola condanna per propaganda razzista ricevuta nel 2008 per aver diffuso, insieme a Flavio Tosi, volantini con slogan razzisti contro un campo nomadi. Ma una condanna per razzismo passa certamente in secondo piano in una lista in cui a con 4.000 preferenze arriva in consiglio anche quel Gabriele Michieletto che paragonò l’allora ministra Cècile Kyenge ad un gorilla con un post su Facebook.

E se in Veneto in consiglio ci va chi è stato condannato, in Campania viene eletto chi è stato raccomandato. Nel fortino di De Luca, da destra a sinistra, va in scena la parentopoli all’italiana. Nella coalizione di centrosinistra troveremo seduto tra i banchi del Partito Democratico nel nuovo consiglio Massimiliano Manfredi, fratello del più noto Gaetano Ministro dell’Università nel governo attuale ed ex rettore dell’Università Federico II di Napoli. A fargli compagnia ci sarà anche Bruna Fiola, figlia di Ciro presidente di Confcommercio e già consigliere a Napoli, eletta con circa 20.000 preferenze. Nella lista di De Luca troviamo Vittoria Lettieri, figlia di Sindaco di Acerra Raffaele Lettieri, che prende più preferenze di Paola Raia, sorella di quel Luigi Raia che fu esponente di spicco di Forza Italia vicino a Nicola Cosentino e messo oggi da Vincenzo De Luca a capo dell’Agenzia Unica del Turismo della Campania. Ma se Atene piange, Sparta non ride. Così anche nel centrodestra troviamo eletti ad esempio Giampiero Zinzi, il cui padre Domenico fu presidente della provincia di Caserta e consigliere regionale, che siederà a fianco di Anna Rita Patriarca, figlia dell’ex parlamentare della Democrazia Cristiana Francesco Patriarca. Quello stesso Francesco Petrarca condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa per aver pilotato appalti a favore del boss dei casalesi Antonio Iovine.

Amministrative – Ma se le regionali regalano situazioni al limite dell’immaginabile, le amministrative sembrano andare oltre. A meno di una settimana dalle elezioni, ad esempio, c’è già il primo comune vicino allo scioglimento. A Carbone, in provincia di Potenza, ha vinto la lista “Onesti e Liberi”, capeggiata da Vincenzo Scavello. Onesti, liberi e mai visti considerando che Scavello è nato e vive a Messina e si era candidato esclusivamente per poter ottenere dal proprio datore di lavoro un’aspettativa retribuita durante il periodo di campagna elettorale. Ma oltre alle ferie pagate, per Scavello è arrivata anche una vittoria inaspettata che lo ha costretto a dimettersi immediatamente condannando il comune al commissariamento e a nuove elezioni.

Chi non si è ancora dimesso, e non ha intenzione di farlo, è invece Fabio Altitonante. Consigliere di Forza Italia in Regione Lombardia, Altitonante è stato eletto a sindaco di Montorio al Vomano, comune di 8.000 abitanti in provincia di Teramo. Ma su di lui non grava solo il doppio incarico istituzionale, a rendere ancor più bizzarra la sua elezione vi è il fatto che attualmente risulta essere sotto processo nell’ambito dell’inchiesta “Mensa dei Poveri” riguardante un sistema di tangenti e appalti pilotati in Regione Lombardia. Arrestato nel maggio 2019, Altitonante è attualmente imputato per “traffico di influenze illecite”. Non proprio una cosa da nulla, insomma, a maggior ragione se si considera che è una delle cause di incandidabilità stabilite dalla “Legge Severino”. Se dovesse essere condannato, insomma, la sua esperienza da sindaco verrebbe bruscamente interrotta.

Non è invece contemplata dalla Legge Severino l’incandidabilità nei casi come quello di Paolo Montagna. Eletto a sindaco di Moncalieri, Montagna è già indagato in relazione ad una condanna che subì qualche anno fa. Nel 2017, in seguito all’accesso abusivo al sistema informatico della Polizia, Montagna era stato condannato a svolgere tre mesi di volontariato con la Protezione Civile. Dopo tre mesi ha certificato di aver concluso la sua esperienza, ma nessuno lo aveva mai visto. Ora, dunque, è scattata la nuova imputazione per falso ideologico.

Come si ottiene la cittadinanza se non sei Luis Suarez

“Non siamo troppo neri, siamo solamente troppo poveri”


Da ora chiamatelo Luigi. Perché a sei anni dal clamoroso morso con cui stese Chiellini ai mondiali brasiliani, in quell’ormai celebre Italia – Uruguay che ci condannò all’eliminazione in uno dei più brutti mondiali della nostra storia, Luis Suarez ha passato il test linguistico per ottenere la cittadinanza italiana. L’ottenimento del passaporto, ormai a un passo per il calciatore del Barcellona, con tempistiche così brevi ha però scatenato la rabbia di chi pur vivendo in Italia da anni non si vede riconoscere la cittadinanza italiana.

La situazione – Tutto è iniziato nelle ultime settimane di agosto. Dopo i capricci di Messi, che per mesi ha chiesto il trasferimento salvo poi decidere di rimanere in Catalogna, a Barcellona ha preso il via la telenovela Suarez. Il nuovo allenatore dei blaugrana, l’olandese Ronald Koeman, ha infatti messo fuori squadra l’attaccante uruguaiano dando il via alle inevitabili indiscrezioni sul suo futuro. Nonostante i 33 anni e uno stipendio non indifferente, attualmente 15 milioni l’anno, il centravanti ha ovviamente attirato l’attenzione di diversi club che in queste settimane si stanno muovendo per portare “El pistolero” alla propria corte. Tra i club più interessati ci sarebbero però anche la Juventus e l’Inter, con i bianconeri che sarebbero in vantaggio rispetto alla concorrenza.

Il regolamento del campionato italiano, però, in fatto di giocatori stranieri parla chiaro: si possono tesserare al massimo due extracomunitari ogni stagione. Da questa norma sono nati i problemi per il club di Torino che in questa finestra di calciomercato ha già acquistato il brasiliano Arthur e lo statunitense McKennie esaurendo così gli slot disponibili. Sogno sfumato dunque? Assolutamente no. Il giocatore, infatti, facendo leva sulle lontane origini italiane della moglie Sofia Balbi ha deciso di richiedere la cittadinanza italiana per diventare ufficialmente comunitario e potersi aggregare ai bianconeri entro la fine del mercato prevista per il 5 ottobre. I tempi stringono e così parte la procedura lampo per italianizzare l’uruguagio. Nel giro di qualche settimana vengono risolte le pratiche burocratiche e giovedì Suarez ha sostenuto il test di lingua presso l’Università di Perugia. Risultato? Test superato in mezz’ora e certificato di lingua italiana (livello B1) ottenuto con successo. In meno di un mese, dunque, Luis Suarez è diventato cittadino Italiano ed ora non gli resta che attendere la conferma da parte del Ministero per poter finalmente trattare liberamente e concretamente con la Juventus.

Cittadinanza – Dal punto di vista strettamente legale, l’ottenimento della cittadinanza italiana per Luis Suarez è inattaccabile. La situazione del giocatore infatti rientra nelle casistiche per cui può essere concesso il passaporto italiano ad un cittadino straniero. Sulla base del decreto sicurezza, per la concessione della cittadinanza per matrimonio è necessario risiedere legalmente in Italia da almeno 12 mesi, in presenza di figli nati o adottati dai coniugi; o risiedere da almeno 24 mesi con il cittadino italiano. In caso di residenza all’estero, e questo è il caso di Suarez che è sposato con Sofia Balbi da 11 anni, si può inviare la pratica solo dopo 18 mesi in presenza di figli o dopo 36 mesi dalla data del matrimonio. Se si rispettano questi requisiti e si dimostra, attraverso un apposto esame sostenibile in 3 università per stranieri (Roma Tre, Perugia e Siena), di avere una buona conoscenza della lingua è possibile dunque ottenere la cittadinanza italiana.

Diversamente, come specificato sul sito del Ministero dell’Interno, la cittadinanza italiana può essere ottenuta “iure sanguinis” ovvero se si nasce o si viene adottati da cittadini italiani. Ma se i genitori sono stranieri o se si arriva in Italia per altri motivi la questione cambia visibilmente. Per i cittadini stranieri residenti in modo regolare nel nostro paese è infatti richiesta oltre ad una permanenza continuativa di almeno 10 anni anche il rispetto di determinati requisiti: “In particolare” si legge sul sito del Ministero “il richiedente deve dimostrare di avere redditi sufficienti al sostentamento, di non avere precedenti penali, di non essere in possesso di motivi ostativi per la sicurezza della Repubblica.” Paradossalmente invece va peggio a chi nasce in Italia da cittadini stranieri. A loro infatti la cittadinanza italiana può essere riconosciuta solamente al compimento del diciottesimo anno di età. 18 anni per ottenere la cittadinanza del luogo in cui sono nati.

E sono proprio le tempistiche con cui Suarez ha ottenuto la cittadinanza ad aver scatenato le polemiche. Perché se da un lato si può chiudere un occhio sul superamento di un test di lingua che in mezzora ha attestato un livello di conoscenza dell’idioma straordinario e una capacità di comunicazione sostanzialmente perfetta, dall’altro è inevitabile chiedersi come sia possibile che nel giro di un mese si sia svolto completamente l’iter per l’ottenimento della cittadinanza. Pur non essendo prevista per legge una durata minima del processo di ottenimento del passaporto italiano questa rapidità non si è mai vista in nessun altro caso. In un paese dominato dalla burocrazia, infatti, l’ottenimento della cittadinanza si può prolungare per tempi sostanzialmente infiniti. Se prima del decreto sicurezza si prevedeva che la conclusione del procedimento di rilascio dovesse avvenire entro 2 anni dal momento della presentazione della domanda, con la nuova normativa introdotta dal governo gialloverde questo termine massimo è stato spostato a 48 mesi: quattro lunghissimi anni di attesa prima di diventare cittadino italiano.

Quattro anni se si è un comune mortale. Se si è un giocatore che guadagna 15milioni l’anno per segnare 21 gol a stagione, le regole non valgono. O meglio, se una delle principali società italiane ha bisogno che quel calciatore ottenga la cittadinanza in tempi brevi le regole non valgono. Non è Luis Suarez il problema. Non è l’avere i soldi che gli ha permesso di ottenere la cittadinanza. Il problema è un sistema in cui non conta il colore della pelle, non conta il conto in banca né conta se arrivi in Italia a bordo del tuo aereo privato: contano potere e utilità. Il problema è un sistema in cui se la principale squadra di calcio italiana ha bisogno di un giocatore si è pronti a tutto per farlo arrivare. Perché se al posto di Luis Suarez ci fosse stato un qualunque extracomunitario e al posto della Juventus ci fosse stata una squadra di serie C, in un mese la pratica per la cittadinanza non sarebbe nemmeno stata aperta.

Un esercito di nostalgici del fascismo nelle liste elettorali

Un esercito di nostalgici del fascismo è pronto a scendere in campo per le elezioni regionali e comunali. C’è chi posta foto con il braccio teso e chi invoca una marcia su Roma, chi usa per la campagna elettorale slogan del regime e chi per anni ha militato in organizzazioni neofasciste. Ecco chi sono e da chi sono stati candidati.

Domenica e lunedì nel nostro paese non si terrà solo il referendum costituzionale. Questa tornata elettorale prevede infatti anche le elezioni amministrative in 1.177 comuni, tra cui 18 capoluoghi di provincia, e le elezioni regionali in sette regioni (Campania, Liguria, Marche, Puglia, Toscana, Veneto e Valle d’Aosta). È dunque pronto, e in attesa di giudizio, un vero e proprio esercito di candidati che da lunedì potrebbero iniziare una nuova avventura politica. Ma mentre la commissione antimafia ha presentato ieri un elenco di 13 impresentabili in diversi comuni con criticità soprattutto in Puglia e Campania, nelle liste di molti partiti da nord a sud Italia si registra una massiccia presenza di un altro tipo di impresentabili: i nostalgici del ventennio fascista.

 Il caso che ha trovato più spazio sui giornali, e generato più clamore, è senza dubbio quello di Christian D’Adamo. Candidato consigliere a Fondi con una lista civica a sostegno del candidato sindaco di Fratelli d’Italia Giulio Mastrobattista, D’Amato non nasconde in alcun modo la sua affinità con certi ambienti della destra più estrema e su Twitter, dove come immagine del profilo sfoggia una foto con la bandiera di Forza Nuova, si definisce “naziskin, negazionista, omofobo, xenofobo, antidemocratico, anticostituzionale, anticomunista e antisemita”. Tra foto con il braccio teso e immagini di svastiche, il profilo del pizzaiolo 32enne candidato a Fondi sembra essere tutto tranne che il profilo di un candidato democratico. E come può essere, allora, che sia stato candidato a consigliere comunale? Secondo Francesco Mastrobattista, ex Forza Nuova e responsabile della lista civica che lo ha candidato oltre che nipote dell’aspirante sindaco, si sarebbe trattato di una svista: “ho controllato” ha assicurato “certificato penale, carichi pendenti, casellario giudiziario e profili Facebook di tutti i candidati. Mi dicono che D’Adamo aveva postato foto indecenti su Twitter. Mi dispiace ma è impossibile controllare tutto.”

Ma quello di Fondi non è c’erto l’unico caso in cui i responsabili di Fratelli d’Italia non sono riusciti a controllare tutto. In Campania, ad esempio, nel partito di Giorgia Meloni sembra esserci un boom di nostalgici. “Me ne frego” è ad esempio lo slogan elettorale scelto da Gimmi Cangiano, ex militante del Fronte della Gioventù (organizzazione giovanile dell’MSI) che da due anni è coordinatore regionale per Fratelli d’Italia con cui ora si è candidato nel collegio di Caserta. Cangiano, però, è senza dubbio in buona compagnia. A Napoli, infatti, Fratelli d’Italia candida anche l’attuale consigliere comunale Marco Nonno il cui passato sembra essere composta più da ombre che da luci. Nonno, infatti, non solo è stato condannato ad 8 anni per aver fomentato gli scontri in occasione dell’apertura della discarica di Pianura (definita da lui “una medaglia”) ma ha anche una forte nostalgia per il ventennio fascista. Nel 2016 infatti, in un’intervista a Repubblica, Nonno definì Mussolini “il più grande statista del ‘900” e la sua simpatia per il duce è cosa così nota che i suoi compagni di partito nel marzo 2019 gli fecero trovare una torta con la faccia di Mussolini e la scritta “A Noi!”.

Ma è nelle Marche che Fratelli d’Italia si supera. Nell’unica Regione, insieme alla Puglia, in cui Giorgia Meloni ha avuto il via libera dal centrodestra a candidare un proprio uomo la scelta è ricaduta su Francesco Acquaroli. L’ex sindaco di Potenza Picena, in provincia di Macerata era però finito al centro delle polemiche il 28 ottobre scorso quando partecipò a una cena ad Acquasanta Terme in occasione dell’anniversario della marcia su Roma del 28 ottobre 1922. Nella sala in quell’occasione era un tripudio di bandiere italiane marchiate con fasci littori, loghi di Fratelli d’Italia e menù con citazioni del ventennio e immagini del duce. L’allora coordinatore regionale di FdI, Carlo Ciccioli, presente all’evento insieme ad Acquaroli commentò laconicamente: “Una cena è una cena e un menu è un menu. Non sono entrambi documenti politici”. E dunque non sorprende se a sostegno di Acquaroli presidente si sia candidato a consigliere regionale proprio Carlo Ciccioli, nel tentativo forse di fare di quell’ambiente un documento politico vero e proprio.

Da Riva del Garda dove è candidato con il partito di Giorgia Meloni Matteo Negri, esponente di CasaPound e vicinissimo agli ambienti della destra più estrema, fino a Cologno Monzese dove è candidato Salvatore Giuliano, che su Facebook scrive “prima di chiedermi l’amicizia, sappi che sono fascista e odio gli islamici”, la lista di candidati nostalgici in Fratelli d’Italia sarebbe pressoché infinita. Ma il partito di Giorgia Meloni non è certo l’unico a strizzare l’occhio a certi ambienti. Per non essere da meno, la Lega a Capriano del colle sostiene la candidatura a sindaco di Stefano Sala che non solo dice di “rimpiangere il fascismo” ma propone anche di suonare per il 25 aprile al posto di ‘Bella Ciao’ l’inno delle unità d’elite del fascismo ‘Battaglioni’. E per dimostrare l’unità del centrodestra, Forza Italia a Mantova candida a consigliere il 53 enne Fabrizio Bonatti che non solo vanta un passato di militanza con il Movimento Sociale di Almirante e la Fiamma Tricolore di Rauti ma sul suo profilo Facebook ha postato un fotomontaggio che lo ritrae abbracciato a Mussolini. Un gesto “goliardico” dice lui, che comunque ci tiene a definirsi un “moderato”.

Sempre Forza Italia poi è protagonista di un altro caso simile, insieme questa volta ad un inedito alleato: Italia Viva. Forzisti e Renziani, infatti, correranno insieme a Corsico a sostegno della candidatura a sindaco del comune in provincia di Milano di Roberto Mei, iscritto al partito di centrodestra dal 1996. Proprio Mei è però finito al centro delle polemiche per una serie di post scritti tra il 2010 e il 2012 in cui inneggia ripetutamente a Mussolini ed al regime fascista. Tra citazioni del duce, video del ventennio e post contro il 25 aprile, definito “giornata di lutto nazionale”, Mei rivela le sue simpatie per l’estrema destra di cui pare molti fossero a conoscenza. “A Corsico tutti sanno che Mei ha delle simpatie fasciste” aveva infatti commentato il candidato di Rifondazione comunista, Beppe Vivone e mi ero anche premurato di avvertire i referenti locali di Iv”. Un avvertimento che, però, non ha portato alcun risultato con Mei ancora in corsa per il posto da primo cittadino.

Ma in un paese in cui tutto è possibile, nostalgici del ventennio si trovano anche nelle liste del centrosinistra. Così ad Arezzo in una lista a sostegno del candidato PD Luciano Ralli era finito anche Flavio Sisi che dal suo profilo Facebook non usava mezze parole: “Sono fascista e morirò fascista, basta ipocrisie.” si legge in un post “Il duce è il vero artefice di tutte le infrastrutture, le opere, il sociale che la sinistra si spaccia di aver realizzato”. Pronta è arrivata in questo caso l’esclusione dalla lista e lo stop alla sua candidatura anche se, a detta del candidato sindaco Ralli, “si tratta di una persona generosa e sicuramente cambiata nel tempo”.

Dagli Oscar a Berlino il cinema cambia nel segno dell’inclusione

“Lasciate che vi dica una cosa. La sola cosa che separa le donne di colore da tutte le altre è l’opportunità.
Non puoi vincere un Emmy per dei ruoli che semplicemente non ci sono.
Questo è per tutte le Taraji P. Henson, le Kerry Washington, le Halle Berry, le Nicole Beharie, le Meagan Goods.
Persone che hanno ridefinito il significato di essere belli, essere sexy.

Essere una donna al comando.Essere neri.
Grazie per averci portato oltre quella linea”
– Viola Davis, premiazione Emmy Awards 2015 –


Se visto da fuori il mondo del cinema sembra essere un posto magico in cui tutto è possibile, al suo interno nasconde discriminazioni inaccettabili per la società in cui viviamo. Molte sono emerse negli ultimi anni con movimenti che hanno fatto tremare l’intera industria dell’intrattenimento, si pensi al movimento #metoo e alle decine di attrici che hanno denunciato abusi, ma nonostante questo il mondo del cinema fatica a riformarsi per azzerare le disparità. Ma in un ambiente che sembra preferire l’inventare storie fantastiche piuttosto che confrontarsi con la realtà che lo circonda, qualcosa sta cambiando. Non tanto per il mondo del cinema in se, che rimane estremamente chiuso e troppo spesso discriminatorio, ma per quel business immenso che lo circonda: i concorsi cinematografici.

Berlino – Ad aprire le danze è stato il “Festival Internazionale del Cinema di Berlino” che ogni anno, dal 1951, attira al Berlinale Palast oltre 20.000 addetti ai lavori per l’assegnazione dell’Orso d’Oro al miglio film. L’edizione di quest’anno della rassegna, che ha visto trionfare come Sheytān vojud nadārad di Mohammad Rasoulof, potrebbe passare infatti alla storia come quella del cambiamento. Dimostrandosi al passo con i tempi l’organizzazione del Festival ha infatti deciso di eliminare dal proprio programma l’assegnazione di ben due premi.

Il primo riconoscimento a sparire è stato il “Premio Alfred Bauer” che dal 1987 era conferito a film ritenuti particolarmente innovativi e che “aprono nuove prospettive sull’arte cinematografica”. Intitolato al primo storico direttore del festival, che rimase alla guida per oltre vent’anni fino al 1976, il premio è stato soppresso a partire da questa edizione in seguito alla scoperta del passato dell’uomo. Ex soldato dell’esercito tedesco, Bauer fu infatti un funzionario di primo piano del regime nazista per il quale lavorò al Ministero della Propaganda guidato da Joseph Goebbels mettendo a disposizione della macchina propagandistica le sue conoscenze cinematografiche. La decisione, nata da un articolo su Bauer pubblicata dal settimanale “Die Zeit”, ha rappresentato un primo importantissimo gesto politico da parte della direzione del festival. “Accogliamo con favore la ricerca e la sua pubblicazione su Die Zeit” fu il commento in una nota ufficiale “e cogliamo l’occasione per iniziare una ricerca più approfondita sulla storia del Festival con il supporto di esperti esterni.” Nessuno poteva però immaginare quello che sarebbe accaduto di li a pochi mesi.

A fine agosto, infatti, l’organizzazione del festival con un annuncio storico ha aperto la strada per un cambiamento epocale. Dall’edizione del prossimo anno non saranno più assegnati gli Orsi d’Argento al miglior attore e alla miglior attrice ma un unico premio alla miglior performance. Un segnale di sensibilità e maggiore consapevolezza che abbraccia uno dei temi più dibattuti in ambito LGBTQ e più volte sollevato anche da diversi attori che non si riconoscono in un genere binario. “Crediamo che non separare i premi nel campo della recitazione in base al genere” ha sottolineato l’italiano Carlo Chatrian, direttore artistico della manifestazione “costituisca un segnale per una consapevolezza più sensibile nell’industria cinematografica”.

Oscar – Proprio le questioni di genere sono state più volte al centro delle polemiche nel più importante premio cinematografico al mondo. Da tempo ormai le attrici lamentano le discriminazioni e le disparità a cui sono costantemente sottoposte nel mondo del cinema e spesso hanno approfittato del palcoscenico più prestigioso per lanciare messaggi al mondo. Celebre ad esempio il discorso di Emma Thompson agli Oscar del 1993 quando dedicò la statuetta come miglior attrice protagonista “al coraggio delle donne, con la speranza che possa ispirare la creazione di eroine dello schermo più autentiche”. O ancora quello di Halle Barry, prima afroamericana a vincere la statuetta nel 2002, che ricordò “ogni donna di colore senza nome e senza volto che ora ha una possibilità perché questa porta è stata aperta stasera”.

Quella porta, in realtà, non si aprì del tutto. A conferma dei problemi strutturali del mondo del cinema, quella della Barry rimase infatti l’unica statuetta per una donna nera come miglior attrice tanto che negli ultimi anni ha preso vita il movimento #OscarsSoWhite che denuncia la disparità tra bianchi e neri nella notte più importante del cinema mondiale. Scorrendo l’albo d’oro di una delle statuette più ambite, quella di miglior regista, si nota ad esempio una costante: la quasi totalità dei vincitori sono uomini caucasici. Negli ultimi 20 anni una sola donna è riuscita a trionfare, Kathryn Bigelow nel 2010, e in soli due casi il premio è stato assegnato ad un non caucasico, gli asiatici Bong Joon-ho quest’anno e Ang Lee nel 2013.

Messa all’angolo dalle continue polemiche e forse incoraggiata dai cambiamenti di Berlino anche l’“Academy of Motion Picture Arts and Sciences”, che ogni anno organizza la rassegna, ha deciso di iniziare un lento e graduale cambiamento nelle modalità di assegnazione della statuetta. Nella prima esplicita azione per rispondere alle pressioni per promuovere la diversità nel mondo del cinema, l’Academy ha annunciato che a partire dal 2024 per concorrere come miglior film la pellicola dovrà rispettare alcuni standard che la rendano maggiormente inclusiva. A tal fine sono state inserite quattro categorie, di cui almeno due dovranno essere soddisfatte, relative al film, alla parte produttiva, alle opportunità lavorative offerte e al pubblico di riferimento. Per soddisfare ogni categoria sarà necessario rendere il film il più inclusivo possibile per quel che riguarda il genere, l’orientamento sessuale o la razza. Per la prima categoria, ad esempio, sarà necessario che il film abbia tra i suoi protagonisti o personaggi principali almeno un attore appartenente a “un gruppo etnico o razziale sottorappresentato” o, in alternativa, che almeno il 30% di chi recita in ruoli «secondari o minori» sia donna, appartenga a una minoranza razziale o etnica, si definisca LGBTQ+, o abbia disabilità cognitive o fisiche. Lo stesso, a grandi linee, varrà per le altre categorie rendendo così i requisiti per concorrere all’Oscar più stringenti al fine di favorire una maggior inclusione.

Venezia – Ancora nulla invece si muove sul panorama italiano. La “Mostra internazionale d’arte cinematografica” di Venezia, conclusasi ieri con il leone d’oro vinto da Nomadland, non ha per ora seguito l’esempio delle altre rassegne. Se in termini di parità di genere quest’anno si è raggiunto un record positivo con 8 donne candidate al premio come miglior regista, poi vinto dal filippino Lav Diaz, c’è una questione puramente politica che da anni accende gli animi.

In molti hanno infatti più volte chiesto un cambio di nome per il premio alla miglior interpretazione, sia maschile che femminile. La “Coppa Volpi”, uno dei simboli del Festival in laguna, è infatti intitolata a Giuseppe Volpi la cui storia ricorda quella di Alfred Bauer. Volpi, infatti, non fu solamente il fondatore della Biennale di Venezia e del Festival stesso. Fu anche e soprattutto un gerarca fascista. Da governatore in Libia affiancò Rodolfo Graziani nello sterminio della popolazione locale mentre in patria fu più volte ministro del regime e firmatario della “Dichiarazione sulla razza” del 1938 che spianò la strada all’introduzione delle leggi razziali in Italia. Fu insomma una figura di primissimo piano durante il ventennio, un uomo di dichiarata “fede” fascista, una tra le persone più vicine a Mussolini. Se è vero che in termini di inclusione la kermesse veneziana risulta essere un passo avanti rispetto ad altre rassegne rimane aperta una questione che pesa come un macigno: Come può un premio che celebra la libertà d’espressione e di pensiero essere dedicato a chi ha sposato un disegno totalitario che quei valori li ha violentemente soppressi?

SI, NO, forse: guida al referendum costituzionale

Il 20 e 21 settembre gli italiani torneranno alle urne per esprimersi su un referendum costituzionale relativo al taglio del numero di parlamentari. Sarà la quarta volta nella storia della Repubblica che gli elettori esprimeranno il proprio parere sulla modifica della Costituzione dopo il referendum del 2001 che ha portato all’approvazione della riforma del “Titolo V” e i due sulla riforma della “Parte II” respinti nel 2006 e 2016. Il tema del referendum di quest’anno sarà, tecnicamente, meno complesso poiché la riforma in questione andrebbe a modificare solamente tre articoli della Costituzione: il 56, il 57 e il 59.

Il quesito – Essendo un referendum confermativo, gli elettori dovranno decidere se approvare o meno le modifiche alla costituzione già votate dal parlamento lo scorso ottobre.

«Approvate il testo della legge costituzionale concernente “Modifiche agli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari”, approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana n. 240 del 12 ottobre 2019?»

Sarà questo dunque il teso del quesito, seguito da due riquadri: uno per il “SI” e uno per il “NO”.  A differenza dei referendum abrogativi, non è previsto alcun quorum per validarne l’esito, non esiste cioè una soglia minima di votanti al di sotto della quale la consultazione non sarebbe ritenuta valida. Quindi, a prescindere dal numero di partecipanti, la riforma sarà approvata definitivamente se ci saranno più Sì che No, mentre sarà respinta se i No saranno più dei Sì.

Il cuore della riforma è, ovviamente, la riduzione del numero dei parlamentari e proprio in tal senso sono stati modificati gli articoli 56 e 57 relativi ai numeri di deputati e senatori. L’art. 56 verrebbe modificato, se dovesse vincere il “SI”, riducendo da 630 a 400 i deputati eletti alla camera a cui si aggiungerebbero 8 e non più 12 deputati eletti nella circoscrizione Estero. Un taglio netto che non risparmia nemmeno i Senatori previsti dall’art. 57 il cui numero, se la modifica venisse approvata, scenderebbe da 315 a 200 più quattro eletti nella circoscrizione Estero contro i sei attuali. Se dovesse vincere il “SI”, insomma, il numero di parlamentari eletti a partire dalle prossime elezioni scenderebbe da 945 a 600.

Ma oltre al taglio dei parlamentari la riforma, attraverso la modifica dell’art. 59, punta anche a porre fine ad un’ambiguità circa il numero di senatori a vita che da sempre accende il dibattito tra i costituzionalisti. “Il numero complessivo dei senatori in carica nominati dal Presidente della Repubblica” si legge nel nuovo articolo “non può in alcun caso essere superiore a cinque”. Il testo attuale, per cui “il Presidente della Repubblica può nominare senatori a vita cinque cittadini”, è sempre stato controverso perché interpretabile in diversi modi. Se inizialmente l’articolo è stato letto come un divieto ad avere più di 5 senatori a vita, a partire dalla presidenza di Pertini venne visto come un vincolo per ogni Presidente della Repubblica a nominare al massimo cinque senatori a vita a prescindere da quanti già siedano in parlamento. La riforma vuole dunque sancire una volta per tutte che la prima interpretazione è quella da seguire, mettendola nero su bianco. Ma era davvero necessaria una modifica del genere? In effetti, nel complesso della riforma sul taglio dei parlamentari era necessario. Dietro questa decisione infatti vi è la consapevolezza che con una diminuzione così drastica dei senatori il peso dei senatori a vita aumenta considerevolmente. Avere più di 5 senatori a vita (più gli ex Presidenti della Repubblica che continueranno a diventarlo di diritto a fine mandato) in un parlamento composto da 200 membri eletti andrebbe ad incidere in maniera non indifferente sulla rappresentatività popolare della camera alta.

Perché SI, perché NO – Con la decisione presa martedì dalla direzione nazionale del PD di invitare i suoi elettori a votare SI al referendum assistiamo ad un sostanziale allineamento dei principali partiti a votare a favore per il taglio dei parlamentari. Ad invitare i propri elettori ad esprimersi a favore della riforma sono stati infatti, oltre ai 5 stelle che di questa riforma hanno fatto una bandiera, il Partito Democratico, la Lega e Fratelli d’Italia. Italia Viva e Forza Italia, invece, non hanno dato indicazioni di voto nonostante entrambi i leader abbiano definito “demagogica” la riforma esprimendo più di qualche perplessità sul contenuto. Schierato per il NO è invece il leader di “Liberi e Uguali” Pietro Grasso che già aveva votato contro la riforma in senato.

Le ragioni che spingono i fautori del SI al taglio dei parlamentari sono principalmente legate ai costi e all’efficienza del Parlamento al contrario chi si è espresso a favore del NO ha sottolineato come il risparmio a livello economico sia irrilevante e con il taglio dei parlamentari non solo non migliorerebbe l’efficienza del Parlamento ma si andrebbe a minare la rappresentanza.

Per quel che riguarda i costi va da sé che tagliando 315 posti da parlamentare si taglierebbero in automatico anche 315 stipendi con un conseguente risparmio per le casse dello stato. Su questo risparmio insiste in modo deciso il fronte del SI che lo ha reso punto centrale della propria campagna elettorale approfittando anche dell’incertezza sulle cifre. Infatti quanto si risparmierebbe esattamente con il taglio dei parlamentari non è facilmente calcolabile essendo i compensi variabili, tra quote base, diaria, indennità e altre voci. Ad oggi le stime più accreditate, basate sul Bilancio e tenendo conto di rimborsi vari, arrivano ad ipotizzare uno stipendio medio di 19mila euro mensili alla Camera e 21 al Senato. Tenendo buone queste stime, considerate attendibili dai principali istituti di statistica, si arriverebbe dunque ad un risparmio annuo di 53milioni di euro alla Camera e 29 al Senato. Proprio da questi dati nascono invece le ragioni del NO i cui sostenitori evidenziano come sia un risparmio irrisorio che rappresenta meno dello 0,01% delle spese statali (stimate in 662 miliardi con la legge di Bilancio 2020).

Un risparmio irrisorio che, sempre secondo chi sostiene il NO, non potrebbe in alcun modo giustificare il crollo della rappresentanza a cui esporrebbe la riforma. Considerando i numeri attuali, infatti, alla Camera siede un deputato ogni 96.000 cittadini con un tasso di rappresentanza che ci vede tra i migliori in Europa (1 ogni 116mila in Francia e Germania, 1 ogni 133mila in Spagna). Se il referendum dovesse essere approvato, sottolineano i fautori del NO, questo dato precipiterebbe ad 1 deputato ogni 156mila cittadini facendoci scivolare all’ultimo posto nell’Unione Europea. Chi sostiene il SI, però, si dice disposto a rinunciare ad una buona rappresentanza in Parlamento in cambio di una maggior efficienza delle camere sostenendo che con meno parlamentari il processo decisionale sarà più veloce e si riuscirà a legiferare più agilmente. Anche su questo, però, sono state sollevate diverse perplessità. La “lentezza” del Parlamento italiano, infatti, non è data dal numero eccessivo di parlamentari ma dal sistema bicamerale perfetto, sancito dalla costituzione, che prevede che due camere con le stesse funzioni. Ogni legge, insomma, prima di entrare in vigore rimbalza da una camera all’altra fino a quando non sono tutti d’accordo con un inevitabile allungamento dei tempi. Una situazione su cui il semplice taglio dei parlamentari senza una riforma delle camere non potrebbe influire.

Chi ha ucciso Mario Paciolla?

Il dossier sul massacro di minori, la fuga di notizie, le dimissioni di un ministro del governo colombiano e i silenzi complici dell’ONU. La morte di Mario Paciolla, cooperante italiano morto in Colombia il 15 luglio, appare sempre più come una vera e propria esecuzione. Ma cosa è successo realmente?

La vicenda di Mario Paciolla, il cooperante italiano trovato morto il 15 luglio scorso in Colombia dove lavorava per una missione dell’ONU, continua ad essere costellata di punti oscuri. Inizialmente bollata come suicidio, tesi a cui familiari e amici non hai mai creduto, la morte del 33enne sta sempre più assumendo i contorni di una vera e propria esecuzione legata, probabilmente, ad una fuga di notizie sul report a cui aveva lavorato e che aveva portato alle dimissioni del Ministro della Difesa Guillermo Botero.

Secondo quanto riportato attraverso il quotidiano colombiano “El Espectador” dalla giornalista Claudia Duque, che segue sin dall’inizio la vicenda di Paciolla, il cooperante italiano avrebbe con quel rapporto dato il via ad una crisi di governo che dura tutt’oggi. Tutto sarebbe iniziato il 29 agosto 2019 quando, intorno alle 23.00, aerei delle Forze Armate Colombiane bombardarono per diversi minuti l’accampamento di Rogelio Bolivár Córdova, detto “El Cuchu”, nei pressi di Aguas Claras. L’obiettivo del raid era la cellula dissidente delle FARC, i gruppi armati che non hanno accettato il disarmo sancito dagli Accordi di pace del 2016, ma l’operazione ebbe un esito drammatico. Nell’accampamento, infatti, non vi erano solamente gli uomini di Cordova ma anche diversi ragazzi di età compresa tra i 12 e i 17 anni arruolati con la forza dalla milizia e costretti ad un addestramento paramilitare. Diciassette ragazzi, quasi tutti minorenni, morirono così sotto le bombe dell’aviazione colombiana.

La strage di ragazzi venne nascosta dalla polizia criminale che decise di omettere l’età delle vittime da ogni rapporto ufficiale. Ma proprio quando la vicenda sembra dimenticata e insabbiata a dovere torna a galla generando un vero e proprio terremoto politico. Il 5 novembre il senatore del Partito sociale di Unità nazionale Roy Barreras chiede spiegazioni all’allora ministro della Difesa Guillermo Botero sull’uccisione dei minori e sul perché tale informazione di interesse nazionale non fosse stata comunicata al popolo colombiano. È la goccia che fa traboccare il vaso: il ministro della difesa è costretto alle dimissioni mentre in tutto il paese milioni di persone iniziano a scendere in piazza per protestare contro il governo.

Ma cosa c’entra il report di Paciolla in questa storia? Immediatamente dopo i fatti del 29 agosto, l’ONU aveva incaricato il cooperante italiano ed altri colleghi di “verificare le circostanze del bombardamento” e di redigere un rapporto completo su quegli avvenimenti. Per la prima volta, insomma, qualcuno mise nero su bianco quello che la polizia e il governo avevano cercato di occultare così attentamente. Secondo alcune indiscrezioni il rapporto, a differenze di quanto sarebbe dovuto accadere, non rimase strettamente confidenziale: Raúl Rosende, responsabile ONU regionale, consegnò il documento a Barreras. Il politico venne dunque così a conoscenza di quel che accadde ad Aguas Claras e su quel report basò l’invettiva che portò alle dimissioni di Botero. Pur se smentita fermamente da Barreras, questa ricostruzione sembra essere coerente con le paure confidate da Mario Paciolla ad amici e familiari nei mesi successivi. Si sentiva in pericolo, tradito, usato, e arrabbiato con i suoi superiori, al punto da chiedere un trasferimento ad altra sede, mai ottenuto. Dopo il 5 novembre una serie di attacchi informatici lo avevano convinto a rimuovere tutti i suoi profili social per non esporre i suoi dati personali a rischi ulteriori. Non era bastato. Negli ultimi mesi aveva confidato agli amici di sentirsi osservato, seguito, spiato. “Voglio dimenticare per sempre la Colombia, non è più sicura per me.” aveva detto “Non voglio più mettere piede in questo paese o all’Onu. Ho chiesto un cambiamento qualche tempo fa e non me l’hanno dato. Voglio una vita nuova, lontano da tutto.”

Dietro la morte di Mario Paciolla, dunque, ci sarebbe una fuga di notizie. La diffusione di informazioni riservate avrebbe esposto il giovane cooperante italiano a rischi sempre maggiori fino alla tragica morte avvenuta il 15 luglio. È un primo pezzo di un puzzle che appare complicatissimo e con troppi pezzi ancora mancanti per poter mostrare la sua figura. Da alcune indagini, infatti, è emerso chiaramente come l’atteggiamento dell’Onu sia stato tutt’altro collaborativo nei giorni immediatamente successivi l’omicidio di Paciolla. Se da alcune settimane si sapeva della mail inviata dalle Nazioni Unite alle 400 persone impegnate in Colombia per chiedere loro massima riservatezza sul caso ed alimentando così un clima di omertà, un nuovo punto interrogativo ruota intorno alla figura di Christian Leonardo Thompson, contractor americano incaricato dall’Onu della sicurezza del campo dove si trovava Mario. Stando a quanto emerso dalle indagini della Procura di Roma sarebbe stato lui il primo a giungere sulla scena del crimine. Sarebbe stato lui a ripulirla e a sottrarre alcuni oggetti poi ricomparsi, come per magia, nella sede delle Nazioni Unite a Bogotà. Perché lo ha fatto e su ordine di chi ancora non è possibile saperlo. Rimane uno dei tanti, troppi, punti interrogativi che circondano la morte di un ragazzo di 33 anni.