Monthly Archives: novembre 2019

Questo non è amore

A chi trova se stesso nel proprio coraggio
A chi nasce ogni giorno e comincia il suo viaggio
A chi lotta da sempre e sopporta il dolore,
Qui nessuno è diverso, nessuno è migliore.
A chi ha perso tutto e riparte da zero
Perché niente finisce quando vivi davvero.
A chi resta da solo, abbracciato al silenzio
A chi dona l’amore che ha dentro
-Fiorella Mannoia-


 
 
L’Italia non è un paese per donne, lo dicono i numeri. Dal 2000 ad oggi sono state oltre 3.200 le vittime di femminicidio in Italia, 94 solamente nei primi 10 mesi di quest’anno: ogni 72 ore, nel nostro paese, una donna viene uccisa in contesti familiari o amorosi. Ma il femminicidio non è che l’immagine più drastica e drammatica di un fenomeno più ampio e sommerso fatto di abusi e prepotenze. Si tratta di una vera e propria emergenza che coinvolge tutto il paese, dalla Valle d’Aosta alla Sicilia.
 
Non è amore – La Polizia di Stato ha pubblicato il rapporto “Questo non è amore” con cui dal 2016, in occasione della Giornata mondiale contro la violenza sulle donne, diffonde i dati relativi alla violenza di genere in Italia. Dati che non sono per nulla incoraggianti e che confermano una situazione estremamente grave: ogni giorno 88 donne sono vittime di violenza, una ogni 15 minuti. Dati agghiaccianti che lasciano basiti e attoniti, incapaci di capirne il motivo. Un vero e proprio bollettino di guerra in cui, nel 61% dei casi, il carnefice è l’ex partner della vittima. E mentre la politica grida all’invasione e alla violenza portata dagli stranieri, i dati diffusi dalla polizia tracciano un quadro totalmente diverso dalla retorica elettorale: il 74% delle violenze è fatta da uomini italiani, nati e cresciuti nel nostro paese. Una realtà dunque ben diversa da quella sbandierata ai fini del consenso da qualche politico in perenne campagna elettorale, una realtà che va presa seriamente e compresa a fondo per poterla contrastare.
 
Oltre alle violenze, però, c’è anche un gesto ancora più estremo. L’espressione femminicidio, coniata di recente per eliminare il termine “omicidio passionale” che quasi giustificava l’aggressore, può essere attribuita ai soli casi di commissione di un atto criminale estremo che porti all’omicidio, perpetrato in danno della donna “in ragione proprio del suo genere”. Negli ultimi 10 anni, infatti, i casi di femminicidio sono rimasti pressoché stabili ma quello che sembrerebbe essere un dato positivo diventa ancor più sinistro a fronte del fatto che, nello stesso periodo, gli omicidi con vittime di sesso maschile sono diminuiti del 50 per cento. Come per le violenze, anche nel caso estremo del femminicidio il responsabile è la persona che dice di amare. Nel 60% dei casi l’omicidio è commesso dal partner o dall’ex partner, uomini con un’idea malata di amore accecati da una gelosia incontrollabili ed incapaci di accettare le decisioni prese dalla partner.
 
Ma in quello che appare come un quadro sempre più drammatico e preoccupante arriva, da questi dati, un piccolo barlume di speranza. Una nuova consapevolezza e determinazione delle donne. Una maggiore coscienza dei delitti subiti, una rinnovata propensione e fiducia nel denunciare quanto accaduto. Crescono infatti le donne che hanno il coraggio e la forza di dire basta alle violenze e di denunciare i loro carnefici alle forze dell’ordine.
 
Codice rosso – Una nuova forza che deriva, probabilmente, anche dalla presa di posizione del legislatore nel nostro paese.  A partire dal 1996 sono stati numerosi, infatti, gli interventi legislativi in materia di violenza di genere volti a contrastare quello che è un problema “per le donne” ma non può rimanere solo un problema “delle donne”. Se inizialmente la fattispecie di reato comprendeva principalmente la violenza sessuale, l’evoluzione normativa ha seguito con qualche ritardo l’evoluzione del fenomeno fino ad arrivare ad una legge articolata e più complessa che include le varie sfaccettature del fenomeno. Nell’agosto di quest’anno si è giunti, con 197 sì e 47 astenuti, all’approvazione della legge 69/2019, la cosiddetta legge “Codice Rosso”, che prevede importanti modifiche ed inasprimenti di pena.
 
Tra le novità più importanti, è previsto una velocizzazione per l’avvio del procedimento penale per alcuni reati tra cui i maltrattamenti in famiglia, stalking e violenza sessuale, con l’effetto che saranno adottati più celermente eventuali provvedimenti di protezione delle vittime. La legge prevede, infatti, che i pubblici ministeri ascoltino chi ha presentato una denuncia per maltrattamenti o violenza in famiglia entro massimo tre giorni dall’iscrizione della notizia di reato, che avviene nel momento stesso in cui una persona si presenta alla polizia. Se i magistrati dovessero confermare le violenze hanno la possibilità di condannare il responsabile a una pena detentiva tra i tre e i sette anni con la possibilità di aumentare del 50% la pena se il reato viene compiuto in presenza di un bambino, un disabile o se l’aggressione è stata armata.
 
Con la nuova legge sono inoltre state aggiunte 4 fattispecie di reato. La prima, e più innovativa, è quella che riguarda il cosiddetto “revenge porn”, ovvero la pubblicazione e diffusione di materiale privato con contenuto sessualmente esplicito senza il consenso della persona ritratta. Un meccanismo crudele che spesso scatta dopo una rottura provocando inestimabili danni all’altro soggetto, solitamente donna. Come è accaduto nel caso, tristemente noto, di Tiziana Cantone, ragazza napoletana che si tolse la vita nel 2016 dopo che il proprio ex fidanzato aveva diffuso online un filmato privato a sfondo sessuale che la ritraeva. Le pene sono, anche in questo caso, severe e prevedono la reclusione per un minimo di un anno fino a un massimo di 6. Il legislatore ha inoltre previsto ammende anche per chi contribuisca alla diffusione del video ricaricandolo o condividendolo ed un aumento della pena se il responsabile è il coniuge o l’ex partner. Proprio la mamma di Tiziana aveva accolto entusiasta questa modifica del codice: “mi piace pensare” aveva detto “che Tiziana in questo momento ovunque si trovi stia sorridendo”.
 
Tra le altre innovazioni introdotte con il “codice rosso” vi è la previsione di pene severe per chi sfregia una persona sul viso deformandone l’aspetto come nei casi, purtroppo noti alle cronache, di aggressioni con l’acido. Se la vittima sopravvive all’aggressione, il responsabile può essere punito con la reclusione da 8 a quattordici anni. Se la vittima dovesse perdere la vita, invece, la pena è l’ergastolo. Una posizione forte e decisa quella del governo su questo tema che però ha sollevato alcune perplessità tra cui quella di Lucia Annibali. La donna, sfregiata con l’acido su ordine del compagno e ora deputata del gruppo “Italia Viva”, ha lamentato i limiti di questo provvedimento: “sul piano della tecnica normativa” ha commentato in un’intervista “sembra si dica che alcuni tipi di lesioni sono più importanti di altri che magari hanno una eco mediatica inferiore e dunque vengono considerati meno rilevanti”.
 
25 novembre – La violenza di genere è, con interventi più o meno riusciti, sempre più al centro del dibattito politico e mediatico e, allo stesso modo, deve essere un tema centrale per l’intera società. Dal 1999 le Nazioni Unite hanno istituito per il 25 novembre la “Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne” nel tentativo di sensibilizzare e formare i cittadini di tutto il mondo al rispetto di ogni donna. Una ricorrenza di cui, oggi più che mai, abbiamo bisogno. Una ricorrenza che, però, non può finire il 25 novembre ma deve necessariamente continuare anche nei 364 giorni successivi. La violenza sulle donne è infatti una piaga profondissima e più che mai attuale della nostra società e non può bastare la solidarietà di un giorno a fermarla. Serve una piena e profonda presa di coscienza del fenomeno, una vera e propria rivoluzione culturale che tolga per sempre dalla testa di qualche “uomo” la sua superiorità rispetto alla partner. Ben vengano certo le panchine rosse in memoria delle vittime, ben vengano i cortei e i flash mob, ben vengano le mostre e tutte le altre iniziative che in questi giorni riempiono l’Italia. Ma non possiamo permetterci di ridurre il tutto ad una solidarietà a gettone. Una solidarietà da attivare solo in occasione di una ricorrenza e poi riporre in un cassettino della nostra mente in attesa del 25 novembre successivo o di un fatto di cronaca eclatante. Facciamo di questo 25 novembre una base su cui costruire il futuro di questo paese. Un futuro in cui nessuno debba più subire violenze per il suo essere donna. Perché sia ogni giorno il 25 novembre. Fino a quando, finalmente, non ci sarà più bisogno di un altro 25 novembre.

Leader a caccia di like: la politica ai tempi dei social


“Scegli Facebook, Twitter, Snapchat, Instagram e mille altri modi
per vomitare la tua bile contro persone mai incontrate.
Scegli di aggiornare il tuo profilo, dì al mondo cos’hai mangiato a
colazione,spera che a qualcuno da qualche parte freghi qualcosa.”
-T2 Trainspotting-


 
Che la politica si evolva inseguendo e sfruttando i nuovi media non è certo una novità, come non è una novità che in questa corsa alla colonizzazione dei nuovi mezzi di informazione qualcuno sia più svelto degli altri a capirli e a saperli usare a proprio vantaggio. Il primo fenomeno social, se così si può definire, fu addirittura Franklin Delano Roosevelt. Era il 1933 e il trentaduesimo presidente degli Stati Uniti riuscì a sfruttare come nessuno mai aveva fatto prima la radio come strumento politico e di propaganda. Le sue “Fireside Chat” (chiacchiere dal caminetto) lo fecero entrare nelle case degli americani a cui, in modo informale, spiegò le sue politiche e le decisioni prese anche nei momenti più drammatici. Le sue capacità comunicative e la sua capacità di infondere sicurezza anche durante le fasi più critiche della sua presidenza ne fecero aumentare in modo esponenziale la popolarità. Oggi, a quasi 90 anni dal primo discorso dal caminetto, la presenza politica sui social è asfissiante ma, seppur con toni profondamente diversi, è ancora finalizzata al consenso.
 
I numeri – I media, però, bisogna saperli usare altrimenti si rischia di ottenere l’effetto opposto. In Italia la caccia all’elettorato si fa sui social con politici influencer che sembrano cercare i like più dei voti. A farla da padrone è, senza dubbio, il centro-destra che proprio dai social sta traendo una forza politica impressionante. Ma se la presenza della Lega è cosa nota, con il leader del carroccio Matteo Salvini che da tempo spopola su Facebook, le recenti analisi di “YouTrend” evidenziano una crescita importante per l’alleato Fratelli d’Italia. Giorgia Meloni è, secondo i dati diffusi dal sito, la politica italiana ad aver avuto la maggior crescita dalla nascita del governo “Conte II” ad oggi. Uno stile comunicativo semplice, efficace e che punta alla pancia dell’elettorato di riferimento sono stati fattori di successo della leader di quello che, ad oggi, si attesta come il secondo partito per il centrodestra. “Il governo dell’inciucio”, “il governo più anti italiano della storia”, inviti a scendere in piazza ed evocazione delle urne. È semplice, lineare e coerente nella sua opposizione al governo sia esso gialloverde o giallorosso. Per questo piace. Piace sui social e piace, anzi piacerebbe, alle urne: alla crescita su Facebook infatti è corrisposta una crescita, più o meno proporzionale nel consenso che è passato dal 6,9% di settembre al 9,5% attuale (dati SWG).

 

 
La segue a ruota Matteo Salvini cresciuto dall’inizio del Conte bis sia sul web (+14% di follower) che nei sondaggi (+ 1%).  Il nuovo ruolo di guida dell’opposizione ha dato al leader del carroccio l’opportunità, sia di rafforzare la comunicazione su vecchi temi come sicurezza e immigrazione, sia di cavalcare l’onda delle critiche al “governo delle poltrone”, come lo definisce sui suoi profili. Per numero di post pubblicati, però, Salvini non è secondo a nessuno e con una media di 19 al giorno (la Meloni è seconda con 9) punta a saturare la scena ed essere onnipresente, pubblicando aggiornamenti ininterrotti su ogni aspetto della sua vita pubblica e privata. Una copertura 24 ore su 24 portata avanti grazie ad un team di 35 esperti digitali che curano ogni dettaglio della presenza social del leader Leghista ben consapevoli di come anche abbracciare un ulivo possa portare voti. È, in tal senso, l’emblema della politica che attraverso i social cerca di abbassarsi al livello dell’elettorato. Lo dimostrano le parole usate sapientemente e mai a caso nei post, quell’“amici” tipico del leader leghista è infatti la parola più ripetuta (313 volte in 1181 post) a testimonianza di come Salvini punti sul rafforzare una sorta di legame anche affettivo tra i suoi elettori e la sua immagine. Una strategia di abbassamento della politica per provare a risultare il più vicino e simile possibile al proprio elettorato, per mostrarsi empatico e lanciare un messaggio chiaro: sono come voi, dunque vi capisco meglio di altri.
 
Ma se le opposizioni crescono, gli alleati di governo calano. Di Maio e Conte, massimi esponenti dell’area a cinque stelle, sono gli unici due leader politici ad aver perso follower dall’inizio del “Conte II”. Quasi 24mila in meno per il Ministro degli Esteri, guida politica del Movimento, e circa 6mila persi dal Presidente del Consiglio. Un calo sostanzioso, come sostanziosa è anche la perdita dei voti secondo i sondaggi: quasi 6 i punti percentuali persi passando dal 21,4% di settembre al 15,8% attuale. Mentre per Conte la perdita di follower può essere fisiologica e legata alla fine del governo precedente e al cambio di alleanza, Di Maio sembra pagare l’abbandono di uno dei temi fondanti della sua comunicazione. L’alleanza di governo con il PD, infatti, impedisce al leader 5 stelle di scagliarsi contro quello che era stato il bersaglio principale della sua presenza social. Se un tempo tuonava scagliandosi contro “il partito di Bibbiano” ora ha abbassato i toni rientrando in una cornice più istituzionale senza però riuscire a trovare temi precisi. Come fatica a trovare contenuti chiave e messaggi precisi, sui social come sulla scena politica, Nicola Zingaretti che cresce di poco sui social (+5mila follower) ma cala nei sondaggi (-2,5%). Il leader del centrosinistra è l’unico, dunque, che cresce da una parte ma cala dall’altra come a raffigurare la confusione che regna nella sua area di riferimento.

 

 
I contenuti – Ma dietro i numeri ci sono, ovviamente, persone. E se l’analisi del traffico generato dai politici può essere utile per misurarne il gradimento, l’analisi delle attività dei follower può invece fornire un identikit dell’elettore tipo dei vari leader. In una recente ricerca Matteo Flora, docente di “Corporate Reputation e Storytelling” presso la Facoltà di Economia dell’Università di Pavia, ha provato ad analizzare i contenuti condivisi dai follower dei principali capi politici. Obiettivo della ricerca era analizzare la correlazione tra diffusione di fake news ed elettori di alcune forze politiche piuttosto che altre. La correlazione però, sembra essere più debole del previsto. Un elemento critico però sembra emergere chiaramente: tra i primi 30 siti di informazione condivisi vi sono due siti che producono disinformazione. Si tratta di Voxnews, gestito da uno xenofobo e suprematista bianco italiano, e ImolaOggi che avrebbero una diffusione social maggiore rispetto a quotidiani nazionali come “la Stampa” o “il Giornale”. Quel che sorprende ancor di più e rende critica la situazione è che la condivisone di questi contenuti non è un’esclusiva dei follower di Salvini e Meloni. Pur essendo i due leader del centrodestra quelli con i seguaci più attivi nella pubblicazione di contenuti da questi siti, si riscontra un’attività simile anche nei follower degli altri leader anche se con numeri nettamente minori (115 mila le condivisioni dei follower di Salvini contro le 6mila di quelli di Zingaretti). Ciò rende trasversale e non polarizzato un fenomeno sempre più diffuso e preoccupante.

 

 
Dati altrettanto preoccupanti arrivano anche dall’analisi dei contenuti esteri da cui emerge chiaramente una prevalenza, questa vota assoluta, dei follower del centrodestra. In pima posizione si trova il sito di estrema destra Breitbart condiviso quasi esclusivamente dai seguaci di Salvini così come accade per i siti russi Sputnik e RT e per il sito complottista e filo trumpiano “The Gateway Pundit” secondo solo a YouTube per numero di condivisioni da parte di follower leghisti. La tendenza a condividere contenuti stranieri sembra sottolineare una diffidenza da parte degli elettori dei quell’area politica nei confronti del giornalismo italiano, costantemente attaccato e denigrato dei leader politici di riferimento. Ed infatti la diffusione dei quotidiani italiani è appannaggio dei follower del centrosinistra (se così si può definire) e spicca la presenza de “la Repubblica”, primo tra i contenuti condivisi dai seguaci di Zingaretti e Cirinnà, secondo tra quelli di Renzi, Boldrini e Conte.
 
Una costante però, sia a destra che a “sinistra”, emerge chiaramente. Nei primi due posti tra i contenuti condivisi c’è, per tutti e 8 i politici considerati dalla ricerca, YouTube. La presenza del portale video più famoso al mondo evidenzia una preferenza chiara da parte dei seguaci di tutte le forze politiche per i contenuti prodotti direttamente dall’utente in una sorta di giornalismo diretto e senza filtri che rimbalza da un soggetto all’altro.
 
 

 

Tik Tok – Proprio a proposito di video, musicali in questo caso, Matteo Salvini è sbarcato su Tik Tok. È il primo politico italiano a sbarcare sulla nuova piazza virtuale che tanto piace agli under 18. Un social network nato per i millennials che permette di condividere brevi video aggiungendo musica, effetti sonori e filtri. È l’assalto di Salvini ai giovanissimi, a quei sedicenni a cui vorrebbe dare il voto e a tutti quelli che tra un anno o due saranno maggiorenni e potranno votare per davvero. Nel social che crea tormentoni, dove spopola il remix delle urla della Meloni in “io sono Giorgia”, Salvini punta a lasciare da parte i contenuti per fare dell’intrattenimento lo strumento principale per raggiungere i giovanissimi e “convertirli” alla sua causa. Come inizio, certo, poteva andare meglio. Pochi i follower e tante le critiche da parte di quei millennials che vogliono proteggere la loro nuova piattaforma dalle incursioni della politica. ma c’è anche chi, un po’ scherzando, gli promette voto: “se inizia a fare balletti a cadenza settimanale” ha scritto qualcuno “giuro che appena ne avrò l’età voterò per te e per la lega.” Non resta che aspettare, chissà che un giorno ci troveremo il leader leghista a ballare su una base trap. Tanto il trend sembra proprio quello. Come conferma il tormentone della Meloni, nel bene o nel male, l’importante è che se ne parli. E se ne canti.

 

Il punto su Hong Kong

Il movimento, nato pacifico, sta diventando sempre più violento e radicale in risposta agli abusi della polizia. Il ritiro della legge sull’estradizione non ha placato le proteste che da ventiquattro settimane scuotono l’ex colonia britannica e gli Hongkongers non sembrano intenzionati a fare passi indietro mentre lo spettro di una nuova Tienanmen incombe.
9 giugno 2019. A tre giorni dalla discussione in parlamento della legge sull’estradizione voluta dalla governatrice Carrie Lam, il ‘Fronte per i diritti umani’ convoca una marcia di 3km per esprimere il proprio disappunto sul provvedimento. La manifestazione è un successo. Oltre un milione di persone si riversa per le strade di Hong Kong sfilando pacificamente da Victoria Park fino al LegCo, il palazzo governativo. È l’inzio di un movimento di protesta che, da quel momento, non si è più fermato arrivando alla 24° settimana consecutiva di proteste. Un movimento nato pacifico, trasversale ed immenso in grado di portare in piazza due milioni di persone (due volte la popolazione totale di Napoli, per intenderci) nel pomeriggio del 16 giugno. Un movimento che, però, con il passare delle settimane è diventato sempre più violento e deciso e di conseguenza meno partecipato e condiviso da chi quella violenza l’ha sempre rifiutata.
Con il passare delle settimane sono cambiate anche le richieste dei manifestanti al governo. L’Extradition Bill, la controversa legge che aveva dato il via alle manifestazioni, è stata prima sospesa e poi ritirata definitivamente dalla governatrice Carrie Lam. Un gesto di debolezza da parte della Chief Eecutive che, oltre ad averne minato in parte la credibilità agli occhi di Pechino, non ha sortito l’effetto sperato. Le proteste infatti non si sono fermate e i manifestanti hanno ribadito con forza lo slogan che li accompagna da ormai 6 mesi: “5 demands, not one less”. Cinque domande. Cinque richieste al governo e nessuna intenzione di rinunciare a nessuna di queste: il ritiro, già ottenuto della legge sull’estradizione; il rilascio di tutti i manifestanti arrestati; le dimissioni di Carrie Lam; il suffragio universale per l’elezione del consiglio legislativo e dello Chief Executive; l’istituzione di una commissione indipendente sulle violenze della polizia.
Proprio la polizia è infatti finita in questi mesi al centro delle polemiche. La repressione messa in atto dalle forze dell’ordine è stata in varie occasioni brutale e spropositata ed ha contribuito a radicalizzare e rendere più violento anche il movimento nato pacificamente. Una spirale di violenza in cui gli abusi della polizia hanno causato gli assalti sempre più duri da parte dei manifestanti innescando un infinito circolo vizioso. Se in questi mesi abbiamo assistito ad episodi estremi da entrambi gli schieramenti (dall’occupazione del LegCo, alle cariche indiscriminate in luoghi chiusi) il culmine lo si è raggiunto lunedì mattina. Alle prime luci dell’alba, infatti, un agente ha colpito con tre colpi di pistola a bruciapelo un manifestante disarmato che ora versa in condizioni critiche in ospedale. La reazione dei manifestanti è stata violentissima. La città è stata messa a ferro e fuoco ed un cittadino cinese, che si era avvicinato per provocarli, è stato cosparso di liquido infiammabile e dato alle fiamme. La rabbia dei manifestanti e gli abusi della polizia hanno contribuito a ridurre la partecipazione che, se inizialmente vedeva la partecipazione di 2/3 della popolazione, ora è limitata a circa 100/200 mila persone. Numeri altissimi, certo, ma non paragonabili alla marea umana che fino a metà luglio riempiva la città ogni weekend.
Ma nonostante i numeri parzialmente ridotti, la città è sotto scacco. Dopo le violenze di lunedì, i manifestanti hanno deciso di rimanere in piazza dando vita a quello che, di fatto, è il più lungo scontro con la polizia dall’inizio delle proteste. Tre giorni ininterrotti di tumulti e guerriglia urbana stanno paralizzando Hong Kong. I manifestanti hanno preso di mira semafori e stazioni della metro paralizzando di fatto il traffico in gran parte della città. Si stima che circa 200 semafori siano stati divelti o danneggiati e gli incroci stradali bloccati con barricate improvvisate mentre gli scontri più violenti si registrano nella zona dell’Università Cinese di Hong Kong. Le forze dell’ordine da lunedì sera sono schierate in tenuta antisommossa intorno al Campus occupato dai manifestanti e hanno ripetutamente tentato di liberarlo con gas lacrimogeni e proiettili di gomma. A nulla è servita la mediazione dei vertici dell’Università che hanno chiesto alle forze dell’ordine di non entrare negli spazi dell’ateneo dove, invece, da giorni va in scena una vera e propria battaglia in cui sono comparsi anche archi e frecce infuocate. Secondo i dati diffusi dalla polizia nella sola giornata di lunedì gli scontri avrebbero interessato 50 aree della città e avrebbero portato all’arresto di 287 persone (e altre 150 nella giornata martedì) e all’utilizzo di 255 candelotti lacrimogeni, 90 granate in spugna e 204 proiettili di gomma. La città è nel caos totale, la polizia fatica a muoversi in città e sedare le proteste per via dei blocchi stradali, gli studenti cinesi sono stati evacuati con una nave militare e il governo condanna le violenze ma non riesce a fermarle. Una situazione ormai fuori controllo che sta evidenziando tutti i limiti di Carrie Lam, sempre più incapace di riportare l’ordine in citta.
Proprio la Chief Executive è stata al centro di diversi rumors circa un piano, smentito da Pechino, per costringerla alle dimissioni e sostituirla a inizio 2020 dopo aver sedato le proteste con la forza. Una serie di decisioni e dichiarazioni controverse e, per certi versi incomprensibili, prese dalla governatrice hanno infatti contribuito ad alimentare le proteste invece di sedarle. Dalla sospensione dell’Extradition Bill al divieto di indossare maschere, dal supporto totale alla violenza delle forze dell’ordine all’accusa di egoismo ai manifestanti che paralizzano la città: Carrie Lam sta gettando benzina sulle fiamme che da 7 mesi bruciano Hong Kong. Un atteggiamento certo non gradito a Pechino che vede nelle proteste una sfida al suo nazionalismo e non può tollerarle ancora a lungo mentre le democrazie di tutto il mondo guardano con soddisfazione l’assalto degli Hongkongers all’autoritarismo del potente vicino.  Una situazione critica in cui la Cina starebbe meditando di agire in prima persona. Se da tempo, infatti, infatti si vocifera di un possibile intervento dell’esercito cinese per ripristinare l’ordine, le nuove violenze potrebbero portare il governo a prendere una decisione drastica e irreversibile. A lanciare l’avvertimento è stato il “Global Times”, giornale cinese vicino al governo, che ha paragonato i manifestanti all’ISIS e ha ricordato come “l’Esercito Popolare Cinese può entrare ad Hong Kong e riportare la calma”.
Mentre Hong Kong brucia ed affronta la prima recessione da 10 anni a causa delle proteste che ne hanno paralizzato l’economia la Cina resta alla finestra. Ma la sensazione è che non tollererà ancora a lungo tutto questo. Ora più che mai, lo spettro di una nuova Tienanmen incombe sull’ex colonia britannica.

Un calcio al razzismo: tra immobilismo e indignazione a metà

“Mi scusi Presidente
ma ho in mente il fanatismo
delle camicie nere
al tempo del fascismo.
Da cui un bel giorno nacque
questa democrazia
che a farle i complimenti
ci vuole fantasia.”
– Giorgio Gaber –
Verona, 3 novembre 2019. Nel secondo tempo dalla curva dell’Hellas Verona partono ululati razzisti verso l’attaccante bresciano Mario Balotelli. Il giocatore non ci sta. Raccoglie la palla e la scaglia in tribuna costringendo l’arbitro ad interrompere la partita per diversi minuti. La reazione di Balotelli, da molti considerata spropositata, è il grido disperato di un campione che non può più tollerare certi episodi. Un gesto che ha riacceso i riflettori su uno dei problemi più taciuti del calcio italiano e non solo: il razzismo negli stadi.
Italia – In Italia, nel calcio e non solo, è emergenza razzismo. Lo ha evidenziato a inizio campionato anche il presidente della FIFA Gianni Infantino sottolineando come “in Italia la situazione del razzismo non è migliorata e questo è grave”. Si tratta di un problema reale e sempre più preoccupante perché ormai diffuso in ogni categoria, anche quelle in cui il calcio dovrebbe essere divertimento e veicolo di valori positivi. Come tra i “pulcini”, classe 2009, che a 10 anni già corrono dietro un pallone con un tifo spesso troppo estremo da parte dei genitori in tribuna. Così a Desio, provincia di Milano, durante la partita tra la Aurora Desio e la Sovicese dagli spalti una mamma ha iniziato a rivolgere insulti razzisti nei confronti di un bambino. “Negro di merda”. Proprio così. Senza se e senza ma. Senza pudore. Senza senso. E se sono le madri le prime pronte ad insultare dei bambini discriminando con parole d’odio, è evidente che esita un problema culturale che va combattuto con l’educazione e l’istruzione. Il caso di domenica scorsa non è dunque che la punta di un iceberg gigantesco, il caso diventato emblematico di un problema che torna a galla sono in relazione ad episodi estremi. Parole di condanna si susseguono da più parti ad ogni nuovo ululato che interrompe le partite. Parole a cui, troppo spesso, non seguono fatti.
Ne è esempio plastico l’Hellas verona. Non è la prima volta che la società finisce al centro delle polemiche: il 15 settembre durante Verona Milan il Bentegodi copre di fischi l’ivoriano Kessie e il campano Donnarumma. Il giorno dopo piovono comunicati di condanna, squadre, giocatori, esperti e federazione sono tutti concordi nel definire inaccettabili i fischi. Tutti tranne la società veronese che, tramite il suo account Twitter, minimizza la faccenda: “I ‘buuu’ a Kessie? I fischi a Donnarumma? Forse qualcuno è rimasto frastornato dai decibel del nostro tifo”. E ancora condanne e richieste di scuse, mai arrivate, alla società gialloblù. Ma a quell’episodio non sono seguiti provvedimenti e, nel giro di qualche settimana, è calato il silenzio sul razzismo al Bentegodi. Fino ad una settimana fa. Fino a quel gesto di Balotelli che ha spezzato la solita catena fatta di ululati, condanne, minimizzazione e poi silenzio. Un elemento preoccupante, però, è dato dalle dichiarazioni post partita con cui ancora una volta il Verona ha minimizzato i fatti: “Non facciamo un caso dove non c’è.” ha detto l’allenatore Juric “non ci sono stati cori ai suoi danni”. Ma il gesto di Balotelli ha interrotto, come si è detto, quel circolo a cui eravamo soliti assistere. Il clamore mediatico della vicenda ha portato il Verona all’inevitabile decisione di punire con il divieto di entrare allo stadio fino al 2030 Luca Castellini. Leader della formazione veneta di Forza Nuova e della curva gialloblù, Castellini aveva commentato la vicenda rincarando la dose ed affermando che “anche se ha la cittadinanza, Balotelli non sarà mai del tutto italiano”. Una decisione che, seppur inevitabile visto il tenore delle dichiarazioni e la copertura mediatica che hanno avuto, è un piccolo passo avanti nel panorama calcistico italiano. Un enorme passo avanti, però, per il contesto veronese.
Regolamento – In Italia appare dunque sempre più evidente come in assenza di casi eclatanti nulla si muova. Basti pensare che l’attuale regolamento federale che disciplina i casi di razzismo è stato perfezionato solo sull’onda degli ululati razzisti rivolti dalla curva interista ai danni del giocatore del Napoli Koulibaly nella partita del 26 dicembre scorso. In un ambiente già teso per gli scontri che nel prepartita avevano portato alla morte dell’ultras Daniele Belardinelli, la tifoseria organizzata nerazzurra aveva ripetutamente intonato il verso della scimmia nei confronti del giocatore senegalese. L’ennesimo episodio, in un campionato già costellato di fischi e ululati indirizzati a giocatori di colore, convinse la federazione ad operare una serie di modifiche al regolamento per snellire le procedure da seguire in caso di situazioni simili. Le norme del campionato italiano, in linea con i protocolli internazionali, prevedono che in caso di cori discriminatori l’arbitro possa sospendere la partita per qualche minuto e successivamente interromperla, se i cori dovessero continuare. Nessuna importanza ricopre, ai fini della sospensione, il numero di tifosi coinvolti ma solo se il coro è udibile in modo distinto dal direttore di gara o dal responsabile dell’ordine pubblico. Una volta fermata la partita è l’arbitro a gestire in maniera insindacabile la fase sospensiva decidendo se far rientrare o meno i giocatori negli spogliatoi e se e quando far riprendere la partita. Superati i 45’ di sospensione, però, il direttore di gara ha l’obbligo di dichiarare definitivamente sospesa la partita ed avvisare gli organi di Giustizia Sportiva. Ma è proprio la giustizia sportiva a rappresentare l’anello debole del meccanismo pensato dalla FIGC. Gli organi preposti possono infatti intervenire su segnalazione dell’arbitro e delle autorità in caso di cori discriminatori durante la gara o in caso di sospensione ma solo contro soggetti tesserati. Non vi è dunque la possibilità di colpire direttamente i singoli tifosi responsabili, lasciata in capo alla giustizia penale ed alle singole società. Il giudice si rifà dunque sul club o sull’intero settore con multe o chiusure totali o parziali dello stadio per le partite successive.
La giustizia ordinaria è dunque l’unico ambito in cui le discriminazioni vengono punite adeguatamente e nello specifico: caso per caso, spettatore per spettatore. Chi viene identificato incorre in una denuncia corredata dal cosiddetto DASPO, il divieto di accedere alle manifestazioni sportive. Ma nulla può contro le condotte incivili e aggressive, o per i casi di razzismo meno evidenti e più controversi, insomma tutto quello che non costituisce reato può essere trattato soltanto dai club. E in Italia, raramente i club prendono posizioni così nette e, purtroppo, impopolari tra i tifosi. Punire i responsabili vorrebbe dire allontanare i propri “tifosi” dallo stadio, magari inimicandosi quell’oscuro e turbolento mondo del tifo organizzato.
Mondo Ultras – Sono proprio i gruppi organizzati a far riecheggiare, il più delle volte, nel loro settore fischi ululati e cori discriminatori. Forti di un radicamento decennale, i gruppi ultras comandano interi settori che nel tempo sono diventate vere e proprie zone franche dentro lo stadio in cui i capi delle tifoserie organizzate dettano legge. La loro forza e sicurezza è tale da tenere letteralmente in scacco le società. Accade, ad esempio, a Torino dove i tifosi della Juventus, come accertato dall’inchiesta “Alto Piemonte”, utilizzano i cori discriminatori come arma di ricatto per avanzare pretese sui biglietti omaggio. Con uno schema molto semplice, i principali gruppi ultras pretendono dalla dirigenza un certo numero di biglietti gratuiti che alimentano il business del bagarinaggio gestito dalle cosche calabresi infiltrate nella curva bianconera. In caso di risposta negativa partono i cori razzisti con un unico obiettivo: far squalificare il campo e giocare la partita successiva a porte chiuse provocando un danno economico non indifferente alla società.
Ma le curve italiane hanno un altro grosso problema: la politica. Molte tifoserie organizzate sono legate a doppio filo a formazioni politiche di estrema destra. Dall’Hellas all’Inter passando per la Lazio, ogni domenica militanti dell’ultradestra italiana svestono i panni politici e indossano quelli da ultras. Un cambio di abiti che però non può cancellare l’indole di questi soggetti che riempiono d’odio le curve di mezza Italia arrivando a schierarsi contro i propri giocatori pur di non ammettere l’insensatezza di certi comportamenti. È accaduto di recente, con la curva dell’Inter che in un comunicato ha difeso i cori razzisti indirizzati dai tifosi del Cagliari all’attaccante nerazzurro Romelu Lukaku definendo gli ululati in occasione del rigore calciato dal belga “una forma di rispetto per il fatto che temono i gol che potresti fargli”.
Il calcio italiano è dunque fragile e sembra non essere pronto ad affrontare concretamente e seriamente il razzismo negli stadi. Eppure basterebbe poco. Basterebbe dare uno sguardo all’estero e prendere esempio dal resto del mondo. Dall’Inghilterra ad esempio, dove durante la partita di FA Cup Haringey Borough-Yeovil Tow due tifosi hanno indirizzato insulti razzisti al portiere camerunense Valery Douglas Pajetat per distrarlo in occasione di un rigore. Nessuna esitazione né da parte dell’arbitro, che dopo il rigore ha sospeso la partita, né da parte delle forze dell’ordine che hanno individuato ed arrestato i due soggetti. Pugno duro senza guanti di velluto. È questa la strategia della federazione inglese che da tempo ormai ha deciso di prendere una posizione netta contro gli episodi di questo genere arrivando addirittura a disporre 6 settimane di carcere l’autore di un tweet a sfondo razzista sul giocatore egiziano del Liverpool Mohamed Salah. Nel nostro paese, dove fino a un decennio fa potevamo vantare il calcio più bello del mondo, i silenzi sul razzismo si stanno trasformando in una sorta di legittimazione. L’immobilismo della federazione lascia troppi varchi per quegli psudo tifosi che allo stadio si sentono gli invincibili padroni di un territorio senza regole.
Non tutto però è perduto. Se la federazione resta immobile, iniziano a muoversi i club. Lo ha fatto, ad esempio, la Roma che ha daspato a vita, e segnalato alle autorità, un “tifoso” che su Instagram aveva insultato il difensore brasiliano Juan Jesus per il suo colore della pelle. Lo ha fatto il Pescara con un tweet ha risposto ad un tifoso che ne criticava le posizioni sul razzismo senza mezzi termini. “Basta con questa storia del razzismo” aveva scritto un certo Andrea dell’Amico “vi ho sempre sostenuto ma direi che è ora di finirla voi e quei comunisti del ca**o, state per perdere un tifoso fate voi”. Facciamo noi? Bene, signore e signori Andrea non è più un nostro tifoso” la risposta del club con tanto di emoticon festeggianti. Forse non sarà una svolta epocale, ma certo da speranza. In un mondo immobile e cieco, qualcosa si muove. Intanto, però, restiamo attoniti ad indignarci stancamente per qualche giorno ogni qualvolta uno pseudo tifoso decide di riempire d’odio gli stadi del Bel Paese che, come, direbbe il signor G:
ha tante pretese
Ma nel nostro mondo occidentale
È la periferia

L’imprevedibilità dell’America Latina tra proteste presenti e future

“Il giorno tropicale era un sudario
Davanti ai grattaceli era un sipario
Campa decentemente e intanto spera
Di essere prossimamente milionario
– Enzo Jannacci –

Cile, Equador, Bolivia, Venezuela e non solo. L’America Latina è scossa da proteste sempre più violente che rendono ancor più instabile una situazione già drammaticamente difficile mettendo in luce le fragilità di un continente spesso abbandonato a sé stesso. Manifestazioni, incendi e rivolte divampano per le strade delle principali città sudamericane contro una politica neoliberista che sta mostrando al mondo tutti i suoi limiti.
Venezuela – A dare il via ad un anno drammatico per il continente sudamericano era stato ad inizio 2019 il Venezuela. Il 23 gennaio durante una manifestazione antigovernativa, il presidente dell’assemblea parlamentare Juan Guaidò si è autoproclamato Presidente ad interim disconoscendo di fatto il potere di Maduro. L’autoproclamazione di Guaidò ha ricevuto l’appoggio di diversi paesi e nel corso dei mesi è stato riconosciuto da più di 50 stati come legittimo presidente. Una presa di posizione da parte della comunità internazionale che ha ulteriormente indispettito Maduro, eletto a gennaio per il secondo mandato presidenziale, che ha gridato al complotto internazionale ordito dagli Stati Uniti per delegittimare il governo del popolo. La situazione è ben presto degenerata trasformandosi in una lotta di potere: da una parte Maduro, appoggiato dall’esercito, dall’altra Guaidò sostenuto da una fetta della popolazione e dai leader mondiali.  Ma se la situazione sembrava essere stabile e sotto controllo nel giro di qualche giorno è scoppiata all’improvviso. Il 30 aprile con un messaggio diffuso sul web, il presidente ad interim ha chiesto alla popolazione di scendere in piazza per rovesciare il governo illegittimo. Ne è nata una battaglia cruenta tra sostenitori di Guaidò e l’esercito fedele al governo che per un giorno intero ha sedato i tentativi dei manifestanti di sovvertire il potere di Maduro. A sei mesi dal tentato colpo di stato, la situazione venezuelana non è migliorata. Messa da parte, fino ad ora, la strategia più dura e violenta rimangono alte le tensioni in un interminabile braccio di ferro tra Washington e Caracas.
Il paese, ora, è sull’orlo del baratro con un’inflazione record e un sistema di welfare al collasso. Secondo ‘Medici senza frontiere’ ospedali e cliniche hanno personale inadeguato e forniture mediche insufficienti, problemi gravi anche nel settore scolastico con diversi professori costretti a fuggire dalla repressione del governo, stipendi inesistenti e strutture inadeguate. Si stima che il 94% della popolazione venezuelana, pari a circa 30 milioni di persone, viva in uno stato di insicurezza alimentare, mentre l’82% non ha accesso a fonti di acqua sicure. Le condizioni di salute hanno raggiunto livelli drammatici: il tasso di mortalità materna sfiora il 65%, per la mancanza di strutture sanitarie e pratiche igieniche adeguate. Una situazione che sta spingendo i venezuelani ad un esodo di massa. 4,5 milioni di Venezuelani, il 12% della popolazione totale, ha lasciato il paese per rifugiarsi negli stati vicini dando vita al più grande fenomeno migratorio nella storia dell’America Latina e sta mettendo il sistema di accoglienza di diversi paesi, Colombia in primis.
Bolivia – Brogli elettorali e contestazioni. Il 20 ottobre la Bolivia è scesa in piazza per contestare la vittoria alle elezioni del presidente uscente Evo Morales. Dato dai primi exit poll in vantaggio con uno scarto minimo rispetto allo sfidante Carlos Mesa, Morales è stato proclamato vincitore in serata con un vantaggio di oltre 10 punti percentuali. Un cambio improvviso nello scrutinio che ha lasciato perplessi i boliviani e l’opposizione che si è mobilitata per contestare il risultato gridando ai brogli elettorali. Anche gli Stati Uniti, il Brasile e l’Argentina hanno espresso preoccupazione per il drastico cambio dei risultati. Michael Kozak, assistente segretario del dipartimento di Stato americano per gli affari dell’emisfero occidentale, ha definito l’interruzione nel conteggio dei voti del Tribunale Supremo Elettorale un «tentativo di sovvertire la democrazia boliviana», invitando l’organo a «ripristinare la credibilità del processo elettorale». Milioni di boliviani sono scesi in piazza e le proteste continuano tutt’ora nonostante i tentativi di reprimerle abbiano già provocato due morti e diversi feriti.
Morales, al momento della sua prima elezione nel 2006, era visto come un leader in grado di rilanciare l’economia e la vita in Bolivia. Ex coltivatore di coca e sindacalista è stato il primo boliviano di origine indigena ad essere eletto alla presidenza del paese lasciando immaginare un importante impegno a sostegno delle popolazioni indios. Quel sostegno, se non a parole, è mancato quasi totalmente e la sua politica ha fatto crescere il malcontento in tutto il paese. Se da un lato ha fatto ripartire l’economia boliviana abbassando il tasso di povertà, dall’altro ha commesso gravi errori attirando su di se critiche da ogni schieramento. Un primo momento di crisi lo si è avuto nel 2011 quando un movimento di protesta nato dalle comunità indigene fu represso nel sangue dalla polizia schierata in assetto antisommossa. Gli indios erano scesi in piazza per mostrare la loro contrarietà alla realizzazione dell’autostrada Cochabamba-San Ignacio de Moxos che, secondo i piani di Morales, avrebbe dovuto attraversare il Parco nazionale Isiboro terra abitata dagli indigeni. Proprio quelle comunità Indios che con la sua elezione aveva promesso di tutelare erano dunque le prime minacciate dall’opera e la repressione del movimento di protesta aveva scatenato la rabbia e l’indignazione di tutta la Bolivia. Ma la goccia che ha fatto traboccare il vaso è stato il referendum del 2016 indetto da Morales per eliminare il vincolo dei due mandati e potersi candidare per una terza volta. Il risultato elettorale, che aveva sconfitto il presidente bocciando il quesito, era stato annullato dalla Corte Suprema aprendo di fatto la strada alla modifica costituzionale sognata dal presidente. La Bolivia, con l’inizio del terzo mandato di Morales, sembra scivolare verso un autoritarismo di stampo socialista confermata dai risultati ancora dubbi delle elezioni di una settimana fa. I boliviani, però, iniziano a malsopportare l’attaccamento ormai morboso al potere del leader indios che sembra aver tradito la fiducia del popolo.
Cile – Chi invece il supporto del popolo lo ha già perso è il presidente cileno Sebastian Piñera. Da più di una settimana ormai le principali città del paese sono scosse da violente proteste iniziate come risposta alla decisione del governo di aumentare il prezzo del biglietto della metropolitana e ben presto diventate valvola di sfogo per un malcontento più profondo. I manifestanti chiedono al governo misure concrete per contrastare le crescenti disuguaglianze nel paese e le proteste hanno scatenato una risposta durissima da parte delle autorità. L’esercito pattuglia le strade e il governo ha imposto il coprifuoco dalle 21 alle 7 disponendo l’arresto di chiunque non abbia un’autorizzazione per uscire.  Il drastico provvedimento è arrivato dopo la dichiarazione dello stato d’emergenza avvenuta dopo 3 giorni di guerriglia urbana ininterrotta per le strade di Santiago. Una decisione drastica che ha riportato il paese indietro di 30 anni quando durante la dittatura di Pinochet era imposta una misura identica.
Ma se, visto da fuori, non sembra essere un paese problematico la realtà è ben diversa. “La Svizzera del sudamerica” come viene spesso chiamato il paese è l’unico paese del continente ad essere membro dell’OCSE (dal 2010) e presenta un quadro finanziario che sembra dipingere un paese benestante: Pil pro capite prossimo ai 25mila dollari, inflazione molto bassa, rispetto agli standard regionali e un debito pubblico che vale meno di un quarto del prodotto interno lordo. Ma quella che sembra essere una situazione rosea nasconde gravi disuguaglianze. Secondo le ultime rilevazioni della Comisión Económica para América Latina y el Caribe (Cepal), la ricchezza media delle famiglie cilene è di circa 115 mila dollari. Cifre importanti che non tengono conto però della sua suddivisione: solo il 11% delle famiglie cilene (550 nuclei familiari circa) ne beneficia realmente con una ricchezza media di 760 mila dollari, mentre per la metà più povera dei cittadini il dato si ferma a quota 5mila dollari. Un Cile che, sebbene i dati lo facciano sembrare un paese benestante, è pervaso da problemi strutturali che richiedono un intervento profondo del governo. Intervento che, per ora, è stato solo armato e volto a reprimere un malcontento generale ormai esploso.
Altro – In Argentina, la vittoria di Alberto Fernandez alle elezioni dello scorso weekend potrebbe aprire la strada ad un cambio di rotta. Le politiche di austerità del precedente governo, guidato dall’ex presidente del Boca Juniors Mauricio Macri, avevano causato il ristagno della produzione elettorale portando il paese alla recessione del 2018 che aveva costretto il governo a chiedere il più grande intervento nella storia del Fondo Monetario Internazionale: 58 miliardi di dollari. In Argentina, dunque, tutto sembra essersi risolto all’interno di un contesto elettorale ma la situazione rimane tesa e potrebbe esplodere da un momento all’altro se Fernandez non riuscisse a dimostrare la sua capacità di cambiare rotta.
Se in argentina è ancora latente, il malcontento ha iniziato a manifestarsi con forza in Brasile. Migliaia di persone manifestano da agosto contro le politiche del presidente Jair Bolsonaro ed in particolare contro i tagli all’istruzione e le misure di bilancio approvate dal suo governo. Già al centro di durissime critiche durante tutta l’estate per la sua gestione dei terreni dell’Amazzonia, il presidente è sempre meno popolare e le sue politiche unite al suo coinvolgimento nell’omicidio dell’attivista Marielle Franco potrebbero essere la scintilla che accende la miccia del malcontento brasiliano.
L’America Latina è una polveriera che potrebbe esplodere da un momento all’altro, dove non è già successo. Una situazione caotica e imprevedibile che sta rendendo la regione instabile politicamente ed economicamente e sta portando ad una presenza sempre maggiori di figure militari al fianco di quelle politiche. Se non è un pericolo per la democrazia, è sicuramente un segnale di come gli eserciti abbiano mantenuto enorme influenza culturale, autonomia e potere anche dopo la fine delle dittature, e che ancora oggi siano un punto di riferimento importante per le istituzioni civili deboli e in difficoltà. In un’America Latina martoriata e sempre più in difficoltà, dunque, si profila uno scontro sempre più duro tra i popoli e i loro governi. Con l’esercito che resta a guardare e la comunità internazionale che attende, magari cantando una canzone.
“Ahi Sudamerica, Sudamerica, Sudamerica
E i ballerini aspettan su una gamba
L’ultima carità di un’altra rumba