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L’eredità di Bill Russell, la leggenda NBA pioniere dei diritti civili

Il 1 agosto è morto a 88 anni Bill Russell, iconico giocatore NBA in grado di rivoluzionare la pallacanestro americana. Ma la sua eredità più che alle sue gesta sportive sarà per sempre legata al suo impegno quotidiano contro il razzismo in un contesto ben diverso da quello odierno

Da ora in poi nessun giocatore della NBA, il massimo campionato di basket americano, potrà mai più indossare una canotta con il numero 6. È questo l’omaggio della lega alla stella dei Boston Celtics Bill Russell scomparso a 88 anni il 1 agosto il cui nome rimarrà così per sempre legato al numero che ha indossato nelle tredici stagioni da professionista. Una decisione senza precedenti con cui la NBA vuole celebrare la memoria di un giocatore che ha rivoluzionato il gioco ma non solo.

La grandezza del Bill Russell giocatore è probabilmente nota ai più, anche a chi di pallacanestro capisce poco o nulla. Dopo l’oro olimpico vinto a Melbourne nel 1956, quando ancora non potevano essere convocati giocatori professionisti, Russell si dichiarò elegibile per il Draft e venne chiamato con la seconda scelta da Atlanta che lo girò immediatamente ai Boston Celtics in cambio di Hagan e Macauley. Da quel momento iniziò una carriera formidabile che lo ha reso una leggenda del basket: 11 titoli NBA vinti in 13 stagioni, cinque volte MVP della lega, 12 volte selezionato per l’All-Star Game. Tra il 1966 e il 1968 ha ricoperto anche il ruolo di allenatore dei Boston Celtics diventando così il primo allenatore afroamericano nella storia della NBA e vincendo due titoli da giocatore-allenatore. Con la sua suprema abilità atletica, la sua abilità difensiva e l’implacabile propensione a vincere Bill Russell ha rivoluzionato il gioco della pallacanestro tanto da essere considerato, fino all’arrivo di Michael Jordan, il più forte giocatore della storia di questo sport. “Pensava che qualsiasi squadra in cui giocasse dovesse vincere ogni singola partita”, ha detto il compagno di squadra dei Celtics di Russell Tom “Satch” Sanders. “Quindi quel tipo di mentalità ha permeato l’intera squadra. Questo è stato il dono di Bill Russell”.

Ma l’eredità di Bill Russell non è solo sportiva, anzi. Attivista per i diritti civili, Bill Russell è stato il primo atleta ad esporsi utilizzando la sua fama e per denunciare episodi di razzismo e battersi per una società più giusta. Se nell’epoca del Black Lives Matters siamo ormai abituati ad atleti che utilizzano la loro popolarità per lanciare messaggi politici e sociali, negli Stati Uniti degli anni ‘50 e ’60 le posizioni di Russell erano viste come qualcosa di inimmaginabile. Nato nel 1934 a Monroe, in Louisiana, ha dovuto affrontare sin dall’infanzia il problema del razzismo vivendo i primi dieci anni della sua vita in un contesto caratterizzato da una forte segregazione razziale e proprio dalla sua infanzia ha preso la forza per combattere per tutta la vita per i diritti degli afroamericani. Nel 1961 organizzò una protesta che coinvolse decine di giocator NBA dopo che ai giocatori neri dei Boston Celtics fu rifiutato il servizio nella caffetteria dell’hotel di Phoenix dove alloggiavano per una partita. Nei primi anni ’60 lavorò a stretto contatto con Martin Luther King ma quando il compagno di battaglie gli chiese di salire sul palco insieme a lui il 28 agosto 1963 al termine della “Marcia su Washington” Russell rifiutò. Non voleva rubare la scena a Martin Luther King, che da quel palco avrebbe pronunciato il suo storico discorso “I have a dream”, e a chi aveva lavorato giorno e notte per organizzare quella marcia. “Mi basta un posto in prima fila per assistere al tuo discorso” gli rispose. E così fu.

Con il suo instancabile lavoro per una società più giusta, sempre condotto all’ombra dei riflettori, Bill Russell è diventato pioniere dei diritti civili negli Stati Uniti. Non ha mai piegato la testa e non è mai indietreggiato, nemmeno davanti minacce e violenze razziste nei suoi confronti e nei confronti della sua famiglia. Nemmeno quando nel 1960 un gruppo di razzisti fece irruzzione in casa sua rompendo tutto ciò che trovava e scrivendo con una bomboletta “negro” sui muri. Ma i un’esitazione, mai un dubbio su quale fosse la parte giusta. Su quali fossero i valori per cui lottare. “Un altro uomo nero è stato aggiunto alla lista delle migliaia di neri uccisi dalla brutalità della polizia, l’ennesima vita rubata da un paese spezzato da pregiudizi e fanatismo.” Aveva detto commentando la morte di George Floyd nel maggio 2020 “Quando ero bambino, ho imparato a scappare dalla polizia perché ti arrestavano, o ti prendevano a calci, o ti uccidevano se fossi nero.” E proprio in occasione della morte di Floyd è emersa, in modo dirompente, l’eredità di Bill Russell. La sua lotta per una società più giusta a partire dallo sport ha influenzato in modo significativo la battaglia del movimento Black Lives Matter spingendo gli atleti ad esporsi in prima persona per rivendicare il loro orgoglio. “Grazie a te, oggi va bene essere un attivista e un atleta”, ha detto la guardia dei Celtics Jaylen Brown in un recente video tributo a Russell. “Grazie a te, bambini di colore possono sognare di essere vincenti. Grazie a te, oggi va bene essere più di un semplice giocatore di basket. Grazie a te, sono orgoglioso di essere un giocatore dei Celtics”.

Questa è l’eredità di Bill Russell, eterno numero 6. 

“Permettetemi di ricordarvi quella promessa non mantenuta. Quella promessa contenuta nella nostra Dichiarazione di Indipendenza: «Tutti gli uomini sono uguali e sono dotati di diritti inalienabili come il diritto alla Vita, alla Libertà e alla ricerca della felicità». Ho atteso per tutta la mia vita che l’America fosse all’altezza di quella promessa ma in America l’uccisione sistematica di persone di colore continua a non essere nulla di fuori dall’ordinario. Non vedo l’ora che questi strani giorni possano essere per sempre alle nostre spalle e che un cambiamento reale e duraturo si possa finalmente realizzare”

Gino Bartali e l’impresa al Tour che salvò l’Italia dalla guerra civile

Era il 1948 e a tre mesi dalle prime elezioni della storia Repubblicana, l’Italia era sull’orlo di una guerra civile con milioni di persone scese nelle strade dopo l’attentato a Togliatti. La situazione sembrava irrimediabilmente compromessa ma l’impresa di Bartali cambiò l’inerzia della storia.

14 luglio 1948, Roma. Sono da poco passate le 11.30 quando in tutta Italia si diffonde a macchia d’olio una notizia che getta il paese nello sconcerto: “Hanno sparato a Togliatti”. Il leader del Partito Comunista, raggiunto da quattro colpi di pistola mentre usciva da Montecitorio con Nilde Iotti, viene trasportato d’urgenza in ospedale. La natura politica dell’attentato è immediatamente evidente con l’arresto di Antonio Pallante, studente di giurisprudenza e fervente anticomunista spaventato dagli effetti che la politica del PCI avrebbe potuto avere sul paese. La reazione è immediata e feroce. La CGIL proclama uno sciopero generale e in tutta Italia milioni di persone manifestano la loro rabbia e il loro sconforto per il ferimento del leader comunista. A Torino gli operai della FIAT occupano la fabbrica e sequestrano nel suo ufficio l’amministratore delegato Vittorio Valletta. La circolazione ferroviaria si ferma e i telefoni smettono di funzionare mentre i manifestanti si scontrano sempre più ferocemente con le forze dell’ordine. La sera del 14 luglio il bilancio è di 14 morti e centinaia di feriti. L’Italia sembra a un passo dalla guerra civile.

14 luglio 1948, alpi francesi. È in corso il “Tour de France” ma quel giorno, festa nazionale per i transalpini, non si corre. I corridori trascorrono la giornata al fresco in attesa delle prime grandi salite che potrebbero decidere la Grand Boucle, ma per gli italiani le speranze sono poche. Lo sa anche Gino Bartali che un Tour de France lo ha vinto esattamente dieci anni prima ma che ora, a 34 anni, fatica a tenere il passo degli avversari più giovani. Bartali in quel Tour era partito bene conquistando la prima maglia gialla a Trouville sur Mer, ma tappa dopo tappa ha perso un minuto dopo l’altro e a 9 tappe dall’arrivo a Parigi è settimo con un ritardo di oltre 21 minuti dal leader della classifica generale Louis Bobet. Ma la sera di quel 14 luglio qualcosa sta per cambiare.

A questo punto la leggenda si intreccia con la storia confondendone i confini. L’unica certezza è che, intorno alle 21 di quel 14 luglio, nell’hotel della squadra italiana arriva una chiamata per Gino Bartali. È il Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi, amico ed estimatore del campione toscano. “Caro Gino, qui c’è una gran confusione. Abbiamo bisogno anche di lei. La prego vinca domani! Vinca il Tour de France!”. La telefonata spiazza Ginaccio, come era soprannominato da amici e tifosi. “Presidente” gli rispose “domani c’è la prima tappa di montagna ma è durissima. Non posso garantirle che vincerò il Tour, ma domani ce la metterò tutta”. Il giorno dopo fu di parola. Sapeva che se in Italia fosse scoppiata una guerra civile sarebbe dovuto tornare in patria e allora corse come se fosse l’ultimo giorno. Un attacco grandioso sulle salite alpine staccando uno dopo l’altro tutti gli avversari fino a d arrivare solo al traguardo. L’Italia, ancora scossa da tumulti e scontri, si ferma ad ammirare incredula l’impresa del suo campione in terra francese. Si fermano i tumulti, gli scontri, i morti e i feriti. Tutto si congela. Il paese rapito rimane a guardare l’impresa del suo campione in terra francese. Il tifo per quel 34enne che scala le alpi con la sua bicicletta sostituisce l’odio e la rabbia che da un giorno e mezzo dilagavano in tutta la penisola. Al termine di quella tappa Bartali guadagnò venti minuti riducendo ad un solo minuto il suo ritardo dalla maglia gialla. Al traguardo, prima ancora di scendere dalla sua bicicletta, si avvicina allo staff della squadra italiana: “Come sta Togliatti” chiede. “Sta migliorando, è quasi fuori pericolo”. “E allora adesso miglioro io” rispose Gino. E migliorerà per davvero, il giorno seguente un’altra vittoria stratosferica sulle alpi gli consente di guadagnare la maglia gialla. In Italia, mentre Bartali scala leggero le impervie salite transalpine, la rabbia lascia il posto alla gioia. La gioia per un Togliatti che lentamente migliora. La gioia per un campione ritrovato che sta domando tutto e tutti.

Alla Camera dei deputati ancora disorientata, agitata, indignata per l’attentato di piazza Montecitorio, il clamore discorde viene placato dalla altissima voce di un deputato che gridava: “Attenzione! Una grande notizia. Bartali ha vinto la tappa e forse la maglia gialla. Viva l’Italia”. E nello stupore che seguì, gli animi si rasserenarono. E così avvenne nelle piazze. Le manifestazioni si interruppero e per la prima volta la gente smise di chiedere i bollettini degli scioperi e iniziò a leggere quelli del tour. E mentre la vittoria di Bartali rasserenava gli animi, dall’ospedale arrivarono anche le prime parole di Togliatti: “Sono fuori pericolo. Non fate pazzie. Assicuro a tutti i compagni che a suo tempo sarò nuovamente al mio posto di lavoro”. 

La guerra civile è ormai scongiurata. Ma per qualcuno non basta. Bartali il 25 luglio vince il Tour de France. Il trentaquattrenne spinto da una carica emotiva fatta di passione ma anche senso del dovere verso il proprio Paese riesce a salire sul gradino più alto del podio parigino. L’Italia lo acclama a gran voce. Sono giorni di festa e di gioia in tutte le nostre città, l’inizio della fine è ormai superato. Rientrato in Italia fu accolto da tutti gli onori, ricevuto dal Papa e dal Presidente della Repubblica oltre che dal presidente del Consiglio Alcide de Gasperi che gli permise di chiedere qualsiasi cosa come ricompensa per la sua impresa. “Mi basterebbe non pagare le tasse per un anno” rispose Bartali. Non sappiamo se venne accontentato. Come non sappiamo quanto fu determinante l’impresa di Bartali per scongiurare una guerra civile che forse non sarebbe scoppiata in ogni caso. Ma il potere dello sport fu straordinario anche in questo caso. D’altra parte, era stato lo stesso Togliatti a teorizzarlo con una sua celebre frase: “Come puoi pensare di fare la rivoluzione senza sapere quanto ha fatto ieri la Juventus?”.

Perché oggi la Norvegia potrebbe decidere di boicottare i mondiali in Qatar del 2022

Sarà come giocare in un cimitero
-Ole Kristian Sandvik-


“Diritti umani in campo e fuori”. È iniziata con questa frase, impressa sulle maglie utilizzate dalla nazionale norvegese nei prepartita di diverse gare disputate negli ultimi mesi, la campagna del mondo del calcio contro i Mondiali in Qatar in programma per il 2022. Dopo la decisione della nazionale scandinava di indossare un messaggio forte e diretto lo stesso hanno fatto Germania e Olanda e ora molte squadre sarebbero pronte a schierarsi in questa battaglia.

Qatar 2022 – Una protesta nata dai numeri angoscianti che si nascondono dietro l’entusiasmo con cui Doha continua a rilanciare l’evento calcistico più importante in programma per il prossimo inverno. Più di 6.500 lavoratori provenienti prevalentemente da India, Pakistan, Nepal, Bangladesh e Sri Lanka sono morti durante la costruzione di stadi ed altre opere collegate al mondiale di calcio negli ultimi dieci anni. Un numero impressionante che, tradotto, significa dodici morti al giorno da quando a dicembre 2010 la Fifa annunciò l’assegnazione dei mondiali 2022 al Qatar. Per dare un’idea dell’eccezionalità di ciò che sta accadendo in Qatar, il un report dell’ITUC ha comparato le morti legate ai mondiali Qatar 2022 con quelle di altri mega-eventi sportivi a partire dalle Olimpiadi di Sydney nel 2000: il numero massimo di morti si era raggiunto con le Olimpiadi invernali di Sochi 2014, quando morirono 60 persone. Negli altri eventi, le morti sono state tra le 0 (Olimpiadi di Londra 2012) e le 40 (Olimpiadi di Atene 2004). In Qatar, a oltre un anno dalla fine dei lavori, i morti sono già oltre 6.500.

Il paese, che vuole farsi trovare pronto agli occhi del mondo, ha dato il via a una imponente progetto infrastrutturale che prevede la realizzazione di sette nuovi stadi, un aeroporto, nuove infrastrutture e una nuova città per ospitare la finale. Per la partita più importante, infatti, il Qatar ha deciso di non limitarsi a costruire uno stadio ma sta realizzando una città partendo da zero. Losail, questo sarà il nome, è “un progetto futuristico, che creerà una società moderna e ambiziosa.” Una società moderna che nascerà dalla violazione dei diritti dei lavoratori migranti, sfruttati ed esposti al pericolo per non intralciare la realizzazione del più ambizioso progetto della monarchia. Il tutto mentre il comitato organizzatore e le autorità qatariote negano ogni legame tra i mondiali e le morti affermando che i decessi collegati alla realizzazione degli stadi siano solo 37 mentre gli altri sono da ricondurre a cause naturali. Cause naturali che, però, sarebbero facilmente collegabili al lavoro svolto se il governo del Qatar non avesse negato l’autopsia.

All’origine di questo trattamento disumano risiede il sistema della kafala, denunciato da molte organizzazioni a sostegno dei diritti umani come una forma di moderna schiavitù. Questa regolamentazione prevede che il datore di lavoro abbia forti tutele legali per poter controllare i lavoratori migranti che fa entrare nel proprio paese. Tra queste ci sono forti restrizioni sulla possibilità di cambiare impiego, senza aver ottenuto il permesso del datore di lavoro, sulla facoltà di dimettersi e perfino sulla possibilità di lasciare il paese senza permesso. A seguito delle ripetute denunce a livello internazionale e delle indagini dell’Organizzazione mondiale del lavoro o di Ong come Amnesty international, il Qatar ha finalmente abolito la kafala a settembre del 2020. Un’abolizione solo formale che, nella pratica, non ha cambiato in modo incisivo il meccanismo di assunzione di lavoratori stranieri né aumentato le tutele per i dipendenti.

Ora – Le possibilità che la Fifa, sempre più sotto pressione, decida di revocare l’assegnazione dei mondiali al Qatar è però quantomai remota. Il massimo organo del calcio mondiale fino ad ora si è limitato ad adottare nel 2017 una “Politica sui diritti umani” e nel 2019 la “Strategia congiunta di sostenibilità sui mondiali di calcio del 2022 in Qatar”. Due documenti volti a lasciare “un’eredità di standard e prassi di primo livello per i lavoratori sia in Qatar che a livello internazionale” ma che non stanno impendendo né rallentando lo sfruttamento dei lavoratori migranti.

L’immobilismo della Fifa, però, non è stato accolto con favore da tutte le federazioni e molte nazioni sembrano pronte ad intraprendere azioni formali per chiedere un cambio di rotta. C’è chi, come la Svezia sceglie una linea soft, con una lettera indirizzato al massimo organismo del calcio mondiale in cui afferma che “tutti abbiamo il dovere di fare il possibile per assicurare che i diritti umani siano rispettati nella fase di preparazione e attuazione del torneo” chiedendo ai responsabili di verificare il rispetto delle condizioni dei lavoratori nelle fasi che precedono il torneo. Ma c’è anche chi potrebbe optare per una linea più dura: la Federcalcio Norvegese oggi potrebbe votare per autoescludere la nazionale dal mondiale del 2022. “Andare in Qatar sarebbe come giocare in un cimitero” ha detto Ole Kristian Sandvik, portavoce dell’associazione dei tifosi norvegesi. Una decisione che, se presa, sarebbe storica e renderebbe la Norvegia la prima nazionale al mondo a rinunciare volontariamente ad un mondiale. Una decisione che, però, porterebbe anche effetti collaterali non indifferenti: in caso si boicottaggio, infatti, la Norvegia andrebbe incontro ad una multa di 20.000 franchi svizzeri e l’esclusione dai successivi mondiali del 2026. Una scelta coraggiosa, un segnale forte alle altre federazioni ed un messaggio molto chiaro: i diritti umani valgono più di qualsiasi mondiale.

L’Italia come la Russia: si va verso l’esclusione dalle Olimpiadi

Una legge voluta dal governo gialloverde nel 2019 mina l’indipendenza del Comitato Olimpico Nazionale (CONI) violando di fatto i principi fondamentali della Carta Olimpica. Dopo due anni di avvertimenti domani potrebbe arrivare il verdetto finale che escluderebbe l’Italia dalle prossime Olimpiadi.

Il verdetto è atteso per domani ma la voce che ha iniziato a circolare da ieri ha già fatto gelare il sangue agli sportivi italiani. Il Comitato Olimpico Internazionale, infatti, sarebbe pronto a sospendere con effetto immediato il CONI dalle federazioni riconosciute. Una decisione che avrebbe come effetto più evidente l’assenza di una nazionale italiana alle Olimpiadi di Tokyo dove, qualora fossero confermate le indiscrezioni, gli atleti azzurri gareggeranno da indipendenti e non potranno utilizzare la bandiera, le divise e l’inno che rappresentano il nostro paese. Ma non solo. La sospensione del CONI, infatti, provocherebbe anche uno stop dei finanziamenti al nostro paese da parte del CIO con evidenti e pesantissime ricadute anche sull’organizzazione delle Olimpiadi invernali del 2026 già assegnate a Milano e Cortina.

A generare una situazione surreale è stata la riforma dello sport voluta ed approvata dal governo gialloverde durante il “Conte I”. Il passaggio controverso, su cui si basa la decisione del CIO, è sostanzialmente contenuto nella prima frase del testo di legge che, all’art. 1, recita: “Il Governo è delegato ad adottare, entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, uno o più decreti legislativi per il riordino del Comitato olimpico nazionale italiano (CONI)”. Tale disposizione, però, incide in maniera decisiva sull’autonomia del CONI e viola, di conseguenza, la Carta Olimpica che tra i propri principi fondamentali prevede la totale autonomia dei comitati olimpici nazionali e la loro completa neutralità politica. Non si tratta dunque di un fulmine a ciel sereno ma di una situazione nota dal 6 agosto 2019, data di approvazione della riforma dello sport, e più volte sottolineata dal presidente del CIO Bach che ha ripetutamente sollecitato il premier Conte chiedendo un adeguamento normativo.

Ogni ora che passa si assottigliano sempre più quindi le speranze di vedere la nazionale italiana alle prossime olimpiadi con i nostri atleti che parteciperanno da indipendenti al pari dei russi, il cui comitato olimpico è stato sospeso per le vicende relative al doping di stato. Per salvare la situazione sarebbe infatti necessario, entro stasera, che il Consiglio dei ministri si riunisse per approvare un decreto salva – CONI che possa aggiustare all’ultimo minuto la posizione del comitato olimpico italiano facendolo rientrare nei canoni del CIO. Una possibilità che sembra essere sempre più remota soprattutto dopo le ultime evoluzioni della crisi di Governo che tengono impegnato il premier e i ministri su altri fronti considerati prioritari. E mentre tra CONI e Governo è un continuo rimbalzo di responsabilità, con Malagò che punta il dito contro il governo e gli autori della legge che la difendono a spada tratta, l’Italia vede sempre più vicina la possibilità di una Olimpiade senza tricolore e inno di Mameli. Uno schiaffo all’orgoglio nazionale che attorno a quei simboli si arrocca ogni qualvolta vi siano eventi sportivi di questa portata, siano essi mondiali o Olimpiadi.


+++ Aggiornamento +++
Poco prima di salire al Colle per rassegnare le sue dimissioni, il premier Giuseppe Conte ha firmato un decreto che restituisce autonomia al CONI. Il provvedimento dovrebbe scongiurare la possibilità di un’esclusione dell’Italia dalle prossime Olimpiadi ma rimane la possibilità di sanzioni al nostro paese. Domani verrà annunciata la decisione del CIO.

Come si ottiene la cittadinanza se non sei Luis Suarez

“Non siamo troppo neri, siamo solamente troppo poveri”


Da ora chiamatelo Luigi. Perché a sei anni dal clamoroso morso con cui stese Chiellini ai mondiali brasiliani, in quell’ormai celebre Italia – Uruguay che ci condannò all’eliminazione in uno dei più brutti mondiali della nostra storia, Luis Suarez ha passato il test linguistico per ottenere la cittadinanza italiana. L’ottenimento del passaporto, ormai a un passo per il calciatore del Barcellona, con tempistiche così brevi ha però scatenato la rabbia di chi pur vivendo in Italia da anni non si vede riconoscere la cittadinanza italiana.

La situazione – Tutto è iniziato nelle ultime settimane di agosto. Dopo i capricci di Messi, che per mesi ha chiesto il trasferimento salvo poi decidere di rimanere in Catalogna, a Barcellona ha preso il via la telenovela Suarez. Il nuovo allenatore dei blaugrana, l’olandese Ronald Koeman, ha infatti messo fuori squadra l’attaccante uruguaiano dando il via alle inevitabili indiscrezioni sul suo futuro. Nonostante i 33 anni e uno stipendio non indifferente, attualmente 15 milioni l’anno, il centravanti ha ovviamente attirato l’attenzione di diversi club che in queste settimane si stanno muovendo per portare “El pistolero” alla propria corte. Tra i club più interessati ci sarebbero però anche la Juventus e l’Inter, con i bianconeri che sarebbero in vantaggio rispetto alla concorrenza.

Il regolamento del campionato italiano, però, in fatto di giocatori stranieri parla chiaro: si possono tesserare al massimo due extracomunitari ogni stagione. Da questa norma sono nati i problemi per il club di Torino che in questa finestra di calciomercato ha già acquistato il brasiliano Arthur e lo statunitense McKennie esaurendo così gli slot disponibili. Sogno sfumato dunque? Assolutamente no. Il giocatore, infatti, facendo leva sulle lontane origini italiane della moglie Sofia Balbi ha deciso di richiedere la cittadinanza italiana per diventare ufficialmente comunitario e potersi aggregare ai bianconeri entro la fine del mercato prevista per il 5 ottobre. I tempi stringono e così parte la procedura lampo per italianizzare l’uruguagio. Nel giro di qualche settimana vengono risolte le pratiche burocratiche e giovedì Suarez ha sostenuto il test di lingua presso l’Università di Perugia. Risultato? Test superato in mezz’ora e certificato di lingua italiana (livello B1) ottenuto con successo. In meno di un mese, dunque, Luis Suarez è diventato cittadino Italiano ed ora non gli resta che attendere la conferma da parte del Ministero per poter finalmente trattare liberamente e concretamente con la Juventus.

Cittadinanza – Dal punto di vista strettamente legale, l’ottenimento della cittadinanza italiana per Luis Suarez è inattaccabile. La situazione del giocatore infatti rientra nelle casistiche per cui può essere concesso il passaporto italiano ad un cittadino straniero. Sulla base del decreto sicurezza, per la concessione della cittadinanza per matrimonio è necessario risiedere legalmente in Italia da almeno 12 mesi, in presenza di figli nati o adottati dai coniugi; o risiedere da almeno 24 mesi con il cittadino italiano. In caso di residenza all’estero, e questo è il caso di Suarez che è sposato con Sofia Balbi da 11 anni, si può inviare la pratica solo dopo 18 mesi in presenza di figli o dopo 36 mesi dalla data del matrimonio. Se si rispettano questi requisiti e si dimostra, attraverso un apposto esame sostenibile in 3 università per stranieri (Roma Tre, Perugia e Siena), di avere una buona conoscenza della lingua è possibile dunque ottenere la cittadinanza italiana.

Diversamente, come specificato sul sito del Ministero dell’Interno, la cittadinanza italiana può essere ottenuta “iure sanguinis” ovvero se si nasce o si viene adottati da cittadini italiani. Ma se i genitori sono stranieri o se si arriva in Italia per altri motivi la questione cambia visibilmente. Per i cittadini stranieri residenti in modo regolare nel nostro paese è infatti richiesta oltre ad una permanenza continuativa di almeno 10 anni anche il rispetto di determinati requisiti: “In particolare” si legge sul sito del Ministero “il richiedente deve dimostrare di avere redditi sufficienti al sostentamento, di non avere precedenti penali, di non essere in possesso di motivi ostativi per la sicurezza della Repubblica.” Paradossalmente invece va peggio a chi nasce in Italia da cittadini stranieri. A loro infatti la cittadinanza italiana può essere riconosciuta solamente al compimento del diciottesimo anno di età. 18 anni per ottenere la cittadinanza del luogo in cui sono nati.

E sono proprio le tempistiche con cui Suarez ha ottenuto la cittadinanza ad aver scatenato le polemiche. Perché se da un lato si può chiudere un occhio sul superamento di un test di lingua che in mezzora ha attestato un livello di conoscenza dell’idioma straordinario e una capacità di comunicazione sostanzialmente perfetta, dall’altro è inevitabile chiedersi come sia possibile che nel giro di un mese si sia svolto completamente l’iter per l’ottenimento della cittadinanza. Pur non essendo prevista per legge una durata minima del processo di ottenimento del passaporto italiano questa rapidità non si è mai vista in nessun altro caso. In un paese dominato dalla burocrazia, infatti, l’ottenimento della cittadinanza si può prolungare per tempi sostanzialmente infiniti. Se prima del decreto sicurezza si prevedeva che la conclusione del procedimento di rilascio dovesse avvenire entro 2 anni dal momento della presentazione della domanda, con la nuova normativa introdotta dal governo gialloverde questo termine massimo è stato spostato a 48 mesi: quattro lunghissimi anni di attesa prima di diventare cittadino italiano.

Quattro anni se si è un comune mortale. Se si è un giocatore che guadagna 15milioni l’anno per segnare 21 gol a stagione, le regole non valgono. O meglio, se una delle principali società italiane ha bisogno che quel calciatore ottenga la cittadinanza in tempi brevi le regole non valgono. Non è Luis Suarez il problema. Non è l’avere i soldi che gli ha permesso di ottenere la cittadinanza. Il problema è un sistema in cui non conta il colore della pelle, non conta il conto in banca né conta se arrivi in Italia a bordo del tuo aereo privato: contano potere e utilità. Il problema è un sistema in cui se la principale squadra di calcio italiana ha bisogno di un giocatore si è pronti a tutto per farlo arrivare. Perché se al posto di Luis Suarez ci fosse stato un qualunque extracomunitario e al posto della Juventus ci fosse stata una squadra di serie C, in un mese la pratica per la cittadinanza non sarebbe nemmeno stata aperta.

Ascesa e caduta di un dio dello sport

Dalle Alpi francesi solcate da una tempesta,
si leva solenne, al di là delle nuvole della fantasia, un dio dello sport:
si chiama Marco, il nome forte di un evangelista.
-Candido Cannavò-

Era un dio Marco Pantani. Un dio dello sport, come lo descrisse la penna di Candido Cannavò sulla prima pagina della Gazzetta dello Sport il 28 luglio 1998. Un dio salito fino al paradiso prima della tremenda caduta che lo ha portato all’inferno, una caduta iniziata il 5 giugno 1999 e finita meno di cinque anni più tardi. Finita nel modo più tragico che si possa immaginare, in una stanza d’albergo nel giorno di San Valentino. Il personaggio più amato nella storia del ciclismo italiano, l’ultima vera leggenda in grado di emozionare appassionati e semplici spettatori. L’ultimo personaggio sportivo che ha saputo tenere incollati milioni di spettatori alla televisione per vederlo danzare sui pedali, curvo sul manubrio in quell’inconfondibile posizione che solo lui riusciva a tenere. Una posizione da velocista. Mani basse sul manubrio mentre la strada va su. 9%, 10%, 15%. Sulle rampe più ripide, lo scalatore venuto dal mare dava tutto sé stesso. Sulle rampe più ripide ha fatto emozionare un’intera nazione.
La carriera – Marco non è stato certo un vincente. Nella sua, purtroppo breve, carriera ha collezionato 46 vittorie da professionista tra il 1992 e il 2003. Ma sono vittorie che nessun appassionato di ciclismo può dimenticare. La stella di Pantani inizia a brillare il 5 giugno 1994, su una delle salite più dure d’Europa. Nella tappa che va da Merano all’Aprica Pantani, dopo aver vinto quella del giorno precedente, attacca sul Mortirolo e stacca sia la maglia rosa Berzin sia lo spagnolo Miguel Indurain. Passa in cima al passo del Mortirolo da solo, aspetta i rivali, riprende fiato, si fa raggiungere e poi scatta di nuovo sul valico di Santa Caterina. Va via, arriva all’Aprica a braccia alzate. Bastava guardarlo per capire che aveva qualcosa di diverso dagli altri. Quando la strada saliva sembrava che la sua bici non toccasse nemmeno per terra, sembrava galleggiasse leggera e composta ondeggiando dolcemente ad ogni pedalata del Pirata. Quella bandana lanciata via come ad annunciare l’imminente attacco e poi via. In piedi sui pedali a fuggire da tutto e da tutti verso un traguardo da tagliare a braccia alzate. Come quel 4 giugno 1998 e quel traguardo di Montecampione tagliato a braccia aperte. Gli occhi socchiusi e un sospiro profondo, come a dire: “anche questa è andata. Anche oggi ce l’ho fatta.”
Quell’anno Marco fu insuperabile. La vittoria di Montecampione gli spianò la strada per la vittoria del suo primo giro d’Italia conquistato con un vantaggio di 1’33’’ di vantaggio sul russo Tonkov. Ma il bello doveva ancora venire. Dopo il Giro, Pantani si mise in testa di correre anche il Tour e di provare ad entrare nell’olimpo del ciclismo vincendo entrambe le corse nello stesso anno. L’inizio non fù entusiasmante, dopo sette tappe il ritardo in classifica generale era di circa 5 minuti e i presentimenti su quel Tour de France non sembravano essere buoni. Ma Marco, si sa, era in grado di tirar fuori tutto quello che aveva nelle situazioni più difficili. Giorno dopo giorno riuscì a ridurre il suo ritardo, vincendo anche la tappa di Plateau de Beille, ma il capolavoro lo fece il 27 luglio. “Sulle alpi francesi solcate da tempesta” Marco attacca sul Galibier, a 50km dal traguardo. La nebbia e la pioggia fitta a rendere quella giornata, quella salita, la cornice perfetta di un’impresa che rimane nella storia. Un’impresa con cui Marco ha cambiato maglia e vita. Al traguardo arriva con 9 minuti di vantaggio sul tedesco Jan Ullriche indossa la maglia gialla che porterà fino a Parigi. È trionfo. Il 2 agosto 1998, sugli Champs-Elysées, Pantani può sorridere. Il 2 agosto 1998 il pirata diventa il settimo, e ultimo, corridore a vincere Giro e Tour nello stesso anno. Il 2 agosto 1998, Marco è leggenda.
Una leggenda che è stata in grado di rialzarsi dopo ogni caduta. Perché dietro quei successi, c’è un Pantani maledetto. Un Pantani che ha dovuto affrontare ogni genere di sfortuna. Dopo l’incidente del 1995, quando durante la Milano-Torino fu investito da un fuoristrada e si ruppe tibia e perone, si riprende e torna a correre con una squadra costruita attorno a lui. Sembra essere finalmente il suo anno, quello della consacrazione. E invece no. E invece un’altra volta ci si mette la sfortuna. Durante la 7 tappa, lungo la discesa dal valico di Chiunzi, un gatto gli attraversa la strada mentre è lanciato a oltre 50 km/h. Marco sbanda, sbatte contro il muro, cade e si rialza. Finisce la tappa ma all’ospedale scoprì di aver subito la lacerazione di un centimetro nelle fibre muscolari della coscia sinistra. Abbandonò la corsa. E forse abbandona anche un po’ di leggerezza.
La caduta – il 5 giugno 1999 a Madonna di Campiglio, quando sta per iniziare la penultima tappa di un Giro dominato, inizia la fine della carriera e della vita del Pirata. Alle 10.10 del mattino, a un’ora dall’inizio della tappa vengono diffusi i risultati del test antidoping condotto su diversi corridori. Era un test programmato da tempo e per questo nessuno lo temeva particolarmente, in un ciclismo invaso da sostanze dopanti era infatti sufficiente risultare entro i limiti per evitare squalifiche. Ma quella mattina a Madonna di Campiglio accadde l’impensabile: nel sangue di Pantani viene riscontrata una concentrazione di globuli rossi superiore al consentito. Il valore di ematocrito rilevato al cesenate fu infatti del 52% contro il limite del 50% consentito dal regolamento. Per qualche minuto si pensa se insabbiare il caso e far concludere la corsa a Pantani o dire la verità. È Candido Cannavò, direttore della Gazzetta dello Sport, a prendere la decisione finale: i dati ufficiali vengono diffusi, Marco Pantani viene squalificato con effetto immediato. Il pirata è incredulo, non vuole lasciare l’albergo, non vuole lasciare la corsa. È convinto che non sia possibile un valore così alto, è convinto che ci sia qualcosa di sbagliato. Esce dall’albergo scortato dai carabinieri mentre una folla di giornalisti lo assale, è la caduta del dio dello sport. È la fine di una carriera straordinaria, perché anche se la squalifica è di soli 15 giorni, il contraccolpo psicologico è devastante per Pantani: “C’è qualche cosa di strano.” Dice ai giornalisti che lo attendono in strada “Ripartire dopo una batosta come questa… L’ho fatto dopo grossi incidenti, mi sono sempre rialzato, ma questa volta non mi rialzo più.” E infatti Marco non si rialzerà più. Quel giorno a Madonna di Campiglio finì la carriera dello scalatore venuto dal mare. Il suo tentativo di tornare in sella nelle stagioni successive naufragò. Aveva perso la spensieratezza e la fiducia. Aveva perso la voglia di stare in un mondo che lo aveva fatto cadere.
Mentre da Madonna di Campiglio torna a Cesenatico, Pantani decide di fare una sosta. Un prelievo volontario in un centro specializzato di Imola per vedere cosa non andasse nel suo sangue. Il risultato è inequivocabile: il livello di ematocrito è intorno al 45%. Ben lontano dal 52% rilevato solo poche ore prima. La conferma che qualcosa non andava.
La morte – da quel giorno per Pantani inizia un vortice infinito che lo trascina sempre più in basso. Quel dio dello sport che come un profeta scalava le montagne per diffondere il suo verbo si ritrova all’improvviso all’inferno. La depressione prima e la droga poi. Fino al drammatico epilogo di quel tragico San Valentino. Il 14 febbraio 2004, il corpo senza vita di Marco Pantani viene ritrovato nella stanza D5 al residence ‘Le Rose’ di Rimini dove alloggiava da 4 giorni. Lontano da tutti, da solo con la sua depressione. La stanza a soqquadro e una dose di cocaina fecero subito pensare ad un delirio da overdose e l’autopsia stabilì che la causa della morte fosse un edema polmonare. Tanto bastò per far emergere quella come verità. Ma c’è qualcosa in questa vicenda che non torna. Dal metodo che sarebbe stato utilizzato per assumere la cocaina, l’ingestione secondo i carabinieri, al caos troppo ordinato per essere frutto di un delirio. Tonina Pantani, la mamma di marco che da allora cerca la verità, ha sempre fatto notare come le firme per il prelievo dei soldi che Pantani avrebbe usato per comprare la droga siano state falsificate e che non c’era traccia di droga nella camera del residence, se non quella che Marco avrebbe ingerito. Dubbi anche sulla stanza messa “scientificamente” in disordine e non in modo naturale da una singola persona in preda a overdose come attestato dalla Procura. Infine quei residui di cibo cinese, che Pantani detestava, l’assenza di una bottiglia d’acqua per ingerire la cocaina e alcuni lividi sul corpo dell’atleta pestato probabilmente da più persone per costringerlo a bere l’acqua con la cocaina. E sulla vicenda, ci sarebbe infatti una mano esterna al mondo del ciclismo. A rivelarlo per primo fu Renato Vallanzasca che, in una lettera indirizzata a Tonina, affermo che un suo amico habitué delle scommesse clandestine, lo abbia avvicinato cinque giorni prima del “fatto” di Madonna di Campiglio consigliandogli di scommettere sulla sconfitta di Pantani per la classifica finale, e assicurandogli che “il Giro non lo vincerà sicuramente lui”. Una mano criminale confermata negli anni anche dalla procura di Forlì che, prima di archiviare le indagini, evidenziò come “un clan camorristico minacciò un medico per costringerlo ad alterare il test e far risultare Pantani fuori norma”.

Quello che accadde dal 1999 al 20004 è troppo confuso e nascosto per poter sapere con esattezza cosa portò alla morte del pirata ma, se è oramai certo che l’esclusione dal giro del 1999 fosse un modo per fermare il campione romagnolo e incassare milioni in scommesse, possiamo solo ipotizzare cosa accadde dopo. Il campione ferito che cerca la verità su quel giorno. I suoi amici raccontano di un Pantani che non si da per vinto e indaga, cerca i nomi, cerca i motivi. Probabilmente Marco ha scoperto qualcosa. Probabilmente era troppo vicino alla verità. Probabilmente andava fermato in qualche modo per non scoperchiare un vaso di pandora. A fermarlo fu quella morte assurda su cui ancora aspettiamo verità. Una morte che ci ha tolto l’uomo, cinque anni dopo l’inganno che ci tolse il campione. Quel campione che ci faceva saltare sul divano ogni volta che lanciava la bandana. Quel campione che tenne un’intera nazione sognante davanti alla TV mentre leggero fluttuava nella nebbia del Galibier. Quel campione che ci fece scoprire il ciclismo e ci fece innamorare dei pirati. Perché da allora nulla è più come prima ma nel nostro cuore resterà indelebile il ricordo. In piedi sui pedali, mani basse sul manubrio, occhi dritti sulla strada. La bandana gettata via, l’orecchino che luccica e quello striscione che attende il suo passaggio:
“Dio c’è ed è pelato”.

Perchè piangiamo Kobe Bryant

“Whether you view me as a hero or a villain,please know I poured every emotion,every bit of passion and my entire self.”

“Sia che mi vediate come un eroe o come il cattivo,per favore, sappiate che ci ho messo ogni emozioneogni briciolo di passione, tutto me stesso.”
-Kobe Bryant, Lettera ai tifosi-


Un silenzio irreale. Un violoncello in mezzo al campo suona l’Hallelujah mentre sul tabellone scorrono le immagini di una carriera indimenticabile. Sugli spalti lacrime, commozione ed un silenzio che allo Staples Center di Los Angeles probabilmente non si sente nemmeno quando è vuoto. È il grande omaggio del popolo gialloviola ad un giocatore che per i Lakers, e per tutto il basket, ha significato molto più di quello che si può immaginare. Il prepartita è tutto per lui. Fuori dallo Staples Center migliaia di persone si sono radunate per portare fiori e ricordi. Sugli spalti ventimila maglie con i numeri 24 e 8 e due posti vuoti. Per Kobe Bryant e Gianna Bryant.


Kobe – Nato a Philadelphia il 23 agosto 1978, Kobe ha iniziato a giocare a basket all’età di 3 anni e non ha mai smesso. Figlio di Joe Bryant, ex cestista nel nostro campionato, Kobe ha vissuto per 7 anni in Italia seguendo il padre nelle sue avventure sportive tra Rieti, Reggio Calabria, Pistoia e Reggio Emilia. L’amore tra Kobe e il nostro paese è rimasto immutato in lui per tutta la vita, conquistato de un Italia così diversa dagli USA ma così bella e calorosa. E proprio quell’amore per l’Italia lo stava per portare a giocare nel nostro campionato. Nel 2011 in NBA scatta il “lockout”, lo sciopero delle proprietà delle squadre della lega che blocca totalmente il basket americano: le squadre non possono operare sul mercato, non si possono organizzare amichevoli, esibizioni o summer camp, i giocatori non ricevono gli stipendi e non possono avere nessun tipo di rapporto con i loro club. Una situazione che porta molti giocatori a scegliere, per qualche mese, di giocare in Europa per non perdere l’allenamento. Nasce li la pazza idea della Virtus Bologna di portare Kobe in Italia: dieci partite per un ingaggio totale di 3 milioni di euro, tra il 9 ottobre e il 16 novembre 2011. Kobe ci pensa, si confronta con il suo procuratore, e alla fine accetta. Nemmeno il tempo dei titoloni sui giornali, “Kobe quasi sì a Bologna” scrisse la Gazzetta, e arrivò il ripensamento. La NBA sarebbe potuta ricominciare da un momento all’altro e il Mamba non voleva rischiare di perdere un mese di regular season per il contratto con Bologna. Kobe scelse quell’NBA che lo aveva reso leggenda.

E in NBA Kobe ha lasciato un segno indelebile. Con 33.643 punti è il quarto miglior marcatore della storia della lega superato al terzo posto, con uno strano scherzo del destino, da LeBron James la sera prima dell’incidente proprio in quella Philadelphia che gli diede i natali. In carriera ha avuto una media di 25 punti a partita, da aggiungere a uno score di 4,7 assist, 5,3 rimbalzi e un totale di oltre 1.800 palle rubate. In carriera è stato due volte MVP delle Finals NBA, ha vinto due ori olimpici, cinque titoli NBA e anche un Oscar per il miglior cortometraggio. Dal 13 novembre 1996, Los Angeles Lakers-Minnesota Timberwolves (0 punti), al 13 aprile 2016, Los Angeles Lakers – Utah Jazz (60 punti). 20 anni con la stessa maglia, 1346 partite con la canotta gialloviola e quei due numeri: l’8 fino al 2006 “per piantare la sua bandierina nella lega” poi il 24 “simbolo della crescita: gli attributi fisici non sono quelli di una volta, ma la maturità e aumentata”. Due numeri che oggi tutto il mondo omaggia in ogni modo possibile. Due numeri che ora sono indissolubilmente legati ad un nome: Kobe Bean Bryant.


Leggenda – La morte di Kobe lascia increduli e storditi. Non solo per il modo in cui è arrivata, e non entreremo nel merito della vicenda e del dibattito sulla scelta di volare in condizioni non ideali, ma anche e soprattutto perché inaspettata e imprevedibile. Inaspettata ed imprevedibile come erano le sue giocate. Inaspettata e imprevedibile e dunque ancora più dolorosa. Il mondo del basket e quello sportivo più in generale hanno pianto la scomparsa di un campione che ha saputo travalicare i confini del suo sport diventando icona. Pochi prima di lui ci sono riusciti. Pochi riusciranno a farlo dopo di lui.

Perché Kobe ha rappresentato per un’intera generazione, quella nata tra gli anni ’80 e i ’90, il punto di riferimento nel mondo del basket. In un basket che sembrava potesse sprofondare nel buio dopo il ritiro di Michael Jordan, Kobe ha riacceso la luce prendendosi la scena e diventando per quella generazione ciò che Jordan fu per la precedente. Kobe era quel giocatore che conosceva anche chi non seguiva il basket. Era quel giocatore di cui tutti i ragazzini al campetto avevano la canotta e imitavano le mosse.  Per 20 anni Kobe ha rappresentato l’atleta individualista per eccezione, un maestoso solista capace di fare canestro quando voleva e come voleva, a prescindere dal difensore, dal compagno, dall’allenatore in panchina o dai fischi dei tifosi in tribuna. Per 20 anni Kobe è stato anche un meraviglioso direttore d’orchestra in grado di smistare palloni d’oro ai compagni, la coppia Bryant-O’Neal è nella storia della pallacanestro, e di motivarli all’inverosimile prima e durante le partite. Kobe è riuscito ad essere contemporaneamente icona individuale e uomo squadra perfetto. Ci ha insegnato che non importa quanto si può essere forti, non si è mai migliori degli altri e si può vincere solo facendolo tutti insieme. Con i suoi allenamenti notturni mentre tutti dormivano, con i suoi tiri in solitaria alle 5 del mattino in una palestra deserta, con la sua “mamba mentality” ci ha insegnato che si può sempre migliorare, anche dopo 5 titoli NBA. Basta crederci e dare tutto. Kobe ha reso reale quello che tutti pensavamo potesse esistere solo nella nostra immaginazione. Perché tutti noi abbiamo iniziato da quei calzini arrotolati lanciati nel cestino, come in quel cortometraggio da Oscar. Perché se nel silenzio di un campetto di periferia, mentre la palla lasciava le mani, abbiamo sentito la sirena di fine quarto e il boato dello Staples Center è stato solo grazie a lui. Perché se quando tiriamo, gridiamo ancora “Kobe!” scoprendoci campioni quando la palla danza sul ferro è grazie a lui. Da NBA Action di Italia1 alla pay-tv passando per Sportitalia e i siti pirata con telecronaca in russo. Quella sveglia puntata alle 2 o alle 3 di notte era dolcissima. Per vent’anni le nostre notti insonni hanno avuto lui come attore protagonista, le sue movenze, i suoi arresto e tiro, i suoi sorrisi. Per vent’anni lo abbiamo visto danzare su un parquet con la palla in mano. Lo abbiamo visto cadere, piangere e rialzarsi più forte. Lo abbiamo visto vincere e lo abbiamo visto perdere. Per vent’anni Kobe è stato il basket. E forse no, non siamo pronti a lasciarlo andare. E ora che non c’è più, chiudendo gli occhi immagino ancora quel cronometro che scorre. Cinque secondi alla fine, palla in mano. Quella danza sulla linea dei tre punti, e un finale che già si sa.


“5… 4… 3… 2… 1…Love you always.”

Pallone Criminale #4: Le curve nelle mani delle mafie

Il legame tra la tifoseria organizzata della Juventus e clan della ‘ndrangheta è solo il caso simbolo in un mondo, quello ultras, fatto di rapporti pericolosi e criminali. Ma la presenza mafiosa negli stadi non si limita a Torino, è articolata in tutta Italia e sempre più preoccupante.

L’inchiesta “Alto Piemonte”, che ha svelato i rapporti tra la criminalità organizzata e la tifoseria bianconera, ha acceso un importante faro su un fenomeno pericolosamente diffuso in molte curve italiane. Nel microcosmo rappresentato dalla curva sembrano riprodursi i quattro requisiti del modello mafioso. Attraverso l’infiltrazione ai vertici dei gruppi ultras, i clan, riescono ad esercitare un capillare controllo del territorio-curva. Guadagnano un ruolo egemone sui membri della tifoseria organizzata e, sfruttando quella posizione, riescono a creare una rete di dipendenze personali in cui gli appartenenti alle varie compagini risultano essere assoggettati ai capi delle stesse e seguono le loro indicazioni diventando così soggetti funzionali al clan, dentro e fuori lo stadio. La curva può così diventare un bacino di reclutamento per le organizzazioni criminali che possono sfruttare la propensione alla violenza di certi gruppi ultras.

Questo connubio tra criminalità organizzata e mondo ultras sembra aver svolto un ruolo centrale durante le proteste contro l’apertura di una discarica a Pianura, in provincia di Napoli, nel 2008. Nel momento culmine dell’emergenza rifiuti, la protesta legittima dei cittadini che non volevano convivere con i problemi relativi alla riapertura fu affiancata da quella violenta dei gruppi ultras manovrati dai clan. Gli interessi della camorra nel settore dello smaltimento dei rifiuti cozzavano con la riapertura della discarica e dunque l’organizzazione fece intervenire, al fianco dei manifestanti pacifici, gruppi di tifosi arruolati nelle curve del San Paolo con il compito di ingaggiare duri scontri con le forze dell’ordine. Una presenza aliena e combattiva che, come un esercito privato, si mette al servizio della camorra.    

D’altro canto, è noto che la camorra sia presente in maniera pervasiva nelle due curve dello stadio San Paolo sede delle partite casalinghe del SSC Napoli. Lo ha ribadito il sostituto procuratore della Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli Enrica Parascandolo, sentita in audizione dalla Commissione Parlamentare Antimafia nell’aprile 2017, sottolineando come la divisione in due curve (Curva A e Curva B) della tifoseria organizzata partenopea rispecchi una diversa provenienza territoriale intesa, non solo ma anche, come presenza di diversi gruppi camorristici. Mentre la “Curva B” è sotto il controllo del clan Lo Russo, per quanto riguarda la “Curva A” emerge la presenza di diversi clan che vantano un controllo sul centro di Napoli. Proprio la Curva A è stata nel 2015 teatro degli scontri tra il gruppo ultras denominato “Mastiffs”, legato ai clan di Forcella, e quello “Rione Sanità”, legato ai clan dell’omonimo quartiere. Le due fazioni, unite dalla fede calcistica erano però divise da una lotta che stava insanguinando la città e non risparmiò nemmeno lo stadio.

La presenza all’interno dello stadio rappresenta per il soggetto criminale la dimostrazione del suo controllo su un territorio e un modo per accrescere ed affermare il suo potere. Accade, come abbiamo visto, a Napoli ma anche a Palermo dove storicamente tutti gli interessi criminali riguardanti lo stadio Renzo Barbera sono amministrati dai clan del quartiere Resuttana-San Lorenzo dove sorge l’impianto. Così, oltre ad infiltrazione in business collegati al club, si registra la presenza di esponenti del clan ai vertici della tifoseria organizzata rosanero. E proprio grazie a questa penetrazione nella curva dei supporters del Palermo negli anni sono stati esposti striscioni con messaggi che poco hanno a che fare con il mondo del calcio e sembrano piuttosto dettati dagli interessi della criminalità organizzata. Emblematico ad esempio lo striscione esposto durante Palermo – Ascoli il 22 dicembre 2002 con la scritta “Uniti contro il 41bis. Berlusconi dimentica la Sicilia”. La scelta della partita non fu certo casuale, innanzitutto perché il giorno dopo il parlamento avrebbe reso definitivo il regime del 41bis, avente fino ad allora carattere provvisorio, e in secondo luogo perché proprio nel carcere di Marino del Tronto, ad Ascoli, era allora detenuto in isolamento Totò Riina. Un messaggio chiaro ed inequivocabile lanciato all’allora Presidente del Consiglio come ultimo disperato tentativo di far sentire il proprio dissenso verso un regime carcerario così temuto dai clan.    

La presenza di uomini legati ai clan negli stadi, nei territori a naturale insediamento mafioso, è dunque principalmente una dimostrazione di potere ed una conseguenza del controllo del territorio. Essere rappresentati da uno striscione esposto al San Paolo attesta il prestigio di un clan di camorra oltre a ribadire il suo dominio su una parte della città, così come la presenza di esponenti di spicco di Cosa Nostra nella tifoseria palermitana è la dimostrazione del controllo di un quartiere in cui tutto deve essere sotto il controllo criminale e lo stadio non può certo fare eccezione.  

Le recenti inchieste hanno però svelato la presenza di soggetti legati a organizzazioni mafiose anche lontano dai territori tradizionali nelle tifoserie di due squadre tra le più importanti del nostro campionato: la Juventus e il Milan. Ma se quando “giocano in casa” le mafie perseguono soprattutto interessi sociali, in trasferta sembrano puntare principalmente sull’aspetto economico. Questo sembra essere per lo meno il quadro che emerge dalle vicende legate alla tifoseria bianconera dove si registra un totale controllo del territorio-curva da parte di soggetti criminali. La “Relazione su Mafia e Calcio” redatta nel dicembre 2017 dalla Commissione Parlamentare Antimafia evidenzia come per la costituzione di un nuovo gruppo di tifosi nella curva dello Juventus Stadium sia necessaria una doppia autorizzazione: una da parte degli ultras storici e una direttamente dalle cosche calabresi. Figura centrale della vicenda è Rocco Dominello, incensurato ma legato alle famiglie Pesce-Bellocco di Rosarno, il quale grazie al prestigio guadagnato nella curva bianconera si è gradualmente posto come interlocutore tra la tifoseria organizzata e la società. I suoi rapporti con la dirigenza lo portano così a svolgere un doppio ruolo, da una parte mantiene la pace tra i vari gruppi e si fa garante dell’ordine pubblico nella curva, dall’altra si pone come gestore dei tagliandi omaggio rilasciati dalla società ai propri supporters. Ed è proprio la gestione di quei biglietti a garantire ingenti guadagni alle cosche calabresi. Rivenduti a prezzi maggiorati possono portare profitti fino a trentamila euro a partita, come sostenuto dai sostituti Procuratori Toso e Abbatecola. Un business importante e proficuo gestito in un regime di monopolio da Dominello evitando, grazie al controllo totale della curva, le pretese di altri gruppi su quei biglietti.    

Diversa è invece la situazione relativa alla tifoseria del Milan. Nel luglio 2018 i vertici storici della “Curva Sud”, sede della tifoseria organizzata rossonera, dovendo valutare l’ingresso di nuovi gruppi ultras nel settore hanno di fatto aperto le porte del cuore del tifo organizzato a un gruppo denominato “Black devil”. Scorrendo i nomi dei membri di questo gruppo si capisce quanto possa essere pericoloso il loro ingresso nella curva sud. Leader dei “Black devil” è, infatti, Domenico “Mimmo” Vottari, cinquantenne con rapporti e parentele con i clan coinvolti nell’inchiesta “Infinito” e sospettato di aver condizionato le elezioni amministrative del 2009 a Senago, nell’hinterland milanese. Pur non essendo mai stato indagato per mafia sono molti i rapporti dubbi intrattenuti da Vottari tra cui spiccano quelli con Salvatore Muscatello, nipote dell’omonimo Salvatore Muscatello per decenni punto di riferimento per le ‘ndrine del Nord, e con Domenico Agresta imparentato con il capo bastone della locale di Assago. La società si è detta consapevole della caratura di Vottari e di altri membri del gruppo ma, non essendo soggetti a Daspo non ha potuto impedirne l’accesso a San Siro. Allo stesso modo i leader della Curva Sud vedono il nuovo gruppo come una componente non gradita a cui, dopo un iniziale rifiuto, non sono però riusciti a chiudere le porte.   Anche il tifo, dunque, subisce le ingerenze di una criminalità organizzata che pervade il mondo del calcio in ogni suo aspetto. Con il nostro viaggio abbiamo provato a far luce su come le mafie provino ad inquinare lo sport più seguito dagli italiani. Uno sport malato e senza anticorpi in cui proliferano interessi di ogni genere alle spalle di tifosi che non vedono o non vogliono vedere. Una presa di coscienza collettiva deve necessariamente essere il primo passo per ripulire i nostri campionati e tornare a guardare spensierati i nostri beniamini correre dietro un pallone.

Pallone Criminale #3: la Camorra e le scommesse

L’evoluzione del business delle scommesse per l’organizzazione campana rappresenta un esempio paradigmatico della capacità delle mafie di sfruttare situazioni diverse a proprio vantaggio. Dal totonero degli anni ’70 alla gestione dei centri scommessi per adattarsi alla società che cambia.

Sono molti gli studiosi secondo cui il termine camorra deriverebbe dalla morra, gioco diffuso tra il “popolino” in cui vinceva chi indovinava il numero che i due giocatori sommavano aprendo insieme, contemporaneamente, le dita di una mano. Il camorrista, secondo questa visione era colui che dirigeva il gioco, impedendo litigi e risse e guadagnando con esso. Il legame tra la criminalità campana e il gioco d’azzardo risulta dunque essere antico e consolidato e questo interesse non poteva certo risparmiare uno dei settori più ricchi del gioco d’azzardo: il calcioscommesse. Il business delle scommesse non è più gestito in maniera monopolistica dall’organizzazione campana. Molte mafie, la ‘ndrangheta in primis, hanno iniziato a sfruttare questa inesauribile fonte di profitti ma l’analisi dell’interesse dei clan campani ci sembra paradigmatica dell’evoluzione che ha subito questo business in risposta ai mutamenti del contesto.

Un primo avvicinamento della camorra a questo settore è stato l’esercizio del cosiddetto “totonero” ovvero la gestione parallela e clandestina del totocalcio nazionale. Il meccanismo attuato dai clan era semplice, grazie alla presenza di tabaccai collusi, il clan veniva a sapere in tempo reale l’identità dei soggetti vincenti e offriva loro un pagamento immediato e in contanti della vincita, che lo stato avrebbe pagato dopo mesi, in cambio della schedina vincente. Grazie a questo scambio tra mondo criminale e non, le cosche immettevano sul circuito legale i soldi guadagnati dal narcotraffico ottenendo in cambio una somma identica ma perfettamente legale proveniente direttamente dall’Agenzia dei Monopoli di Stato. Era dunque il riciclaggio il motivo che spinse in origine la camorra ad intraprendere questo business: una vincita al totocalcio, il famoso “13”, poteva valere diversi milioni di lire (5 miliardi la vincita massima registrata nella storia del concorso) e garantiva quindi ai clan un importante canale per ripulire i propri soldi.
Lo schema seguito dai clan risultava sicuramente vantaggioso per gli interessi dei gruppi criminali ma aveva anche molti limiti. Innanzitutto era necessaria la presenza di soggetti esterni all’organizzazione disposti a collaborare: rivenditori collusi e soggetti vincenti disposti a incassare la vincita da un canale alternativo. Un’altra criticità era legata alle vincite che, seppur milionarie, non erano certo così frequenti ed erano soprattutto disseminate su tutto il territorio nazionale. Attraverso questo schema i clan erano in grado ripulire i propri soldi solo attraverso le schedine vincenti giocate presso i rivenditori complici, potevano dunque contare su un numero esiguo di cedole e dunque su un giro di affari certamente vantaggioso ma limitato. A partire dagli anni ’80 per tentare di eliminare le criticità di questo sistema si registra un cambiamento radicale nella gestione delle scommesse clandestine. Inizia così il vero e proprio “totonero”, un concorso identico a quello ufficiale ma ad esso parallelo e interamente nelle mani dei clan. Soggetti legati a diversi gruppi camorristici stilavano un palinsesto con le quote per le singole partite e raccoglievano le scommesse pagando eventuali vincite subito ed in contanti con i proventi degli affari illeciti. I principali attori coinvolti in questo settore erano Luigino Giuliano detto “O’ Re”, boss di Forcella, e Salvatore Lo Russo detto “O’ Capitone”, boss di Miano. Proprio quest’ultimo si occupava della creazione del palinsesto su cui scommettere e dell’elaborazione delle quote su cui puntare. Era un business molto più ricco di quello precedentemente sperimentato che, come riferito dal pentito Guglielmo Giuliano, fruttava all’organizzazione guadagni superiori ai due miliardi di lire settimanali.
La crisi del sistema del totonero ha inizio con il decreto 174/1998 che ha aggiornato il quadro normativo in tema di scommesse. Fino a quel momento, infatti, le uniche scommesse legali erano quelle effettuate sulle corse dei cavalli, per tentare la fortuna nel calcio vi era solamente la possibilità di giocare la famosa “schedina”. Con la nuova normativa, invece, si apre un ventaglio quasi infinito di possibili giocate per ogni partita, non più solo i risultati finali ma anche i singoli aspetti della partita: dal numero dei calci d’angolo ai marcatori, da chi batte il calcio d’inizio a chi segna per primo. Quella che poteva essere una battuta d’arresto per i clan si è trasformata però in una nuova enorme opportunità. Giuseppe di Nocera, ex esponente del clan Gallo-Cavalieri ora collaboratore di giustizia, racconta infatti che “quando le scommesse da illecite sono diventate legali anche i gruppi camorristici interessati e coinvolti nel settore delle scommesse clandestine hanno colto l’opportunità di legalizzarsi”.
A partire dagli anni 2000 si apre quindi una nuova era nella gestione illecita delle scommesse da parte della camorra. Attore principale di questa nuova fase, come risulta dall’inchiesta “Golden Gol” della Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli, era Vincenzo D’Alessandro, boss dell’omonimo clan operante a Castellammare di Stabia, con la collaborazione di altri due soggetti: Antonio De Simone, direttore commerciale della società greca Intralot, e Maurizio Lopez, responsabile quote presso la stessa società. Il primo aveva il compito di individuare i gestori delle agenzie Intralot sul territorio, proprio grazie a lui la camorra stabiese aveva ottenuto la gestione di sei ricevitorie ed era in procinto di aprirne altre tre. Il secondo invece, per conto della società greca, stabiliva le quote e ne seguiva l’andamento, era lui a decidere se accettare o rifiutare scommesse di somme elevate. Grazie alla collaborazione dei due il clan riesce ad elaborare un sistema quasi infallibile. Dagli sportelli con il marchio Intralot alcune puntate erano dirottate sul sito http://www.milanobet.com creato appositamente dall’organizzazione e privo di autorizzazione. A questo sito erano destinate soprattutto le scommesse con basse probabilità di vittoria mentre quelle più facilmente realizzabili venivano giocate sul circuito legale. In questo modo le puntate perdenti entravano direttamente nelle casse del clan, se invece la scommessa risulta vincente contro le aspettative del clan la vincita veniva pagata in contanti con i soldi sporchi della camorra e non tramite bonifico come dovrebbe avvenire da regolamento. Un “sistemone perfetto” che garantiva al clan un guadagno in qualsiasi caso, o in termini di riciclaggio o di profitto economico.
La genesi della gestione clandestina delle scommesse sembra dimostrare una incredibile capacità di adattamento da parte dei clan. Gli interventi normativi che avrebbero dovuto arginare il problema sono stati colti dall’organizzazione come nuove opportunità da sfruttare. La camorra si è dimostrata in questa vicenda un passo avanti rispetto alle autorità ed ha utilizzato a proprio favore i cambiamenti apportati proprio per contrastarla: nel calcio come nelle altre attività, dunque, si registra una grossa capacità di trarre vantaggio da situazioni che sembrerebbero tutt’altro che favorevoli.

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FONTI:
  • Cantone Raffele – Di Feo GianlucaFootball Clan, Best BUR, Milano, 2014
  • Romani Pierpaolo, Calcio criminale, Rubettino, Soveria Mannelli, 2012

Pallone Criminale #2: i club nelle mani delle mafie

La colonizzazione ai vertici delle società calcistiche offre alla criminalità organizzata vantaggi importanti trasformando il club in uno strumento nelle mani dei clan. I numeri dimostrano come, dai club di provincia fino alla Serie A, le mafie nel calcio siano sempre più presenti

A partire dagli anni ’90 il calcio è diventato qualcosa più di un semplice sport. Sotto la spinta di sempre maggiori interessi economici il calcio professionistico è diventato un business miliardario che ha generato nel 2015 un giro d’affari di 3,7 miliardi, pari a 5,7 punti del PIL nazionale. La distribuzione di questa cifra è però fortemente polarizzata verso le squadre professionistiche che hanno originato circa il 70% dei ricavi totali. È evidente quindi come si possano individuare due mondi quasi paralleli: da una parte le squadre professionistiche con introiti importanti e un giro d’affari enorme, dall’altra le squadre dilettantistiche lontane dai riflettori e con poche risorse economiche. Sono proprio le società della Lega Nazionale Dilettanti, vera e propria base del calcio italiano con quasi quindicimila società e circa un milione di giocatori, quelle maggiormente esposte alle mire della criminalità organizzata. Seguendo dinamiche simili alla penetrazione in altri settori economici le cosche individuano i soggetti con problemi finanziari e, sfruttando i controlli superficiali del calcio minore, si offrono come soluzione attraverso la vendita della squadra a una nuova proprietà spesso nascosta dietro un prestanome.  

Una volta acquistata la proprietà di un club esso diventa uno strumento nelle mani del clan che lo utilizza per perseguire i propri interessi economici e sociali. Spesso accade che una volta rilevata la proprietà di una squadra il sodalizio criminale si disinteressi delle sorti sportive della squadra. È accaduto ad esempio alla SSC Giuliano società campana posta sotto sequestro in seguito all’operazione “Arcobaleno”, condotta nel 2010 dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli, perché riconducibile al latitante Giuseppe Dell’Aquila esponente apicale del clan camorristico Mallardo. Questa vicenda, come evidenziato dalla Commissione Parlamentare Antimafia, dimostra il disinteresse del clan alle sorti della squadra che in tre anni precipitò dalla C2 fino al campionato Eccellenza. Il sodalizio mafioso al vertice del club aveva infatti interessi di tipo puramente economico e sfruttava il club per imporre ai commercianti locali la sponsorizzazione della squadra garantendosi importanti introiti perfettamente leciti.

Diversi erano invece gli interessi nel calcio della cosca di ‘ndrangheta Pesce per cui nel 2011 la Direzione Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria ha disposto il sequestro di tre squadre: l’AS Rosarno e la ASD Cittanova Interpiana, in Calabria, e il Sapri Calcio, in Campania. Attraverso la gestione dei tre club Francesco e Marcello Pesce avevano costruito un disegno criminale complesso ed articolato. Oltre ad una legalizzazione del pizzo operata, come nel caso del Giuliano Calcio, attraverso l’imposizione di sponsorizzazioni ai commercianti locali il clan aveva altri molteplici interessi di carattere diverso. La gestione del club di Rosarno, feudo della famiglia Pesce, era allo stesso tempo emanazione di un controllo totale del territorio e strumento per consolidare e accrescere il consenso sociale grazie alle vittorie sul campo che davano lustro ai suoi proprietari. Il Sapri, riuscito ad iscriversi al campionato 2005/2006 solo grazie ad una importante immissione di liquidità da parte di Marcello Pesce, era invece un avamposto del clan per investimenti in una terra, il Cilento, da tempo finita nelle mire della criminalità calabrese soprattutto per il settore alberghiero e dello smaltimento dei rifiuti. Attraverso la gestione della squadra Marcello Pesce puntava ad aprire un canale diretto tra la cosca e il territorio campano in modo da essere avvantaggiato in futuri affari. Il ruolo dell’Interpiana è stato invece chiarito dal collaboratore di giustizia Salvatore Facchinetti il quale ha dichiarato che l’interesse dei Pesce per la gestione delle squadre era collegata ai contatti garantiti dalla frequentazione di giocatori provenienti da territori diversi. Sfruttando la rete di contatti e il loro legame con il territorio d’origine il clan era riuscito a creare una rete che permetteva di sfruttare nuove aree di sviluppo per le attività illecite.

Ma se la presenza della criminalità nelle divisioni inferiori è sempre più diffusa, non mancano tentativi di scalata ai club del massimo campionato italiano. È quanto accaduto nel 2005 alla SS Lazio, vincitrice in quegli anni di uno scudetto e due coppe Italia, finita al centro di un tentativo di acquisto da parte del clan dei Casalesi. Un primo approccio si ebbe attraverso l’imprenditore Giuseppe Diana proprietario della “Diana Gas”, azienda specializzata nella distribuzione di bombole e combustibili operante in Campania, con stretti legami con il boss dei casalesi Michele Zagaria e con la famiglia Schiavone. La proposta portata al presidente biancoceleste Lotito prevedeva la sponsorizzazione della squadra durante le gare europee per un compenso di due milioni di euro. La dirigenza, pur riconoscendo l’offerta come vantaggiosa, decise di rifiutare. Ad insospettire Lotito infatti vi erano due aspetti: un primo dubbio riguardava l’interesse che poteva avere una società operante solo in Campania a sponsorizzare una squadra romana per le sole partite internazionali, ma ancora di più lo allarmò una particolare clausola introdotta da Diana nella trattativa: il pagamento sarebbe avvenuto in contanti.

Il gruppo criminale però, dopo questo rifiuto, non si diede per vinto e contattò Chinaglia, ex bandiera biancoceleste, convincendolo a porsi come volto della cordata che tenterà l’acquisto della società. Contemporaneamente prese contatti con la frangia più calda della tifoseria laziale che, scontenta della gestione del presidente Lotito, iniziò una feroce contestazione alla dirigenza spingendo per un ritorno al vertice della società del mai dimenticato idolo. A guidare la rivolta dei tifosi fu in particolare il gruppo ultras denominato ‘Irriducibili’ guidato da Fabrizio “Diabolik” Piscitelli. L’ultras, ucciso giovedì in un agguato a Roma, fu condannato nel 2015 per aver condotto una campagna intimidatoria verso il presidente biancoceleste per convincerlo a cedere il club. Nel frattempo la cordata iniziò a muoversi prendendo contatti con i vertici della attraverso il paravento di una fantomatica holding farmaceutica ungherese disposta ad acquistare subito la proprietà del club e ad immettere nuovi capitali nel bilancio societario.

I capitali vantati dalla cordata in realtà non erano altro che i proventi delle attività illecite trasferiti all’estero e, una volta ripuliti, fatti rientrare in Italia attraverso istituti bancari Svizzeri, Tedeschi e Ungheresi. Le oscillazioni del titolo in borsa e gli strani movimenti di capitali allarmarono le autorità competenti e a tal punto da rendere necessario il blocco dell’operazione e l’arresto degli attori coinvolti. Chinaglia si dichiarò sempre all’oscuro di questa vicenda e, raggiunto da un mandato di arresto internazionale, morì latitante negli Stati Uniti nel 2012.   L’obiettivo della cordata, in questo caso, non era il profitto ma il potere. L’acquisto di questa squadra non avrebbe certo portato ad ingenti guadagni ma avrebbe aperto le porte dello Stadio Olimpico al clan di Casal di Principe. Ogni domenica, infatti, il cuore della “Tribuna Monte Mario” si popola di figure di spicco, la Roma che conta è riunita per novanta minuti sulle 230 poltroncine della tribuna autorità: parlamentari, ministri, uomini d’affari, imprenditori, persino il Presidente della Repubblica assiste a qualche partita. Avere un posto in quel settore, per di più entrandoci da protagonista, avrebbe assunto un valore incalcolabile per il clan. Non solo un prestigio enorme per i soggetti criminali coinvolti, ma anche e soprattutto una serie di frequentazioni con personaggi difficilmente avvicinabili in altro modo. Se si fosse concretizzato il progetto di Diana il clan avrebbe avuto a disposizione un esercito di potenziali pedine da muovere al momento giusto nel suo complesso gioco criminale.

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