Monthly Archives: settembre 2021

La morte di Mario Paciolla e un silenzio che dura da 14 mesi: cosa è successo realmente?

Quattordici mesi dopo la morte di Paciolla un silenzio assordante è calato sulla vicenda. Mentre la procura di Roma indaga, ostacolata dalle autorità colombiane e dall’ONU, media e opinione pubblica sembrano essersi dimenticati di quel “creatore di Futuro” ucciso in Colombia.

Sono passati oltre 14 mesi dalla morte di Mario Paciolla, il cooperante italiano trentatreenne trovato morto in Colombia il 15 luglio 2020 mentre si trovava in missione per conto dell’Onu. Quattordici mesi trascorsi tra indagini a rilento e un silenzio assordante di media e opinione pubblica. Perché sin dall’inizio sono stati pochi, pochissimi, ad interessarsi al caso di Paciolla e tenere alta l’attenzione su quanto stava succedendo. Pochi i media che ne hanno parlato, pochi i comuni che hanno esposto lo striscione realizzato dalla famiglia per chiedere verità.

Una verità che stenta a venire a galla anche per via dei numerosi depistaggi, delle ricostruzioni contradditorie e dei muri di silenzio. Le avvocatesse Alessandra Ballerini ed Emanuela Motta che stanno seguendo il caso hanno spiegato che le indagini vanno avanti, ma che l’omertà anche tra i colleghi di Mario sta rallentando le operazioni dei magistrati. La versione fornita dalle autorità colombiane e dall’ONU, che sin dall’inizio hanno parlato di suicidio, non ha mai convinto fino in fondo e sarebbe stata definitivamente smentita dai risultati dell’autopsia svolta dall’equipe medica guidata dal dottor Vittorio Finsecchi, che si è occupato tra gli altri anche dei casi Cucchi e Regeni. Un risultato che conferma i dubbi sollevati da subito dai genitori a cui Mario aveva più volte confidato di temere per la sua incolumità tanto da acquistare, il giorno prima del presunto suicidio, un biglietto aereo per tornare anzitempo in Italia. Un risultato che, soprattutto, ha spinto le autorità italiane a riaprire il caso con la Procura di Roma che ha disposto ulteriori accertamenti chiedendo ai colleghi colombiani una serie di perizie ulteriori per far luce sulla morte di Paciolla.

Mentre resta viva più che mai la pista che collega la morte del cooperante italiano ai bombardamenti delle forze armate colombiane dell’agosto 2019, su cui Paciolla aveva realizzato un rapporto per le Nazioni Unite, i genitori Anna e Giuseppe chiedono che finalmente possa essere fatta luce sul suo decesso. “Noi crediamo, anzi siamo certi, che le persone che lo frequentavano e in particolare chi lavorava nella sua squadra sapesse e sa.” hanno scritto in una lettera aperta pubblicata da Repubblica nelle scorse settimane “I suoi amici, che vediamo sorridenti con lui nelle foto scattate solo qualche mese prima della sua morte, sanno molte cose ma si guardano bene dal parlare. E quel sorriso oggi ci sembra falso e ci fa male. Ci rivolgiamo a chi sorrideva con lui nelle fotografie: parlate, non tradite ancora Mario. Non soffocate la vostra coscienza, non siate pavidi. Vi preghiamo, non lasciateci in questa incertezza, restituiteci le ultime giornate di Mario. Per noi chi non parla è complice di questo delitto. Aiutateci ad avere un po’ di pace e a restituire dignità a Mario e alle vostre esistenze.” Quel silenzio degli amici che si riflette nel silenzio dell’opinione pubblica che sembra essersi dimenticata del “creatore di futuro”, come lo ha definito Roberto Saviano, ucciso in Colombia. Un creatore di futuro che non possiamo e non dobbiamo dimenticarci e su cui dobbiamo tenere i riflettori accesi fino a quando non sarà fatta giustizia. Fino a quando mamma Anna e papà Giuseppe avranno, finalmente, una verità.

La lotta alla delocalizzazione: dai lavoratori in trincea a un governo immobile

“Con uno sciopero cerchi di scuotere il capo
che in effetti cosa fa se non scuotere il capo?”
-Caparezza-


Sono passati 70 giorni da quando GKN in una notte, con una mail, ha licenziato 422 lavoratori a Campi Bisenzio. Il motivo? La proprietà, facente capo al fondo inglese Melrose, vuole delocalizzare la produzione nell’Est Europa per risparmiare sui costi. Quello dei lavoratori della GKN, scesi in corteo ieri con lo slogan “insorgiamo”, è però solo l’ultimo caso di una tendenza sempre più consolidata nel nostro paese a spostare la produzione all’estero e licenziare i lavoratori.

Delocalizzazioni – La lotta dei lavoratori della GKN è diventata così il simbolo di una lotta che coinvolge migliaia di lavoratori. Perché, spiegano i lavoratori, si tratta di una delocalizzazione “pura”. Una delocalizzazione che non arriva come reazione ad un periodo di crisi ma è giustificata solo dalla volontà di massimizzare i profitti da parte della proprietà. Perché alla GKN non c’è stato alcun segno di crisi prima dell’annuncio dei licenziamenti e le perdite del 2020 sembravano riparate con il +7% nei bilanci del primo trimestre 2021 e un +14% nel bilancio di previsione. Una modalità che sembra però essere sempre più diffusa per quelle realtà gestite da fondi speculativi che antepongono a tutto il profitto. Da ultima è stata la Riello ad annunciare il licenziamento di 71 lavoratori dallo stabilimento di Villanova di Cepa per spostare la produzione verso l’Est Europa alla ricerca di costi più bassi e maggiori profitti. Non a caso in “undici pagine di procedura di licenziamento non si legge mai la parola ‘crisi’. Mai”, ha sottolineato Alessandra Tersignidella della Fiom di Pescara dopo l’annuncio dei licenziamenti. Una crisi che, in effetti, non sembra esserci nemmeno per l’azienda controllata dal colosso statunitense Carrier Group tanto da aver chiuso il 2020 con un utile di 19 milioni di euro.

Situazioni che si aggiungono alle crisi già sedimentate. Dai 400 lavoratori della Embraco ai 110 della Bekaert passando per la vertenza Whirlpool, con 300 dipendenti in lotta da tre anni, e l’agonia di un comparto siderurgico che arranca in tutta Italia da Piombino a Taranto, dove nella ex ILVA ci si prepara alla cassa integrazione per altri 4.000 lavoratori.

Decreto – Una situazione sconcertante che aveva portato addirittura nelle scorse settimane alla mobilitazione di oltre cento sindaci scesi in piazza, con in testa il primo cittadino di Firenze, per chiedere al governo provvedimenti urgenti contro le delocalizzazioni. Da Roma, in realtà, qualcosa si era mosso. A fine agosto sul tavolo del Consiglio dei Ministri era arrivata la bozza di un decreto anti-delocalizzazioni elaborato sull’onda delle proteste dei lavoratori della GKN. Il riferimento giuridico di ispirazione è sembrato essere la Loi Florange, emanata da Hollande in Francia nel 2014 in piene elezioni per il caso di ArcelorMittal, che però ha avuto poco impatto nella volontà di delocalizzare di un’azienda. A ciò si aggiungono gli emendamenti presentati dai partiti che hanno ammorbidito le misure iniziali fino a rendere il testo quasi inutile. La multa del 2% sul fatturato per chi non vende è sparita dal decreto, così come la creazione di una black list per le imprese che hanno delocalizzato, complici le pressioni di Confindustria. Le parole di Bonomi, che ha tuonato contro il governo che con questa misura vuole “colpire le imprese”, sono state raccolte da tutto il centrodestra che ha così potuto far leva sul parere di Confindustria per chiedere a Draghi di depotenziare il decreto trasformandolo in un semplice decreto-legge da discutere con calma in parlamento. A ciò si aggiunge un elemento ulteriore: il decreto potrebbe non riguardare le crisi già in corso ma solo quelle future. Con buona pace dei lavoratori in lotta da mesi o anni.

Documento – Ad oggi le uniche norme concordate fra ministero del Lavoro e Mise sono il “preavviso di 90 giorni” e un “piano di mitigazione dell’impatto socio economico” da discutere con i sindacati che, se non rispettato dall’azienda, porterebbe ad aumentare il costo dei licenziamenti per l’azienda. Un testo evidentemente indebolito rispetto alle bozze iniziali in cui si prevedevano multe salate per chi decide di delocalizzare. Un testo che, è evidente, non può che far piacere a Confindustria mettendo in un angolo le vertenze dei lavoratori. Per questo motivo lo stesso collettivo della Gkn fin da subito ha chiesto di poter scrivere assieme al governo il provvedimento e, riunendo un gruppo di giuslavoristi in assemblea, ha elaborato un piano in otto punti che possa servire come base per una legge. Il testo “Fermiamo le delocalizzazioni” prevede la cessione dell’azienda solamente come ultima ratio e, in ogni caso, chiede che in questo caso si preveda “un diritto di prelazione da parte dello Stato e di cooperative di lavoratori impiegati presso l’azienda anche con il supporto economico, incentivi ed agevolazioni da parte dello Stato e delle istituzioni locali”. Prima di arrivare a tanto, però, i lavoratori della GKN chedono che lo stato verifichi l’esistenza di condizioni economiche oggettive tali da giustificare la chiusura dello stabilimento e si attivi per l’individuazione di una soluzione alternativa da definire “in un Piano che garantisca la continuità dell’attività produttiva e dell’occupazione di tutti i lavoratori coinvolti presso quell’azienda, compresi i lavoratori eventualmente occupati nell’indotto e nelle attività esternalizzate”.

I lavoratori della GKN, insomma, sembrano avere le idee chiare su come si possa combattere un fenomeno che coinvolge ogni anno migliaia di lavoratori. Il governo, invece, rimane in attesa mentre un decreto che dovrebbe essere tra le misure prioritarie si è fermato per le pressioni degli imprenditori e per i capricci dei partiti.

Un omicidio e un agguato in due giorni a Torre Annunziata: è guerra aperta tra i clan di camorra.

Dopo le stese di quest’estate, a Torre Annunziata aumenta la violenza. Due agguati in meno di 24 ore, di cui uno mortale, hanno insanguinato il comune alle porte di Napoli facendolo sprofondare in un inferno di paura. Così la camorra riaccende una guerra mai sopita.

Sono settimane di tensione altissima a Torre Annunziata, comune di 42mila abitanti alle porte di Napoli. Dopo le stese, i raid compiuti dai rampolli dei clan con colpi sparati in aria e contro le saracinesche a scopo intimidatorio, arrivano anche agguati ed omicidi. Il primo si è registrato nella giornata di sabato con un primo raid nella giornata di sabato in cui è rimasto ferito un cinquantasettenne, legato al clan Gionta, ricoverato in condizioni gravi dopo essere stato raggiunto da due proiettili. Domenica, invece, un secondo agguato ha portato alla morte di Francesco Immobile soggetto già noto alle forze dell’ordine per la sua vicinanza ai clan. L’uomo è stato raggiunto da una decina di colpi di pistola esplosi in pieno giorno mentre si trovava nel piazzale antistante la chiesa di Sant’Alfonso de’ Liguori.

Un’estate di sangue e violenza che sta tenendo Torre Annunziata ostaggio della paura riportando indietro di anni le lancette dell’orologio. Ma ad incutere maggiormente timore è il fatto che, a quanto sembra allo stato attuale, le violenze delle ultime settimane rappresenterebbero qualcosa di più. Non una violenza fine a sé stessa né un regolamento di conti: a Torre Annunziata sarebbe in corso una vera e propria faida tra clan. Ne è sicuro anche il primo cittadino Vincenzo Ascione secondo cui “la scarcerazione di alcuni personaggi di spicco legati alla criminalità, in un contesto già particolarmente compromesso come quello che vive Torre Annunziata, sta avendo il nefasto effetto di scatenare una guerra tra fazioni rivali per il controllo del territorio.” Una guerra per il controllo del territorio che, pur essendo esplosa con tutta la sua violenza negli ultimi mesi, è frutto di un’escalation di tensioni tra i clan radicati nel comune e determinati a imporsi sui rivali.

Sangue e violenze che Torre Annunziata non vuole più tollerare. Così oggi è andata in scena una manifestazione a cui hanno preso parte anche il deputato Paolo Siani, fratello del giornalista Giancarlo ucciso dalla Camorra, e il senatore Sandro Ruotolo che ribadito come la città sia ostaggio dei clan. “Non c’è più tempo da perdere.” Ha tuonato il senatore campano “Si è fin troppo sottovalutata la situazione. Dobbiamo disarmare Torre Annunziata. Siamo stanchi di una città in cui i diritti vengono negati. Fortapàsc non l’abbiamo ancora sconfitto”. E se le istituzioni faticano a reagire in modo forte alle violenze, la cittadinanza ha deciso di non restare a guardare. Nei giorni scorsi è stato presentato ufficialmente il “Comitato di liberazione dalla camorra” che riunisce oltre 40 associazioni con l’obiettivo di vigilare sul territorio e promuovere una cittadinanza attiva che si ribelli al malaffare. “All’emergenza criminale, al terrore delle bande di camorra rispondiamo con la mobilitazione.” Si legge nel comunicato del comitato “L’inadeguatezza delle diverse risposte mette ancora di più in crisi una città allo stremo della tenuta sociale, dove la sicurezza e la vivibilità sono particolarmente precarie. C’è una democrazia indebolita, la giunta comunale ha smarrito credibilità, autorevolezza e la capacità di essere un riferimento solido nella guida della comunità. Per questo motivo gruppi del volontariato, scuole, sindacato, associazionismo, parrocchie, enti, rappresentanti istituzionali, comuni cittadini si sono uniti per fare squadra e schierarsi a difesa della legalità, al bisogno di giustizia contro la cultura della violenza e della sopraffazione”.

La camorra, però, sembra essere in fibrillazione in tutta l’area e non solo a Torre Annunziata. Soltanto ieri a Napoli si è consumato l’ennesimo agguato: venti colpi sparati in pieno giorno nei vicoli del centro hanno raggiunto e ucciso Salvatore Astuto, 57 anni più volte indicato dalle forze dell’ordine come vicino al clan Mazzarella. La camorra, insomma, sta provando a rialzare la testa sfidando lo stato con una guerra sanguinosa che potrebbe degenerare. Lo stato, ora, deve rispondere. Con decisione e senza lasciare spazi a chi vorrebbe “governare” la Campania.

Verso il voto: la galassia complottista e no-vax candidata alle amministrative

Con la chiusura delle liste per le prossime amministrative si è definito il quadro dei candidati. Tra di loro, soprattutto nelle città principali, spicca la presenza di liste e candidati apertamente contrari a vaccini e green pass che fanno leva su teorie complottiste.

La corsa alle amministrative del 3 ottobre entra nel vivo. Dopo la presentazione delle liste e dei candidati sindaco nei 1.349 comuni chiamati al voto, le campagne elettorali entrano nel vivo con la presentazione dei programmi e dei temi a cui ogni lista vuole dare la priorità. Tra i tanti temi al centro dei dibattiti, soprattutto nelle grandi città, c’è inevitabilmente quello legato alla pandemia ed alla campagna vaccinale. E così tra i candidati spunta una schiera di complottisti, “no green pass” e “no vax” raccolti, quasi sempre nel “Movimento 3V – Vacini, vogliamo verità”.

Nato nel 2019 come partito antisistema, il Movimento 3V ha trovato nuova linfa per i suoi slogan grazie alla pandemia. Sul loro sito si presentano come “l’unico partito che mette al centro il benessere del cittadino” pronto a porsi come “baluardo contro le vessazioni degli attuali provvedimenti politici contrari alla Costituzione, ai diritti umani e a qualsiasi forma di etica”. Il primo nemico è, ovviamente, la campagna vaccinale portata avanti dal governo e definita “una guerra lampo in cui a crollare sono i diritti fondamentali dell’uomo riconosciuti dalla Costituzione”. Sul sito del movimento, poi, è presente la lista delle “15 ragioni di medici e scienziati che ci convincono a non vaccinarci” con al primo posto una motivazione che sembra aver poco a che fare con la scienza: “io non sono una cavia”. Ma ad animare il Movimento 3V non sono solo i vaccini e l’opposizione ad una fantomatica “dittatura sanitaria”. Tra le ultime battaglie si registrano anche quelle contro i pagamenti con carte di credito, con tanto di hashtag #iopagoincontanti “contro la moneta elettronica in difesa della libertà e dell’economia delle persone reali”, e contro il 5G e l’aumento dell’elettrosmog.

Dopo gli scarsi risultati ottenuti nelle regionali del 2020, il Movimento 3V sembra pronto per un salto di qualità che potrebbe portarlo ad approdare in qualche consiglio comunale cavalcando l’orda ribelle che nelle ultime settimane sta agitando le piazze di diverse città. Così, in vista delle amministrative in quasi tutte le principali città sono presenti candidati sindaci di questo schieramento: da Trieste, dove il candidato sindaco Ugo Rossi si fregia di aver collaborato con Silvia Cunial per fermare il 5G, a Bologna, dove Andrea Tosatto non ha dubbi: “La politica ha cambiato il concetto di pandemia dipingendo un virus perfettamente curabile come un killer fantasma”. Poi Milano, Rimini, Torino, Roma, Napoli e così via con un totale di 9 candidati sindaci “no-vax” che tenteranno l’assalto ai consigli comunali.

Ma in molte città, il movimento 3V dovrà contendersi i voti della galassia no vax con tutti quei partiti che strizzano l’occhio a negazionisti e complottisti. In primis “ItalExit”, guidato dall’ex 5 stelle Gianluigi Paragone che pur puntando tutto sull’uscita dall’euro facendo leva sulle difficoltà economiche dei cittadini sta cavalcando da settimane l’onda delle proteste contro vaccini e green pass. E se a Milano il candidato sindaco sarà proprio Paragone, per Torino ItalExit ha scelto Ivano Verra che di recente ha affermato che “c’è chi è pronto a baciare i malati di Covid per contrarre il virus piuttosto che vaccinarsi”, e che “Carla Fracci e Raffaella Carrà dimostrano le conseguenze del vaccino essendo morte dopo averlo fatto”.

Ma se il movimento 3V e ItalExit rappresentano i casi più estremi di “anti sistema” e non nascondono le loro idee complottiste e no vax, c’è anche una parte della politica “istituzionale” pronta a raccogliere i voti dei ribelli del vaccino. Lega e Fratelli d’Italia, infatti, mentre pubblicamente condannano le teorie complottiste non hanno mai smesso di ammiccare alle posizioni opposte. Non solo intervenendo più volte in modo ambiguo su questioni come vaccini e green pass ma anche, e soprattutto, candidando in diversi comuni esponenti di quella stessa galassia negazionista e no vax. Il caso più estremo è senza dubbio quello di Francesca Benevento, candidata a sostegno di Michetti nella capitale, apertamente antisemita e no-vax che si è scagliata contro il ministro Speranza definendolo “il ministro ebreo ashkenazita formato dalla McKinsey, che riceve ordini dall’élite finanziaria ebraica”.

Una schiera di no vax e no green pass, insomma, si contenderà i voti di chi nelle ultime settimane scendi in piazza per ribadire la propria contrarietà alle regole pensate per arginare una pandemia che ha già fatto oltre 130mila vittime nel nostro paese. Resta da vedere quale seguito avranno e quanti, effettivamente, saranno pronti a sostenerli alle urne. 

Il costo nascosto della fast fashion: come ciò che indossi sta uccidendo il pianeta

La verità è, signora, che il vero bisogno dell’uomo di oggi è questo di buttare e comprare, buttare e comprare, perché questo è il consumismo. Questo è l’origine di tutti i nostri guai.
– Così parlò Bellavista-


Siamo abituati a poter indossare di tutto. Cambiamo vestiti quando ci va, comprandoli a prezzi sempre più bassi grazie alla grande distribuzione che scopiazzando le passerelle d’alta moda sforna capi ed accessori a milioni per soddisfare ogni desiderio. È il mondo del fast fashion, termine coniato nel 1989 dal New York Times in occasione dell’apertura del primo negozio di Zara per descrivere un nuovo modo di consumare e vestirsi. Una moda veloce, dove veloce sta per breve. Una moda quasi usa e getta, accessibile a tutti e estremamente intercambiabile. Una moda che, però, ha anche ripercussioni pesantissime.

Dati – Nel febbraio 2020, quando il covid era ancora considerato un problema della sola Cina, Ubs inviò una nota sui marchi di retail europeo che avrebbero sofferto di più per la diffusione del virus in quel Paese. Nessun dubbio su quali sarebbero stati: H&M e Inditex, il colosso spagnolo che controlla Zara e altri sette marchi. Da li a un mese, però, il problema sarebbe diventato globale con serrande abbassate in tutto il mondo e negozi costretti a chiudere. Sembrava l’inizio di un cambiamento epocale anche nel campo della moda, un cambiamento che avrebbe dovuto portare al collasso delle logiche “fast” per un ritorno ai consumi “slow”. Mai previsione fu così sbagliata.

Nemmeno il covid, infatti, ha fermato l’ascesa del fast fashion e l’ondata pandemica sembra anzi aver dato ai due big del settore un impulso decisivo. Stando alle analisi dell’analista di Barclays Nicolas Champ, esperto di retail, tasso medio di crescita nei prossimi tre anni sarà di 2,98% per H&M e di 5,33% per Inditex. Una crescita dovuta ad uno stile di vita sempre più frenetico che, come detto, porta ad essere alla costante ricerca di novità. Così, se la moda tradizionale ora ridefinita “slow” propone due collezioni annue, i brand “fast” replicano arrivando a produrre fino a 52 micro-stagioni annuali. Praticamente una nuova collezione ogni settimana. Il tutto anteponendo inevitabilmente la quantità di produzione del bene alla sua effettiva qualità. Il tutto per soddisfare i desideri dei clienti, sempre più orientati ad un continuo ricambio. Si compra e si butta in continuazione come se fossimo gli abitanti della mitologica Leonia descritta da Calvino tra le sue città invisibili: 

“più che dalle cose che ogni giorno vengono fabbricate vendute comprate, l’opulenza di Leonia si misura dalle cose che ogni giorno vengono buttate via per far posto alle nuove. Tanto che ci si chiede se la vera passione di Leonia sia davvero come dicono il godere delle cose nuove e diverse, o non piuttosto l’espellere, l’allontanare da sé, il mondarsi d’una ricorrente impurità.

Inquinamento – Ma in questa in questa corsa al consumismo più sfrenato, che altro non è se non frenetica ricerca del superfluo, qualcosa viene sacrificato. Secondo le stime, infatti, l’industria tessile occupa il secondo gradino del podio come industria più inquinante al mondo con circa 5.000 tonnellate di CO2 emesse ogni anno, e questo soprattutto a causa della Fast Fashion. I dati, emersi in una ricerca pubblicata su Nature reviews Earth and Environment, sono sconcertanti: ogni anno vengono consumati 1.500 miliardi di litri d’acqua, la lavorazione e la tintura dei tessuti sono responsabili di circa il 20 per cento dell’inquinamento idrico industriale, circa il 35 per cento (cioè 190mila tonnellate all’anno) delle microplastiche che popolano gli oceani è attribuibile ai lavaggi dei capi in fibre sintetiche e i rifiuti tessili superano i 92 milioni di tonnellate ogni anno. 

Una delle principali cause dell’inquinamento dell’industria della moda è data dalla dispersione globale dei processi che caratterizzano la catena di approvvigionamento. La produzione e la manifattura si sono notoriamente spostate verso aree in cui la manodopera ha un basso costo, contribuendo a un sostanziale declino, se non all’estinzione, della produzione in molti paesi sviluppati. In questo modo aumenta la complessità della filiera a scapito della trasparenza, anche grazie alla poca contezza di ciò che accade nei paesi meno sviluppati. Ma non è finita. Perché se nel processo produttivo si registra un sostanziale disinteresse per l’ambiente con l’uso, e spesso l’abuso, di risorse e prodotti inquinanti alla fine del ciclo produttivo l’impatto ambientale cresce con la distribuzione. Una volta prodotti, infatti, i capi vengono spediti nei centri di distribuzione da cui partono per i negozi al dettaglio di tutto il mondo. E se un tempo il trasporto avveniva in gran parte attraverso navi container, le logiche del fast fashion oggi vogliono che tutto sia ancora più veloce e si è così passati a spedizioni tramite aerei cargo che permettono di risparmiare tempo. Il tutto, ovviamente, con un impatto ambientale maggiore.