Monthly Archives: dicembre 2019

La lunga via per la libertà di Omoyele Sowore

“Hey, what are we waiting for?
We’ve come to far to let this go
Always on the outside looking in
The door is swinging in the wind
It’s time to go and march on in
It’s time to show them what we’re all about”


La Nigeria è uno dei paesi più corrotti al mondo. Lo dicono i dati raccolti da “Transparency International”, l’organizzazione non governativa nata nel 1993 a Berlino che ogni anno monitora il livello di trasparenza e corruzione nel mondo. Nel “Corruption Perception Index”, una lista comparativa della corruzione percepita in tutto il mondo che viene aggiornata e pubblicata ogni anno, la Nigeria occupa costantemente le ultime posizioni (144esima su 180 nel 2018) segno di come il problema sia diffuso nel paese africano. Una situazione certamente nota in tutto il mondo. Un sistema corruttivo così penetrante da aver coinvolto anche altri paesi tra cui l’Italia, finita al centro di un caso politico internazionale a seguito della maxitangente che sarebbe stata pagata da Eni a funzionari nigeriani nell’affare OPL245. Un sistema criminale corruttivo contro cui da anni si batte Omoyélé.

Sowore – Nato nel sud del paese il 16 febbraio 1971 Sowore è stato cresciuto in una famiglia poligama con sedici fratelli. Appena maggiorenne, nel 1989, scese in piazza insieme a migliaia di Nigeriani per protestare contro le pretese del Fondo Monetario Internazionale. Un accordo siglato dal governo con l’ente, infatti, prevedeva lo stanziamento di 120 milioni di dollari per la realizzazione di un oleodotto ma tra le condizioni imposte dal FMI vi era anche la riduzione del numero di università in Nigeria da 28 a 5. Un’imposizione accettata di buon grado dal governo nigeriano, pronto a sacrificare l’istruzione sulla via dello sviluppo economico, ma non dai giovani e dai movimenti studenteschi. Iniziò così l’attivismo politico di Sowore che nel giro di un paio d’anni sarebbe diventato anche presidente dell’Unione studentesca dell’Università di Lagos, dove si è reso protagonista di ferventi battaglie contro cultismo e corruzione.  Battaglie che lo portarono spesso ad essere in prima linea su diversi fronti.

Nel 1992, con la Nigeria sempre più nel caos dopo due tornate elettorali annullate per frodi, fu a capo di una protesta studentesca contro il regime di Babangida. Le manifestazioni guidate da Sowore furono represse nel sangue dalla polizia che aprì il fuoco sugli studenti uccidendone sette e ferendone centinaia. Sowore, salvatosi dai colpi degli agenti, non riuscì a sfuggire all’arresto. Condotto in carcere fu detenuto e torturato per alcune settimane prima di essere rilasciato. Arresti e detenzioni arbitrarie divennero in quegli anni quasi la normalità per Sowore che nonostante le violenze subite rimase in prima nelle proteste antigovernative. Rimase in prima linea soprattutto in occasione delle elezioni del 12 giugno 1993. Considerate, ancora oggi, le elezioni più regolari della storia della Nigeria venero nuovamente annullate da Babangida scatenando un’ondata di proteste senza precedenti. Migliaia di persone scesero in piazza e, ancora una volta, la polizia represse nel sangue le manifestazioni provocando oltre cento morti. Ma, questa volta, i manifestanti ne uscirono vittoriosi e, rimasto senza supporto popolare e militare, Babangida fu costretto a dimettersi e a passare il potere ad un “governo ad interim” il 27 agosto 1993.

L’attivismo di Sowore, però, non si interruppe. Il governo di Shonekan non riuscì ad imprimere alla Nigeria quella svolta auspicata dai manifestanti e corruzione e criminalità continuarono a pervadere ogni ambito della vita politica e civile. Nei primi anni 2000, per sfuggire ai continui arresti politici, Sowore decise di lasciare il paese e rifugiarsi negli Stati Uniti. Nel 2006 fondò nel New Jersey l’agenzia di stampa “Sahara Reporters” con l’intenzione di continuare a denunciare anche a distanza le nefandezze che continuavano a susseguirsi nel suo paese natale. Un progetto di “citizen Journalism” con cui Sowore vuole mettere al centro i racconti dei propri connazionali incoraggiando le persone comuni a riferire storie di corruzione, violazioni dei diritti umani e altre condotte politiche. Protetto dal primo emendamento della Costituzione statunitense, Sowore ha pubblicato oltre 5.000 inchieste attirando su di sé diverse minacce da individui di cui aveva denunciato i crimini.  

Revolution Now – Dopo aver guadagnato un importante seguito con le proprie inchieste, però, Sowore ha sentito la necessità di agire in modo concreto per il proprio paese. Il 25 febbraio 2018 ha annunciato il suo ritorno in patria per candidarsi ufficialmente alle elezioni presidenziali dell’anno successivo con un proprio partito: l’African Action Congress. Durante tutta la campagna elettorale, consapevole di non avere grosse possibilità di ottenere un buon risultato, Sowore ha denunciato i crimini commessi dal governo e il livello insostenibile di corruzione nel paese. Con il suo slogan “Riprendi l’azione!” ha provato a spronare i propri concittadini a prendere coscienza dei problemi di una Nigeria sempre più in ginocchio e bisognosa di una svolta radicale. Svolta che, come prevedibile, non è arrivata dalle urne che hanno visto la vittoria del presidente uscente Muhammadu Buhari, al centro di pesanti critiche e di numerose inchieste per i suoi legami con il vecchio regime.

Una sconfitta che ha però dato a Sowore la forza di organizzare una delle più grandi manifestazioni nella storia del paese. A giungo infatti viene annunciata per il 4 agosto una manifestazione di massa per protestare contro la rielezione di Buhari, contro la corruzione, contro la criminalità sempre più presente e le continua violazioni dei diritti umani in Nigeria. “Tutto ciò che è necessario per una #Rivoluzione” aveva dichiarato “è che gli oppressi scelgano una data che desiderano per la libertà, senza sottoporsi all’approvazione dell’oppressore” e proprio per questo motivo, la protesta, aveva preso un nome provocatorio e significativo: #RevolutionNow. Ma proprio i toni e i continui inviti ad una rivoluzione, anche se pacifica, hanno portato ad una violenta repressione. Il 4 agosto decine di migliaia di persone sono scese in piazza nelle principali città del paese ma le proteste sono state sedate ovunque con lacrimogeni ed arresti massicci. Nella capitale Abuja si sono reistrati scontri tra polizia e manifestanti in cui diverse persone sono rimaste ferite. Ma in piazza quel giorno, non c’era Omoyele Sowore.

Arresto – Alla vigilia della protesta, infatti, agenti dell’intelligence del Dipartimento dei Servizi di Stato (DSS) hanno fatto irruzione nel suo appartamento e lo hanno arrestato con accuse pesanti e spropositate: cospirazione, tradimento e terrorismo. Un arresto che ha da subito destato pesanti preoccupazioni sia in Nigeria che nel resto del mondo. Un arresto che è sin da subito sembrato un modo per togliere la voce ad uno dei più importanti attivisti della storia del paese proprio alla vigilia della più importante manifestazione degli ultimi anni. Di Sowore, per alcuni giorni, non si è saputo nulla. Nessuno ammetteva l’arresto, nessuno sapeva dove fosse detenuto ne in che condizioni. È stato lui stesso, il giorno successivo alla manifestazione a rompere il silenzio. “Sto bene e sono in ottima salute” ha detto ai compagni di partito che dopo 4 giorni senza notizie erano riusciti ad ottenere un incontro con lui, “Sono lieto che le pacifiche proteste #RevolutionNow siano andate avanti”.

Ma quello che sembrava potesse essere l’ennesimo arresto lampo nel lungo attivismo di Omoyele, si è invece trasformato in un incubo infinito. Se da una parte il tribunale di Abuja ne aveva disposto il rilascio immediato per permettere ulteriori accertamenti, il Dipartimento dei Servizi di Stato ha sempre rifiutato la richiesta trasformando di fatto il suo arresto in una detenzione arbitraria. Da quel momento, infatti, sono stati negati a Sowore i più basilari diritti che un detenuto dovrebbe avere. Costretto a stare in una stanza senza mai la luce del sole e senza nessun contatto con l’esterno, nemmeno telefonicamente.  Una detenzione che ha sempre più sollevato polemiche per la sua chiara connotazione politica e per l’evidente tentativo di mettere a tacere un oppositore tenace e sempre più seguito. Per due volte il tribunale della capitale ne ha disposto il rilascio su cauzione e, per due volte, il DSS ha negato ai familiari il rilascio. Persino quando, il 6 dicembre, sembrava tutto finito l’intelligence ha sparigliato le carte macchiandosi dell’ennesima violazione. Costretti dal tribunale, i Servizi di Stato avevano accettato di rilasciare Sowore su cauzione e gli avevano concesso la libertà. La libertà, però, è durata il tempo di un abbraccio con gli amici. Dopo circa 3 ore, infatti, l’intelligence è tornata a bussare alla porta di Omoyele e lo ha ricondotto in carcere con nuove accuse tra cui “cyberstalking al presidente”.

L’ennesimo abuso delle autorità nigeriane. L’ennesima prevaricazione che ha fatto tornare il paese ai tempi della dittatura provocando lo sdegno dell’intera comunità internazionale. Sdegno e prese di posizione che hanno messo sempre più nell’angolo il presidente Buhari fino alla spallata finale del 20 dicembre che lo ha costretto a cedere. Con un documento ufficiale firmato da 6 senatori il Congresso degli Stati Uniti ha indirizzato ad Abubakar Malami, procuratore generale e ministro della Giustizia della Nigeria, un appello affinché Sowore fosse rilasciato. Nella lettera, i senatori si dicevano “estremamente preoccupati per la mancata applicazione della normale procedura e dello stato di diritto nei confronti di un cittadino statunitense” ed auspicavano una rapida risoluzione del caso che potesse far tornare la Nigeria ad essere “un modello democratico per tutta l’Africa”. Una posizione, quella degli Stati Uniti, a cui il presidente non poteva rimanere indifferente e che ha contribuito in maniera determinante agli avvenimenti dei giorni successivi.

 “Il mio ufficio” ha comunicato Malami il 24 dicembre “ha deciso di ottemperare alle ordinanze del tribunale e rilasciarlo su cauzione”. È il miracolo del Natale. Il pomeriggio della Vigilia di Natale, Sowore è tornato in libertà. A bordo di un’utilitaria rossa ha lasciato il Dipartimento di Sicurezza dove era detenuto dal 3 agosto ed è potuto finalmente tornare a casa dove, oltre a decine di giornalisti da tutto il mondo tranne che dall’Italia, lo aspettavano in lacrime i suoi amici. Chi era con lui in macchina ha raccontato la sua felicità. La sua gioia per la ritrovata libertà. Le sue risate e quel canto che ha voluto sussurrare, più a se stesso che agli altri, per ricordarsi che tutto questo non cambierà il suo impegno:

“I can feel the change is coming in the air

I can feel the revolution now

I can feel the change is coming in the air

I can feel the revolution now”

25 dicembre 1914: come il Natale fermò la guerra

La più bella favola del Natale arriva dalla realtà. Nel 1914 una tregua spontanea sul fronte occidentale regalò una giornata di umanità e fratellanza ai due schieramenti in guerra. Una partita di pallone impresse per sempre quel momento nella storia della I Guerra Mondiale.

Doveva essere una guerra lampo, la Prima Guerra Mondiale. Era questa per lo meno l’idea di Guglielmo II, ultimo imperatore tedesco, che il 1° agosto salutò i soldati in partenza per il fronte con la celebre frase “Tornerete nelle vostre case prima che siano cadute le foglie dagli alberi”. La storia ci insegna che non fu così e l’Europa divenne teatro di violenti scontri tra due schieramenti: Gran Bretagna, Francia e Russia da una parte, Germania, Austria-Ungheria e Turchia dall’altra. Più tardi sarebbero entrati nel conflitto anche Bulgaria, Giappone, Italia, Stati Uniti e una serie di Paesi “minori”, trasformando così la contesa nella prima guerra su scala globale della storia. Cinque mesi dopo la dichiarazione di guerra, i soldati erano ancora nelle trincee. A fine autunno, la battaglia di Ypres aveva fermato l’avanzata delle truppe tedesche verso il mare ma aveva anche trasformato il conflitto in una estenuante guerra di logoramento. I due schieramenti si fronteggiavano dalle trincee. I soldati, barricati in fossati profondi due metri e rinforzati alla buona con assi di legno, venivano scagliati dai superiori all’assalto del nemico quotidianamente per guadagnare una manciata di metri. Tra le truppe dei due schieramenti, stremate da una guerra che credevano potesse essere breve come promesso, iniziò a serpeggiare un malcontento diffuso. Ma la guerra, si sa, non guarda in faccia nessuno e incuranti del malcontento malcelato dei soldati, i generali continuarono ad ordinare azioni per tutto l’inverno. Fino al giorno di Natale.

A nulla era servito l’appello di Papa Benedetto XV che, il 7 dicembre 1914, chiese ai due schieramenti di concedere una tregua natalizia auspicando che “i cannoni possano tacere almeno nella notte in cui gli angeli cantano”. Una richiesta caduta nel vuoto. Rifiutata categoricamente dagli ufficiali su tutto il fronte occidentale. Nel susseguirsi di giorni drammaticamente uguali, solo gli auguri dei superiori ricordano ai soldati che è Natale. Il primo Natale lontano da casa. Il primo Natale passato al fronte a combattere una guerra ordinata da altri. Tra i soldati, nelle trincee, oltre al malcontento inizia a sentirsi una forte malinconia. Qualcuno beve per dimenticare. Alcuni mettono delle candele sul bordo delle trincee. Qualcun altro osa cantare. Un canto natalizio che ben presto contagia tutta la trincea. E mentre si leva al cielo la voce dei soldati qualcuno si accorge che nell’altra trincea, quella che dicono esser nemica, succede lo stesso. Per alcuni interminabili minuti, le voci di tedeschi e inglesi si levano all’unisono in un canto di speranza e fraternità. E allora si alza la testa oltre il fossato e, per la prima volta, non si rischia di perderla. Si esce dalla trincea e non si deve richiedere nessun fuoco di copertura. Si cammina sul campo di battaglia e, per la prima volta, nessuno rischia di morire.
È il miracolo del Natale. Quella che sembra la più bella favola è invece realtà. Il fronte occidentale si ferma. Oltre 100.000 soldati, contravvenendo agli ordini dei superiori, fermano la guerra. Una tregua spontanea, un cessate il fuoco su tutto il fronte. Soldati tedeschi e anglo-francesi si corrono incontro, si abbracciano, si scambiano doni. Quello che fino al giorno prima era un bersaglio diventa all’improvviso un amico, un fratello. Quella “terra di nessuno” tra le due trincee, fino al giorno prima luogo di morte e orrore, diventa la terra di tutti, diventa luogo di vita e festa. Tabacco, cibo, alcolici, ma anche bottoni e pezzi di divisa: qualsiasi oggetto si trasformò in un simbolo di amicizia da regalare al nemico. Lo racconta bene, nel suo diario, Bruce Bairnsfather fumettista britannico chiamato al fronte come Capitano della 34° divisione.  Non dimenticherò mai quello strano e unico giorno di Natale” scrisse “Notai un ufficiale tedesco, una specie di tenente credo, ed essendo io un po’ collezionista gli dissi che avevo perso la testa per alcuni dei suoi bottoni. Presi la mia tronchesina e, con pochi abili colpi, tagliai un paio dei suoi bottoni e me li misi in tasca. Poi gli diedi due dei miei in cambio. Vidi uno dei miei mitraglieri, che nella vita civile era una sorta di barbiere amatoriale, intento a tagliare i capelli innaturalmente lunghi di un docile soldato tedesco
All’improvviso, dalla trincea inglese, qualcuno calciò un pallone di stoffa. Quello strano oggetto, tutt’altro che sferico, rimbalzò tra i soldati. Qualcuno, siamo certi, lo guardò sorridendo mentre ripensava alle partite giocate prima della guerra. Tutti si fermarono a guardarlo fino a quando qualcuno più intrepido degli altri, o semplicemente più ubriaco, gli tirò un calcio. Iniziò così la partita più bella e significativa del secolo scorso. Iniziò così quella che, non ce ne vogliano i protagonisti di quell’indimenticabile Italia-Germania di Città del Messico, fu la vera “partita del secolo”. Senza squadre, porte nè limiti di campo. Senza arbitri, senza regole. Tedeschi e inglesi continuarono a tirare quella palla da una parte all’altra fino a notte fonda. Qualcuno continuò fino a crollare esausto al suolo. La partita finì 3-2 per i tedeschi, o almeno questo scrissero alcuni soldati nei loro diari. La tregua continuò anche il giorno seguente per permettere ai due schieramenti di recuperare i corpi abbandonati dei propri caduti e riportarli nelle trincee. Molti dei partecipanti alla tregua furono puniti dai superiori. i battaglioni iniziarono ad essere trasferiti sempre più rapidamente da un campo di battaglia all’altro per impedire ai soldati di fraternizzare con i nemici. I superiori cercarono di far dimenticare quel momento di leggerezza ai soldati. Tentarono di nasconderlo anche al mondo. Oggi, 115 anni dopo, una frase sul diario di un soldato rimane la più preziosa testimonianza di quello che quel momento rappresentò per i le truppe:

“Il pallone aveva rimpiazzato le pallottole.
Per la durata di una partita di calcio l’umanità
aveva ripreso il sopravvento sulla barbarie”

Da Johnson a Trump:guida all’impeachment

“Then conquer we must, when our cause it is just,
And this be our motto: “In God is our trust.”
And the star-spangled banner in triumph shall wave
O’er the land of the free and the home of the brave!”


“È un assalto al partito Repubblicano!”. Ma l’attacco, più che al partito, sembra proprio indirizzato a lui. Donald Trump, da mercoledì, è ufficialmente in stato di accusa dopo che la camera ha approvato con 230 voti contro 197 la mozione per aprire la procedura di impeachment nei confronti del presidente. Trump sarà così il terzo presidente americano ad essere giudicato dal senato dopo Johnson e Clinton rispettivamente nel 1868 e nel 1998.

Impeachment – L’impeachment, o messa in stato di accusa, è una procedura prevista dalla Costituzione degli Stati Uniti per destituire i funzionari governativi che sono accusati di “tradimento, corruzione, altri crimini gravi e illeciti”. Non solo il presidente, dunque, ma anche il vicepresidente, i funzionari amministrativi e i giudici federali possono essere messi in stato di accusa. Nei circa 240 anni di storia degli Stati Uniti la procedura di impeachment è stata aperta 19 volte: 15 volte contro giudici federali, una volta contro un segretario di gabinetto, una volta contro un senatore e due volte contro un presidente.

La procedura per la messa in stato di accusa inizia alla Camera dei Rappresentanti su proposta di un membro della stessa presentando un elenco delle accuse sotto giuramento. Proprio la Camera dei Rappresentanti ricopre un ruolo chiave dunque nella procedura per l’impeachment ed è riconosciuta dalla Costituzione (Articolo I, Sezione 2, Clausola 5) come unica titolare del diritto di avviare tale procedura. Una volta mosse le accuse formali nei confronti del funzionario, la risoluzione deve essere votata dalla maggioranza semplice (50%+1). Se la mozione viene approvata il funzionario in questione è ufficialmente in stato di accusa ed il procedimento passa al senato dove si svolge un vero e proprio processo con ciascuna delle parti che ha il diritto di chiamare testimoni ed eseguire esami incrociati. I senatori, dopo aver prestato giuramento per garantire un approccio onesto e diligente al caso, ascoltano le accuse e le motivazioni della difesa per poi votare in privato le incriminazioni. Se i 2/3 dei senatori votano a favore della condanna, il funzionario in stato di accusa decade immediatamente dal proprio incarico senza possibilità di ricorrere né di chiedere la grazia presidenziale.

Precedenti – La prima volta che un presidente statunitense venne messo in stato di accusa era il 24 febbraio 1868. Protagonista della vicenda fu il democratico Andrew Johnson, che subentrò a Lincoln dopo il suo omicidio diventando il diciassettesimo presidente degli Stati Uniti. Nei primi anni della sua presidenza cercò di favorire un rapido ristabilimento degli Stati secessionisti in seno all’Unione a seguito della guerra civile appena conclusasi. Ma il suo percorso di ricostruzione trovò un ostacolo nel Segretario alla Guerra Edwin Stanton che tentò di ostacolare la politica presidenziale volta a favorire quanto più possibile la crescita degli stati del sud rispetto a quelli del nord. Fu proprio la figura di Stanton ad essere al centro dello scandalo che coinvolse il presidente. Il 5 agosto 1967, mentre i lavori del Senato erano in pausa, Johnson chiese formalmente le dimissioni del Segretario alla Guerra e, dopo il suo rifiuto, lo sospese in via temporanea in attesa di una nuova riunione del Senato. Riunitosi nuovamente il 4 gennaio 1968, il Congresso a maggioranza repubblicana disapprovò la decisione del Presidente e con 35 voti contro 16 rifiutò di ratificare la sospensione di Stanton. La decisione di Johnson di forzare ulteriormente la mano nominando, nonostante il voto sfavorevole, Thomas come nuovo Segretario alla Guerra scatenò la reazione del congresso che si appellò al “Tenure of Office Act”. La legge, approvata l’anno prima dal parlamento, limitava nettamente i poteri del presidente prevedendo espressamente il divieto di rimuovere dall’incarico i titolari di uffici federali durante la pausa dei lavori congressuali senza consultarlo. Accusato di abuso di potere per aver intenzionalmente violato la legge, Johnson fu incriminato dalla camera che con 128 voti contro 47 aprì ufficialmente la procedura per l’impeachment. Ma il processo, iniziato il 6 marzo e durato 3 mesi, si concluse con un risultato imprevedibile: il senatore repubblicano del Kansas Edmund G. Ross decise di non seguire la linea del suo partito e votò contro la condanna. Grazie alla sua defezione, infatti, non si raggiunse per un solo voto la maggioranza dei 2/3 necessaria per destituire il presidente e Johnson rimase in carica fino alla fine del suo mandato.

130 dopo Johnson alla sbarra finì il 42° presidente degli Stati Uniti: Bill Clinton. Eletto per il secondo mandato presidenziale nel 1997, il 19 dicembre 1998 venne messo in stato d’accusa dalla Camera dei Rappresentanti che lo incriminò per spergiuro e ostruzione alla giustizia. Le accuse, mosse dal Procuratore indipendente Ken Starr e presentate al congresso dal Comitato Giudiziario della Camera, riguardavano in particolare la sua relazione extraconiugale con Monica Lewinski, stagista 22enne della Casa Bianca. Lo scandalo, conosciuto come “Sexgate”, travolse l’amministrazione Clinton ed ebbe una portata mondiale ma si concluse nuovamente con un nulla di fatto. Nel processo iniziato il 22 gennaio 1999 Clinton era rappresentato dallo studio legale Williams & Connolly di Washington i cui legali, per 21 giorni, difesero il presidente smontando udienza dopo udienza le accuse dei senatori. Il 12 febbraio dello stesso anno il senato fu chiamato a votare definitivamente per la rimozione del presidente: su 67 voti necessari, solo 50 votarono per la condanna per il reato di ostruzione della giustizia, mentre per il reato di falsa testimonianza solo 45 per la condanna.

Ma se Johnson e Clinton sono gli unici due presidenti a essere stati messi ufficialmente sotto accusa, c’è un terzo caso di “quasi impeachment”. Nel 1974 era infatti toccato al presidente Repubblicano Nixon affrontare le accuse del Parlamento e dell’opinione pubblica per il cosiddetto scandalo del “Watergate”. Il caso, risalente al 1972, riguardava i fatti accaduti nel Watergate Complex, sede del Comitato elettorale del Partito Democratico. Il 17 giugno 1972 5 uomini, Bernard Barker, Virgilio González, Eugenio Martínez, James W. McCord Jr. e Frank Sturgis, furono arrestati per essersi intrufolati negli uffici ma le indagini successive rivelarono complicità ed interessi inimmaginabili. Quello che inizialmente venne definito dall’addetto stampa di Nixon come un “furto di terz’ordine” si rivelò uno dei più importanti casi di spionaggio nella storia delle elezioni americane. Dalle indagini emersero infatti collegamenti con varie sfere del Partito Repubblicano, fino ad arrivare alla Casa Bianca, ed il tentativo da parte di alti funzionari di insabbiare il caso. Con una nuova campagna elettorale all’orizzonte, Nixon avrebbe infatti ordito un piano per spiare ed indebolire l’opposizione politica per avvantaggiarsi nella competizione elettorale. L’8 agosto 1974, davanti al Congresso riunitosi per votare la messa in stato di accusa, Nixon pronunciò il discorso che ne sancì le dimissioni sottraendosi così al procedimento di impeachment.

Trump – Per Donald Trump, invece, la procedura si è già aperta. Il voto della camera ha ufficialmente messo in stato di accusa il Presidente avviando così per la terza volta nella storia il procedimento contro la massima autorità politica statunitense. Secondo l’accusa, Trump avrebbe esercitato pressioni nei confronti del presidente ucraino Volodymyr Zelensky affinché la magistratura di Kiev riaprisse un’indagine per corruzione a carico del figlio di Joe Biden, il candidato democratico favorito per sfidare il tycoon alle presidenziali del 2020. Per sollecitare una nuova inchiesta, Trump avrebbe persino minacciato Zelensky di bloccare un pacchetto di aiuti di 400 milioni di dollari stanziati per il paese europeo. “Si parla tanto del figlio di Biden, e di Biden che ha bloccato l’inchiesta” avrebbe detto il presidente statunitense in una telefonata al collega ucraino “siamo in tanti a volerne sapere di più, perciò tutto quello che Lei potrà fare con il procuratore generale sarà molto apprezzato. Biden se ne andava in giro a vantarsi di aver bloccato l’inchiesta, perciò se Lei può darci un’occhiata…”. Una telefonata, datata 25 luglio e rivelata da un informatore anonimo, a cui avrebbero fatto seguito le pressioni sull’ambasciatore americano presso l’Unione europea, Gordon Sondland, affinché seguisse la vicenda e verificasse che fosse dato seguito alle richieste.

La linea difensiva del presidente si baserà molto probabilmente sulle tesi sostenute in questi mesi davanti all’opinione pubblica. Secondo i Repubblicani, infatti, Trump si sarebbe interessato al caso perché preoccupato per la crescente corruzione in Ucraina e la sua decisione di fornire fondi solo in caso di processo non aveva alcuna finalità politica contro Biden ma si sarebbe trattata di una garanzia per il corretto utilizzo dei 400 milioni. Una tesi che, evidentemente non ha mai convinto i Democratici che lo hanno formalmente messo sotto accusa con 230 voti contro 197. L’incognita ora riguarda però i tempi del processo. La speaker della Camera, la democratica Nancy Pelosi, al termine del voto ha infatti affermato che aspetterà a inviare gli atti dell’impeachment al Senato finché non ci saranno garanzie “per un processo giusto”. Un gesto che appare come una chiara risposta al Senatore Mitch McConnell, che coordinerà il processo di impeachment da qui in poi, il quale qualche settimana fa aveva rilasciato una dichiarazione sconcertante e pericolosa per il proseguo del processo. “Io non sarò imparziale per niente, lavorerò in completo coordinamento con la Casa Bianca” aveva affermato McConnel rifiutando la richiesta dei Democritici di interrogare i funzionari che si sono rifiutati di testimoniare durante l’inchiesta alla camera, come l’ex consigliere alla sicurezza nazionale John Bolton e Mick Mulvaney, il capo dello staff del presidente. Il processo dovrebbe con ogni probabilità iniziare a gennaio e, stando ai numeri, potrebbe concludersi con un nulla di fatto. I senatori dovrebbero infatti votare secondo le linee dettate dal partito di appartenenza e la maggioranza Repubblicana in Senato (53 seggi contro 47) dovrebbe garantire a Trump l’assoluzione.

Ora non resta che aspettare dunque ma il processo al senato potrebbe consegnare a Trump una vittoria politica importante in vista delle elezioni del prossimo anno. Con il Partito Democratico nel pieno del dibattito per le primarie di inizio anno, l’assoluzione del presidente repubblicano rischia di essere una sconfitta bruciante per i democratici in un momento in cui tutte le loro divisioni saranno alla luce del sole. Mentre per Trump sembra essere una manna dal cielo. Un’opportunità servitagli su un piatto d’argento dai sui stessi avversari per compattare la sua base elettorale contro i democratici verso le Presidenziali del 2020.

Daphne Caruana Galizia: il caso che scuote Malta

“Vorrei solo poter vivere la mia vita senza dovermi svegliarepensando a quali complotti stia tramando il Partito Laburista.La gente è stanca, con le loro squallide decisioni hanno creato un clima terribile.C’è solo la sensazione che nulla vada per il verso giusto.Non sono libera di dire altro per il momento.Se lo fossi, vi assicuro che lo farei”
-Daphne Caruana Galizia, 22 febbraio 2016-


Malta, La Valletta, 2 dicembre 2019. Decine di migliaia di manifestanti assediano il parlamento e bloccano le uscite costringendo i deputati e il premier Joseph Muscat a barricarsi all’interno. Per oltre due ore i maltesi tengono in ostaggio i propri governanti impedendogli di uscire. È la rabbia di un popolo stanco di corruzione e criminalità politica. Un popolo che da tempo sa quello che sta emergendo solo in questi giorni. Ci son voluti due anni per svelare le complicità indicibili che hanno portato alla morte della giornalista Daphne Caruana Galizia. Ma ora, due anni dopo l’autobomba che le tolse per sempre la voce, il vaso di pandora è stato scoperchiato e il governo trema sotto i colpi dei giudici e dei propri cittadini.

Le inchieste – “Ci sono corrotti ovunque si guardi, la situazione è disperata”. Rimarrà per sempre questa l’ultima frase scritta da Daphne Caruana Galizia sul suo blog “Running Commentary”, al termine di un articolo sul capo di gabinetto Schembri. Erano le 14.35 del 16 ottobre 2017, pochi minuti dopo, alle 14.48, una bomba sventrò la sua auto togliendo per sempre la voce a quella che il Times of Malta definì “la giornalista più controversa della storia di Malta”. Corruzione, riciclaggio, evasione fiscale, criminalità politica. Per oltre 30 anni Daphne non ha fatto un passo indietro sulla strada per la verità, ha continuato a raccontare e denunciare quello che a Malta non funzionava. Non ha indietreggiato di un millimetro nemmeno davanti alle intimidazioni, più o meno esplicite, di cui era vittima: dalla scritta “se le parole sono perle, il silenzio vale di più” apparsa su un muro davanti a casa sua, al rogo della sua macchina dopo un’inchiesta sulla corruzione nel paese. Perché le minacce di morte e l’astio, mai troppo velato, di politici ed imprenditori non le hanno mai impedito di gridare al mondo la verità.

La verità l’ha detta anche negli ultimi anni. A partire dal 2016, Daphne si è occupata infatti dei cosiddetti “Malta Files” un filone dei più famosi “Panama Papers”, le informazioni riservate su 214.000 società offshore fatte trapelare dallo studio legale ‘Mossack Fonseca’. Con le sue inchieste stava mettendo sotto accusa l’intero sistema politico maltese. Già dal febbraio 2016 aveva denunciato il coinvolgimento di due esponenti di spicco del governo presieduto dal premier Joseph Muscat: il ministro del turismo Konrad Mizzi e il capo di Gabinetto Keith Schembri. I due, secondo le inchieste della giornalista, avevano aperto società offshore a Panama attraverso dei trust neozelandesi creati appositamente per agire indisturbati nel paradiso fiscale del centroamerica. Le sue inchieste, sempre più solide e dettagliate, la portarono al termine di quell’anno ad essere inserita dal quotidiano americano ‘Politico’ tra le 28 persone che avrebbero scosso l’Europa l’anno successivo. E così fu. Nell’aprile del 2017 emerse infatti dalle sue indagini un nome ancora più pesante: Joseph Muscat. Secondo le fonti in possesso della giornalista la moglie del primo ministro maltese sarebbe risultata titolare di un’altra società offshore con sede a Panama attraverso cui, lei e il marito, avrebbero ricevuto fondi da diverse personalità tra cui quasi un milione di dollari dalla figlia del presidente dell’Azerbaijan. Se non scosse l’Europa, sicuramente scosse Malta provocando un terremoto politico che portò alle dimissioni di Muscat e ad elezioni anticipate, vinte nuovamente dal Leader Laburista.

Ma a un certo punto dalle indagini di Daphne emerse un nome che, per lungo tempo, rimarrà avvolto nel mistero. Si tratta della società ‘17Black’ con sede a Dubai e riconducibile ancora una volta a Mizzi e Schembri. La connessione tra i politici e la società è evidente, Daphne lo sa. Ma fino al giorno della sua morte non riuscirà a trovare prove decisive per dimostrarlo, come non riuscirà a trovare nulla né sulle finalità né sul cosiddetto “ultimate beneficial owner”, il beneficiario finale, il proprietario dei capitali depositati e movimentati. La “17Black” rimarrà un’entità oscura, un mistero che Daphne non riuscì mai a svelare.

Daphne Project – Ma la forza dell’esplosione che ha tolto la voce a Daphne, ha prodotto un effetto dirompente che forse nessuno si sarebbe aspettato. 45 giornalisti di 18 testate internazionali hanno dato vita al “Daphne Project”, un progetto editoriale nato con l’obiettivo di continuare le inchieste iniziate da Daphne. E proprio dal “Daphne Project” è arrivata una svolta nel caso della società di Dubai. Se nell’aprile del 2018 venne documentato, per la prima volta, il legame tra i politici maltesi e la “17Black” il momento più significativo si ebbe nel novembre scorso. Due fonti diverse, ritenute altamente affidabili, citarono un rapporto della “Financial Intelligence Analysis Unit”, l’Agenzia di controllo antiriciclaggio maltese, facendo emergere per la prima volta il nome di quel “ultimate beneficial owner” a lungo cercato da Daphne: Yorgen Fenech. Amministratore delegato di una delle maggiori società immobiliari dell’isola, Fenech era proprietario e titolare del potere di firma della “17 Black” oltre che socio del gruppo che, nel 2013, vinse la concessione con cui il neoeletto governo laburista maltese affidò la costruzione della nuova centrale a gas di Malta. Si sarebbe dunque creato un sistema politico imprenditoriale fatto di corruzione e favori in cui esponenti di spicco del governo e imprenditori locali mobilitavano somme enormi di denaro da e verso società fittizie in paradisi fiscali per nascondere i reati commessi in patria. Secondo una fonte del “Daphne Project”, nel 2015 sul conto della “17Black” negli Emirati sarebbero transitati circa 10 milioni di euro spostati rapidamente verso altri fonti lasciando una giacenza attiva e depositata pari a 2 milioni. Ma se la “Noor Bank”, presso cui era aperto il conto della società, si è accorta delle irregolarità ed ha bloccato il conto nell’ottobre del 2018, lo stesso non hanno fatto gli inquirenti.

Le indagini – Le indagini sulla morte della giornalista, infatti, sono andate avanti a rilento. Se gli esecutori materiali del delitto, i fratelli George e Alfred Degiorgio e il loro amico Vincent Muscat (omonimo del presidente ma senza legami di parentela), erano stati arrestati già nei mesi successivi sull’identità dei mandanti nulla si è mosso per diverso tempo. Le implicazioni politiche hanno infatti rappresentato un enorme problema rallentando le indagini. Se da un lato Mizzi e Schembri si dicevano pubblicamente pronti a collaborare per dimostrare la loro innocenza, dall’altro hanno cercato di ostacolare gli inquirenti in ogni modo attraverso cavilli procedurali. Sulla vicenda si era espresso anche il Consiglio d’Europa che aveva criticato duramente le autorità di Malta per non essere riuscite a garantire indagini indipendenti ed efficaci sul caso, e per chiedere al governo di aprire un’indagine per trovare il mandante. Dopo due anni di indagini a vuoto e con le pressioni sempre crescenti da parte sia della popolazione locale sia della comunità internazionale il primo ministro Muscat ha dovuto cedere affidando l’indagine, nel settembre di quest’anno, al giudice Michael Malla. Da quel momento è arrivata una svolta inattesa e, per certi versi, insperata.

Dopo un mese di lavoro, Malla ha fatto arrestare il tassista Melvin Theuma considerato l’intermediario che ha fatto da tramite tra il mandante e gli esecutori materiali. Quello che sembrava un piccolo passo verso la verità, ha invece innescato una cascata di eventi che hanno provocato un vero e proprio terremoto politico istituzionale sull’isola. Theuma ha infatti iniziato a collaborare con gli inquirenti ed ha fatto un nome noto e pesantissimo: Yorgen Fenech. Sarebbe stato proprio l’imprenditore a commissionare, per 150mila euro, l’omicidio di Daphne ai tre sicari per fermare le inchieste sulla “17Black”, la società utilizzata per elargire tangenti ai politici locali nella vicenda delle concessioni per la realizzazione della centrale elettrica. Un filo rosso che parte da Dubai, passa da panama e finisce dritto nel parlamento maltese dove, secondo Fenech, vi sarebbero le vere menti dietro la morte della giornalista. Come Theuma, infatti, anche l’imprenditore ha deciso di collaborare ed ha pronunciato quei nomi che, da sempre collegati alla vicenda, non erano mai stati messi nero su bianco. Konrad Mizzi e Keith Schembri. Le parole di Fenech mettono sotto accusa i due fedelissimi di Muscat, non solo per l’omicidio di Daphne ma anche per diversi episodi di corruzione. A nulla sono valse questa volta le loro dichiarazioni di innocenza. Nessun discorso sull’estraneità al caso ha potuto salvarli da questa ennesima accusa su cui ora, con due anni di ritardo, sta indagando la polizia maltese.

Il castello di carta sta iniziando a crollare. Il governo è sotto accusa e la popolazione da alcune settimane scende in piazza praticamente ogni giorno. Stanca della corruzione e del marcio della politica, la cittadinanza ha iniziato una dura contestazione contro i propri governanti chiedendo le dimissioni del Primo Ministro Muscat che avrebbe, secondo i manifestanti, “le mani sporche di sangue”. Dopo anni di silenzi, complicità e depistaggi il vaso di pandora è stato scoperchiato ed ora trema tutta la politica maltese. Mentre Muscat prende tempo, annunciando che si dimetterà il 12 gennaio, la rabbia esplode in tutta l’isola. Shock, disgusto e assenza di fiducia alimentano la paura di un popolo che ora teme il proprio governo. Perché come scrive il “Times of Malta” in un editoriale di qualche giorno fa:

“È qualcosa che va fermato.Non si tratta più dei legami tra politica e imprenditori, si tratta di legami tra politica e criminali.Le proteste devono continuare.

Uiguri: storia di una repressione millenaria

“Nessuna esitazione, amici, la mia aspirazione rimane alta,
non tirerò giù le maniche che mi sono rimboccato per la lotta.
Il coraggioso giardiniere non lascerà appassire il suo giardino prima del tempo,
Né trascurerà la sua cura facendo morire il nostro fiore.”
-Lutpulla Mutellip-


“Ciao ragazzi. Ora vi insegno come allungare le vostre ciglia. La prima cosa è mettere le ciglia nel piegaciglia. Poi lo mettete giù e usate il vostro telefono, proprio quello che state usando ora, e cercate di capire cosa sta succedendo in Cina nei campi di concentramento dei musulmani”. Inizia così il video pubblicato da Feroza Aziz su Tik Tok per denunciare le violenze sugli Uiguri nella regione cinese dello Xinjiang. Fingendo, a inizio e fine video, un tutorial di make-up la 17enne americana ha eluso la censura dell’app cinese ed ha spiegato ai suoi follower come nel paese asiatico si stia consumando “un nuovo olocausto”. Un video diventato presto virale e ricondiviso milioni di volte su tutti i social cha ha acceso un riflettore importante su un fenomeno spesso taciuto. Mentre Pechino prova a mascherarli come “campi di addestramento volontario” appare sempre più chiaro agli occhi della comunità internazionale come nello Xinjiang sia in atto un tentativo di rieducazione forzata della minoranza uigura di tradizione musulmana.

Gli Uiguri – Gli Uiguri sono una minoranza etnica turcofona di religione islamica che abitano prevalentemente la regione dello Xinjiang nell’ovest della Cina. Se nella regione si registra la presenza di circa 8,5 milioni di uiguri (46% della popolazione totale della regione), l’etnia è diffusa in maniera minore anche in Kazakistan, Kirghizistan, Turchia ed Unione Europea dove, secondo un censimento del 2014, vivrebbero circa 50 mila soggetti legati alla tradizione uigura. Si tratta di un’etnia antica la cui presenza nell’area risalirebbe addirittura al II secolo a.C. si oppose all’espansione dell’impero Han nella zona. Nel 1760, sotto la dinastia Quing, la regione dello Xinjang venne annessa ufficialmente ai territori dell’impero cinese che iniziò ad amministrarla in ottica centralista rifiutando sin da subito le richieste di autonomia dell’etnia islamica. La loro integrazione nella realtà cinese è sempre stata lenta e difficile essendo molto legati alla loro religione e alla loro cultura tradizionale, gli Uiguri si sentono infatti più vicini alle popolazioni dell’Asia centrale che ai loro connazionali Han, l’altra minoranza islamica fortemente legata alla Cina. Ben presto iniziarono dunque le pretese di autonomia e le aspirazioni separatiste sempre represse dalle autorità cinesi.

Aspirazioni che si sono concretizzate, per breve tempo, in due occasioni: nel 1933 e nel 1944. In quegli anni, infatti, gli Uiguri diedero vita ad un duplice tentativo di fondare la tanto sognata “Repubblica del Turkestan orientale”. Se il primo tentativo fu di breve durata e si concluse dopo qualche mese con la repressione cinese, il secondo tentativo fu più durevole. Nel 1940, visto il legame forte tra i due popoli, gli Uiguri ottennero dall’Unione Sovietica assistenza nel creare il “Comitato per la liberazione del popolo turco” che avrebbe dovuto coordinare una ribellione nello Xinjiang per l’indipendenza dalla Cina che iniziò nel novembre del 1944. Le truppe uigure combatterono contro quelle cinesi per diverse settimane assaltando ed occupando la città di Kulja fino al 15 novembre quando venne dichiarata ufficialmente la nascita della “Repubblica del Turkestan orientale”. Nata sotto la protezione sovietica, la repubblica dovette ben presto rinunciare al potente alleato che nell’agosto del 1945 siglò con la Cina un patto di amicizia ed alleanza che di fatto negò il supporto agli uiguri. Nella regione venne istituito un governo di coalizione con rappresentanti del governo cinese, della minoranza uigura e di quella han. Rimasta ormai solo sulla carta, la Repubblica del Turkestan venne ricondotta sotto il controllo cinese nel settembre del 1949 con la guerra civile che diede un forte impulso centralista rifiutando forme di autonomia come quella sognata dagli Uiguri.

La storia – La questione uigura è tornatadi strettissima attualità nel 2009. Tra il 25 e il 26 giugno di quell’anno due uiguri furono uccisi dalle forze dell’ordine durante scontri scoppiati a Shaoguan tra la minoranza turcofona e gli Han. Scesi in piazza pochi giorni dopo nella città di Ürümqi, capoluogo dello Xinjiang, gli uiguri si fronteggiarono per giorni con la polizia e gli han dando vita alla “Rivolta del luglio 2009”. Secondo le fonti ufficiali cinesi il bilancio finale sarebbe stato di 197 persone morte, 1721 ferite e di diversi veicoli ed edifici distrutti. Un bilancio che sembra essere solamente parziale e che è sempre stato contestato da associazioni per i diritti umani come “Human Rights Watch” che ha sempre denunciato le violenze subite dagli Uiguri in quei giorni documentando almeno 73 casi di persone scomparse nei rastrellamenti della polizia. La regione, da quel momento, è diventata una delle aree più sorvegliate al mondo: gli abitanti sono sottoposti a controlli di polizia quotidiani, a procedure di riconoscimento facciale e a intercettazioni telefoniche di massa. Controlli indiscriminati e pervasivi che sono degenerati sempre di più fino a raggiungere un livello inimmaginabile.

A partire dal 2014, come riportato da uno studio dell’istituto di ricerca di geopolitica “Jamestown Foundation”, sono stati creati dei centri di detenzione che sarebbero equiparabili a veri e propri campi di concentramento. Secondo alcuni testimoni, infatti, sarebbe in atto una vera e propria persecuzione con migliaia di uiguri arrestati arbitrariamente e rinchiusi in strutture detentive sorvegliate 24 ore su 24. Abdusalam Muhemet, ex detenuto intervistato dal “New York Times”, venne arrestato a 41 anni per aver recitato ad un funerale un passo del corano, altri testimoni parlano di persone arrestate per aver indossato una maglietta riconducibile all’islam o aver fatto visita a parenti all’estero. Una volta arrestati sarebbero sottoposti a una sorta di rieducazione forzata con cui le autorità cinesi stanno provando ad eliminare la tradizione uigura ed uniformarla a quella cinese eradicando di fatto la religione islamica considerata pericolosa e deviante. Una rieducazione condotta attraverso torture che vanno dall’isolamento al waterboarding passando per tecniche invasive di privazione del sonno. Accuse sempre respinte dalla Cina che, grazie all’inaccessibilità delle strutture, nasconde quanto accade all’interno e parla di detenzioni preventive per estremisti religiosi e di operazioni di “addestramento volontario” della popolazione uigura. Una posizione, quella cinese, che sta dividendo la comunità internazionale. Se da una parte  23 paesi tra cui Regno Unito , Germania , Francia , Spagna , Canada , Giappone , Australia e Stati Uniti hanno firmato una lettera congiunta alle Nazioni Unite chiedendo la chiusura dei campi, dall’altra più di 50 paesi hanno elogiato all’UNHCR i “notevoli risultati della Cina nello Xinjiang”. Per la gioia del governo cinese.

Xinjiang Papers – Ma il governo cinese, ora, non può più nascondersi. In quella che è stata definita come “la più grande fuga di notizie nella storia della Cina, il “New York Times” ha pubblicato 400 pagine di documenti che riportano le attività cinesi nella regione. Forniti da un funzionario cinese che, ovviamente, preferisce rimanere anonimo, i “Xinjiang Papers” sarebbero costituiti da una mole immensa di documenti riservati e discorsi rilasciati in occasioni riservate dal presidente Xi Jinping e da altri alti funzionari del partito.

Emergerebbe un piano partito direttamente dal presidente e gestito dai vertici del partito che prevede una “lotta totale e senza alcuna pietà contro terrorismo, infiltrazioni e tentativi di separatismo”. Ma se nei discorsi pubblici Xi Jinping si mostra più aperto e propenso ad una mediazione pacifica con gli Uiguri, nelle trascrizioni di conversazioni private appare estremamente deciso e cinico. Critica duramente il legame con la religione della minoraza turcofona e sprona i sui uomini a mettere in atto una “trasformazione” del popolo uiguro per contrastare il terrorismo. Una trasformazione da attuare in parte con strumenti tecnologici, dall’altra con tecniche già collaudate dalla polizia cinese come gli interrogatori forzati di amici e parenti. Ma se il passaggio sul presidente risulta estremamente importante perché dimostra un suo coinvolgimento diretto sempre negato finora da Pechino, i passaggi più drammatici sono quelli che riguardano altri due funzionari: Quanguo e Wang.

Quanguo venne mandato nello Xinjiang nel 2016 e sotto il suo controllo si assistette ad una stretta repressiva senza precedenti. Secondo quanto riportato dai documenti trapelati, nel febbraio 2017 avrebbe radunato le truppe cinesi in una vasta piazza di Urumqi ed avrebbe tenuto un discorso in cui chiedeva ai suoi uomini di prepararsi ad “un offensiva devastante e distruttiva” per le settimane successive. Un’offensiva che, a tutti gli effetti, ci fu per davvero: vennero infatti eseguiti nella regione arresti di massa con migliaia di uiguri che in poche settimane finirono chiusi nelle prigioni dello Xinjiang. Sotto la guida di Quanguo la regione venne minilitarizzata e le libertà degli uiguri represse ad ogni livello secondo la concezione del funzionario che interpreta l’operazione nella regione come “una guerra di offesa prolungata e determinata per la salvaguardia della stabilità”.

Ma se Quanguo mostra il volto spietato della Cina, Wang rappresenta quello più umano. Se pubblicamente, infatti, appoggiava totalmente la politica del governo centrale nei sui discorsi privati emerge più fragile e meno convinto. Dovendo sottostare agli ordini di Pechino, Wang fece costruire “due nuove strutture di detenzione tentacolari stipando lì oltre 20.000 persone” ed aumentò drasticamente i fondi per le forze di sicurezza raddoppiando le spese per posti di blocco e impianti di sorveglianza. Ma ogniqualvolta ne avesse l’occasione, Wang chiese ai vertici del partito e ai colleghi della regione di affrontare la questione uigura in modo differente: “propose” stando a quanto riporta il New York Times “di ammorbidire le politiche religiose del partito, dichiarando che non c’era nulla di sbagliato nell’avere un Corano in casa e incoraggiare i funzionari del partito a leggerlo per comprendere meglio le tradizioni uigure”. Nei sui piani vi era infatti una politica di sviluppo economico della regione che, secondo lui, avrebbe fatto il bene dell’intera Cina ma era resa impossibile dalla detenzione degli uomini in età lavorativa. Una voce fuori dal coro che, inevitabilmente, venne presto messa a tacere con l’arresto. E non fu l’unico: secondo i dati che emergono dai documenti, nel 2017, “il partito ha aperto oltre 12.000 indagini sui membri del partito nello Xinjiang per infrazioni nella lotta contro il separatismo”.

Una storia che va avanti dunque da quasi un secolo. Una storia fatta di repressione e neagazione dell’autodeterminazione per il popolo Uiguro. Un popolo ricco di storia e tradizioni tramandate da migliaia di anni e rimaste intatte. Come i testi del poeta uiguro Lutpulla Mutellip la cui tomba è stata distrutta, insieme a molte altre, per lasciar spazio ad un parco zoologico per famiglie. Un ultimo, disperato tentativo di cancellare le radici di un popolo che non può e non vuole lasciarsi calpestare. Non può e non vuole restare sotto il controllo di una potenza che ne tarpa le ali e i sogni. Perché come scriveva Mutillup:

“Nel profondo oceano dell’amore sono un’onda,
Come potrei soddisfare la mia sete da un piccolo stagno?”