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Transizione Ecologica: abbiamo un piano ma potrebbe non bastare

Il termine “Transizione Ecologica” è ormai entrato nelle agende politiche di tutti i principali leader mondiali con l’obiettivo di correre ai ripari per scongiurare una catastrofe climatica. Anche il nostro paese, a modo suo e con i suoi tempi, sta provando a mettersi al passo.

“L’ambiente e la transizione ecologica sono l’essenza stessa di questo governo. È nato su questo programma. Quindi continuiamo su questa strada” Così, durante un question time alla Camera a inizio marzo, il premier Mario Draghi aveva ricordato ai deputati come l’esecutivo da lui guidato ha tra le priorità la questione ambientale. La crisi climatica che stiamo attraversando, tornata di stretta attualità dopo la tragedia della Marmolada e il caldo record di questi giorni, costringe infatti i governi ad assumersi la responsabilità di trovare una via d’uscita ad una situazione che rischia di aver conseguenze devastanti sul mondo che viviamo. Così nelle agende politiche dei principali paesi del mondo è presente un piano per la Transizione Ecologica, termine utilizzato per indicare il passaggio o la trasformazione da un sistema produttivo intensivo e non sostenibile dal punto di vista dell’impiego delle risorse, a un modello che invece ha il proprio punto di forza nella sostenibilità, ambientale, sociale ed economica. Quando si parla di “Transizione Ecologica”, dunque, si intende quel processo di cambiamento che possa portare al rilancio dell’economia e di interi settori produttivi all’interno di un modello che metta al primo posto la tutela ed il rispetto dell’ambiente.

Ma se a parole sembra semplice e di bon senso, l’attuazione o l’avvio di un reale percorso volto a modificare interamente il sistema produttivo di un paese incontra difficoltà non indifferenti. Un primo passo in questa direzione nel nostro paese è stato fatto il 26 febbraio 2021 quando con la nascita del Governo Draghi è stato istituito il primo Ministero della Transizione Ecologica nella storia del nostro paese. Tale ministero, che ha sostituito il Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Mare, opera in stretto raccordo con il Ministero dello Sviluppo Economico con l’obiettivo di trovare un punto di incontro tra le esigenze economico-produttive e la necessità di una riconversione green del sistema. Ma se fino ad ora l’impegno del Governo non si era concretizzato in altro se non nelle dichiarazioni di Draghi e Cingolani, adesso l’Italia ha un piano. Nel vero senso della parola. 

Nel mese di giugno è stato infatti pubblicato il “Piano per la Transizione Ecologica” (PTE), uno strumento di programmazione nazionale volto a indirizzare le future decisioni in modo da coniugare le esigenze economiche e lavorative con quelle ambientali definendo un quadro concettuale anche per gli interventi previsti dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR). Nelle sue premesse, il Pte enuncia l’intenzione di perseguire un “approccio sistemico, orientato alla decarbonizzazione ma non solo; caratterizzato da una visione olistica e integrata, che include la conservazione della biodiversità e la preservazione dei servizi ecosistemici, integrando la salute e l’economia e perseguendo la qualità della vita e l’equità sociale”. Nell’individuare nella decarbonizzazione, nella mobilità sostenibile e nell’abbassamento della soglia di inquinamento come priorità assolute da perseguire, il piano evidenzia tre presupposti necessari affinché si attivi realmente una transizione ecologica: il consenso, la partecipazione e un approccio non ideologico alle questioni; la centralità della ricerca scientifica; la semplificazione delle regole che governano l’attuazione dei progetti. Senza il verificarsi di queste tre condizioni la transizione ecologica è destinata ad esaurirsi in un nulla di fatto. Per raggiungere gli obiettivi contenuti nel piano, l’Italia si è data tempo fino al 2050, “”anno in cui il nostro paese deve conseguire l’obiettivo, chiaro e ambizioso, di operare “a zero emissioni nette di carbonio” e cioè svincolandosi da una linearità tra creazione di ricchezza e benessere con il consumo di nuove risorse e/o aumento di emissioni”. Un tempo evidentemente lungo, vista l’impossibilità di raggiungere obiettivi così ambiziosi nel breve periodo, che rende necessaria una continua revisione del PTE per renderlo il più possibile attuabile nel corso degli anni. Quella presentata a giugno, infatti, altro non è che una prima versione che funga da quadro generale e punto di partenza per l’elaborazione di una strategia concreta. Come esplicitato nel documento, infatti, “l’attuazione degli interventi previsti dal Piano per la transizione ecologica e dal PNRR necessitano di una efficiente pubblica amministrazione e di una accurata e precisa metodologia, basata sulla quantificazione in termini di emissioni, lavoro e flussi finanziari secondo la prospettiva del ciclo di vita […] Ulteriori elementi, dati quantitativi e cronoprogrammi saranno contenuti in una secondo documento”.

Vista l’impossibilità di pianificare interventi concreti su un periodo di tempo così lungo, dunque, sarà necessaria una costante revisione delle misure previste dal piano per renderle quanto più possibile attuali e realizzabili. Ma se quello descritto sin qua sembra essere uno scenario quasi idilliaco, con un programma di massima per arrivare ad una piena transizione entro il 2050, nella realtà nasconde diverse insidie. Su tutte vi è una questione strettamente politica data dalle diverse sensibilità sul tema dei vari partiti che potrebbe influire, e non poco, sull’attuazione del piano. Come stabilito nel PTE, infatti, ogni 31 maggio dovrà essere presentata una relazione sullo stato dell’arte e l’attuazione del piano per ricalibrare gli obiettivi e immaginare misure concrete da adottare per raggiungerli entro l’anno successivo. Una revisione annuale in un paese in cui temi, urgenze e priorità dei partiti vengono stravolti da un giorno all’altro rischia di esporre in modo irrimediabile un argomento così importante alle oscillazioni politiche che caratterizzano il nostro sistema. Se il 31 maggio prossimo al governo ci dovesse essere una forza politica che ha a cuore l’ambiente allora il piano potrebbe diventare centrale nella programmazione dei lavori. Se, al contrario, al governo ci fosse un partito (o una coalizione) poco interessata a questi temi si potrebbe creare uno stallo con l’implementazione della transizione ecologica ferma in attesa di risposte. E così per tutti gli anni successivi, fino al 2050.

Il rischio è dunque che il tema della transizione ecologica, la cui importanza è sotto gli occhi di tutti oggi più che mai, diventi una carta politica come tante altre da utilizzare per fare pressione sugli avversari e ottenere quello che si vuole. L’elaborazione di un piano è un punto di partenza fondamentale ed imprescindibile che il nostro paese stava aspettando da tempo ma potrebbe non essere sufficiente. Ora è necessario che quel piano venga attuato e che da oggi fino al 2050 tutte le forze in campo si adoperino affiche gli obiettivi stabiliti da questo governo vengano raggiunti il prima possibile. Non è immaginabile che ogni governo che si insedierà da qui al 2050 possa riconsiderare il PTE per questioni ideologiche o partitiche. Ne va del futuro di tutti. 

Cina ed Europa bloccano i rifiuti. Come le nuove limitazioni potrebbero favorire le ecomafie

Dal primo gennaio 2021 il mondo dei rifiuti verrà stravolto. A partire da quella data, infatti, entreranno in vigore due norme che incideranno in maniera determinante sul mondo in cui oggi vengono trattati rifiuti plastici e non solo. Ma c’è un rischio che rimane in agguato: gli ecocriminali.

L’inizio del nuovo anno porterà una serie di novità nel settore dei rifiuti che potrebbero sconvolgere l’intera filiera portando i principali produttori di scarti a dover riconsiderare le proprie politiche. Con il nuovo anno entreranno infatti in vigore due norme che potrebbero stravolgere in maniera pesante, e con altrettanto pesanti ripercussioni, la geografia dell’export di rifiuti di ogni genere. La prima novità arriva dalla Cina che, come punto finale della propria strategia green in tema di rifiuti, con il nuovo anno vieterà l’importazione di tutti i rifiuti solidi provenienti dall’estero vietandone lo scarico, il deposito e lo smaltimento. Un cambiamento epocale per una nazione che da decenni ricopre un ruolo centrale nel riciclo e nello smaltimento degli scarti di tutto il mondo. Fino al 2017, infatti, quasi la metà dei rifiuti prodotti in tutto il mondo venivano esportati verso la Cina come risultato della grande capacità del colosso asiatico di smaltire e in parte riciclare quegli scarti. A partire da quell’anno, però, la nuova politica in tema ambientale della Cina ha portato ad una graduale chiusura delle frontiere con il divieto di importazione prima di 24 tipologie di rifiuti solidi poi di tutti i rifiuti plastici fino alla svolta del 2021 con lo stop totale a qualsiasi tipo di rifiuto. Ma se la decisione della Cina era prevista e conosciuta da tempo, grazie ai rigidi piani economici pluriennali del paese asiatico, più sorprendente ma non meno importante risulta essere quella dell’Unione Europea. Nei giorni scorsi, infatti, la Commissione Europea ha varato nuove regole per lo smaltimento di rifiuti stabilendo il divieto assoluto a partire dal nuovo anno di esportare i rifiuti plastici verso i paesi non OCSE. Nella pratica, dunque, i paesi membri dell’Unione Europea non potranno spedire verso i paesi più poveri del mondo i propri scarti plastici vedendo limitata a soli 37 paesi con PIL medio-alto di cui 21 fanno parte della comunità Europea.

Le due misure avranno senza dubbio ripercussioni pesanti sui principali paesi europei e non solo. Con riferimento all’Italia, il blocco dell’importazione di rifiuti da parte della Cina andrà ad incidere in maniera significativa come già avvenuto per i divieti parziali degli scorsi anni. Nel 2018 secondi il rapporto sui rifiuti speciali curato da ISPRA, il nostro paese ha spedito nel paese asiatico 103.000 tonnellate di rifiuti speciali non pericolosi con una contrazione di quasi il 50% rispetto all’anno precedente dovuta alle restrizioni iniziate quell’anno. Ancor di più, però, inciderà il blocco dell’esportazione di rifiuti plastici verso paesi non OCSE imposto dall’UE. Come conseguenza al calo delle esportazioni verso la Cina, sono quasi raddoppiate tra il 2017 e il 2018 quelle verso paesi meno sviluppati con oltre 230 mila tonnellate di rifiuti indirizzate verso 11 paesi fuori dall’OCSE contro le 120mila esportate l’anno precedente. Pur non trattandosi esclusivamente di rifiuti plastici è innegabile che una buona fetta (almeno un terzo) di quelle 230 tonnellate rientrino tra i materiali che ora non sono esportabili. Senza considerare l’ulteriore aumento che si è senza dubbio registrato nei due anni successivi all’ultimo rilevamento dell’ISPRA. Con la chiusura di diversi mercati sarà più difficile poi anche far smaltire i propri rifiuti a quei paesi verso cui saranno ancora consentite le esportazioni. Se infatti ad oggi molti dei rifiuti plastici erano indirizzati verso Austria e Germania, in futuro quella quota potrebbe diminuire visto che anche i due paesi ridurranno le esportazioni per smaltire quei rifiuti che prima indirizzavano verso paesi non OCSE o verso la Cina.

Il rischio è che con la chiusura di molti mercati di riferimento in tema di rifiuti si possano alimentare fenomeni criminali già particolarmente forti nel nostro paese. Come riportato da Legambiente nel suo annuale rapporto sulle ecomafie, infatti, gli illeciti in materia di rifiuti sono in costante crescita in Italia e nel 2019 sono stati accertati 9.527 reati con un aumento di quasi il 20% rispetto all’anno precedente. Gruppi criminali, più o meno legati alle mafie tradizionali, operano stabilmente da anni nel ciclo dei rifiuti con interessi lungo tutta la filiera dalla raccolta allo smaltimento passando per il trasporto ed anche l’esportazione. Sono infatti decine di migliaia le tonnellate di rifiuti che vengono esportate illegalmente verso paesi in cui lo smaltimento è più conveniente aggirando le norme italiane e internazionali per smaltire a costo minore avvalendosi dell’intermediazione criminale. Se non si ha una stima precisa di quanti rifiuti vengano ogni anno portati al di fuori dal nostro paese illegalmente, diretti principalmente in Asia e nei Balcani, sappiamo che nel 2019 oltre 2mila tonnellate di rifiuti pronti ad essere esportati con documentazioni false sono stati sequestrati dall’Agenzia delle dogane che ne ha impedito la partenza. Ad alimentare questi traffici, oltre a motivi di profitto e convenienza, vi sono anche gravi deficit degli impianti italiani che uniti ai costi troppo elevati portano troppo spesso gli imprenditori a rivolgersi a gruppi criminali per gestirne lo smaltimento. Così la filiera dei rifiuti è diventata per la criminalità un business in grado di garantire profitti paragonabili solo a quelli provenienti dal narcotraffico. Un business che, senza i dovuti accorgimenti e le correzioni necessarie, rischia di essere ulteriormente alimentato dalle nuove politiche sui rifiuti di Cina ed Europa

Nei Balcani si consuma l’inferno dei migranti

“Qui, ai confini di questa Europa del 2018, ci sono morti invisibili di cui nessuno saprà mai nulla.
Ci sono famiglie che non avranno mai un cadavere su cui piangere.
Perché?”


Quando si parla di immigrazione troppo spesso ci balena nella testa uno spontaneo ed immediato collegamento con il mare. Al centro della narrazione pubblica del fenomeno infatti vi è quasi sempre il Mediterraneo, tratta più pericolosa per chi scappa dalla miseria e che si è trasformato in un vero e proprio cimitero. Dal 2000 ad oggi si stima che siano circa 10.000 i migranti che hanno perso la vita cercandone una migliore, 1300 solo lo scorso anno, 2.277 nel 2018. Ma se si parla di immigrazione verso l’Europa, e anche verso l’Italia, non si può ignorare la presenza di una tratta altrettanto pericolosa: la “Rotta Balcanica”.

Storia – Percorsa da flussi migratori verso l’Europa già a partire dagli anni ’90, di Rotta Balcanica si è iniziato a parlare a partire dal 2015. A partire dalla primavera di quell’anno, infatti, la tratta marittima attraverso il mediterraneo smise di essere il fulcro delle migrazioni verso l’Europa. La pericolosità di quel mare, in cui nel settembre 2015 perse la vita il piccolo Alan Kurdi, era diventata evidente anche per i migranti che si spinsero sempre più verso la storica rotta che attraversa l’Europa dalla Turchia verso occidente. Si stima, infatti, che nel corso di quell’anno circa 1 milione di migranti abbiano attraversato le frontiere europee da oriente per cercare asilo politico. Oltre 200mila solo nel mese di ottobre.

Nell’anno chiave per la rotta balcanica è inevitabilmente arrivata anche la risposta, dura, dell’Unione Europea. Ad ottobre 2015 -sotto la guida dell’allora presidente della Commissione europea Jean Claude Juncker- si sono riuniti a Bruxelles rappresentanti di Unhcr e Frontex oltre ai leader di Albania, Austria, Bulgaria, Croazia, Macedonia, Germania, Grecia, Ungheria, Romania, Serbia e Slovenia, per discutere la gestione congiunta della rotta migratoria dei Balcani occidentali, il rafforzamento dei controlli alle frontiere, la creazione di un sistema “hotspot” coordinato tra i diversi Paesi. In poco tempo il percorso viene militarizzato. Sorgono a ripetizione campi profughi, stazioni ad hoc, centri di distribuzione di cibo e cliniche mediche di volontari con un grande sforzo profuso da società civile e ONG. Dal novembre 2015 il passaggio attraverso le frontiere è reso sempre più difficoltoso. A iniziare dalla Macedonia fino a salire verso il centro dell’Europa, la strada è sbarrata per chi non può dimostrare di essere siriano, iracheno o afghano. A ridosso del confine macedone di Gevgelija, in territorio greco si crea il primo embrione di quello che diverrà poi il “campo dei campi”, il simbolo della vergogna dell’Unione europea: Idomeni. A marzo 2016, si materializza ciò che per mesi era stato solo dichiarato ma mai reso concreto negli atti: si chiudono nuovamente le frontiere. Il canale legalizzato, economico e tutelante viene interrotto. L’inferno dell’illegalità ricomincia.

L’UE nel 2016 concretizza infatti un accordo con la Turchia delegando di fatto ad Erdogan il controllo delle frontiere esterne. Così, dalla Turchia i flussi vengono bloccati e chi vuole arrivare in Europa deve necessariamente farlo attraverso canali sempre più pericolosi. Ma l’iniziale successo dell’operazione, con un drastico calo degli arrivi lungo la rotta balcanica, va via via affievolendosi e negli ultimi anni i numeri hanno ricominciato a crescere: 36.000 nel 2017, 50.000 nel 2018, quasi 80.000 nel 2019. E in questo 2020, con la Turchia che ha riaperto le proprie frontiere, il flusso è tornato a livelli ancora più alti: i dati di giugno mostrano come in Grecia si trovano registrate 121.000 persone, di cui 82.700 nella parte continentale distribuite nei 28 campi governativi dislocati in tutto il Paese e 38.300 sulle isole.

Tratta – L’inferno dei Balcani inizia dalla Grecia. Via mare, sbarcando sulle isole della Grecia sudorientale, o via terra, migliaia di migranti passano il confine turco mettono piede per la prima volta sul territorio europeo da dove partono i flussi diretti all’Europa centrale. Arrivano principalmente dal Pakistan, dall’Iraq, dall’Afghanistan e, soprattutto, da una Siria martoriata da una guerra infinita. Una volta giunti in Grecia iniziano la loro lunga marcia verso nord. A piedi o su mezzi di fortuna, spesso stipati nei cassoni di camion, viaggiano verso il confine con la Macedonia. È infatti quella la prima di una lunga serie di frontiere militarizzate che i migranti si trovano a dover oltrepassare nella loro traversata. Chi riesce a superarlo prosegue il suo viaggio. Serbia, poi Bosnia, Croazia e Italia prima di dileguarsi e cercare di raggiungere le loro reali mete: Francia, Germania e paesi del nord.

Ma tracciare semplicemente la rotta compita da quelle migliaia di migranti, o meglio di quelli che ce la fanno, non dà idea di quello che accade durante la traversata. Un recente rapporto di Oxfam accusa i paesi dei Balcani e in particolare Belgrado, di mancanza di umanità. E va oltre: “Hanno negato protezione a molti richiedenti asilo, rimandandoli indietro verso i Paesi di provenienza o di transito senza offrire loro l’opportunità di avviare le procedure di asilo”. In Serbia le autorità hanno instaurato un vero e proprio clima di terrore tra i migranti, espellendo gruppi di persone regolarmente registrate che stavano aspettando un colloquio individuale per lo status di rifugiato. Ciò ha fatto sì che in pieno inverno, con temperature a -20 gradi centigradi, i migranti avessero paura a soggiornare nei centri gestiti dal governo per timore di essere rimandati in Macedonia. O più indietro ancora.

Violenze – Poi ci sono le violenze e le torture a cui sono sottoposti continuamente e sistematicamente i migranti in tutti gli stati che attraversano. Gli abusi, infatti, non sono circoscritti ad un’unica zona geografica, ma sono perpetrati lungo tutta la regione balcanica: dalla polizia croata che marchia letteralmente i migranti, deumanizzandoli, disegnando croci sulle loro teste con vernice arancione, passando per gli arresti sommari e la violenza indiscriminata degli agenti di Frontex sui confini albanesi e per le drammatiche condizioni di vita, sia dal punto di vista psicologico che fisico, in cui sono costretti a vivere i rifugiati nei centri di accoglienza in Bosnia, fino ad arrivare ai respingimenti forzati lungo il confine italo-sloveno. Molti migranti raccontano di preferire la rotta via mare perché, una volta sbarcato, sei arrivato a destinazione. Nei Balcani, invece, si susseguono confini. Sei, sette frontiere da oltrepassare. Ognuna porta con sè muri, barriere, soldati e polizia di frontiera.

I migranti lo chiamano The Game: attraversare i confini dei Paesi balcanici per cercare di raggiungere l’Unione Europea a costo della vita, evitando fili spinati, barriere, telecamere termiche, droni, le violenze della polizia, abusi, ingiustizie e umiliazioni. Come se fosse un videogioco. Ad ogni frontiera c’è il rischio di pescare la carta sbagliata e tornare a quella precedente. Ad ogni frontiera, proprio come in un gioco, rischi di perdere una vita. Ma, nel “The Game” dei Balcani, a disposizione di ogni migrante di vita ce n’è una sola. Nessun bonus può dartene un’altra. L’unica speranza è quella di arrivare al livello successivo.

Cosa sta succedendo in Bielorussia

“È stato un risveglio improvviso, come se un intero Paese fosse uscito dall’incantesimo”
Iryna Khalip


È domenica sera quando la commissione elettorale, a seggi ancora aperti, annuncia con certezza la rielezione per il sesto mandato consecutivo di Aleksandr Lukashenko. Questa volta, però, i bielorussi non ci stanno e a pochi minuti dall’annuncio migliaia di persone si riversano nelle strade delle principali città del paese. Esplode con tutta la forza possibile la rabbia di un popolo che non vuole più sottostare ad un regime che dura da 26 anni, da quando cioè la Bielorussia è tornata votare dopo l’indipendenza dall’Unione Sovietica.

Lukashenko – Era il 1994 quando, a seguito della dissoluzione dell’Unione Sovietica, venne approvata la Costituzione della Repubblica di Bielorussia. Un passo fondamentale per un paese che attraverso i 146 articoli di quel documento sognava l’inizio di un nuovo corso democratico dopo settant’anni di regime sovietico. Ma quello che doveva essere l’inizio di un sogno democratico si è trasformato in quella che è a tutti gli effetti l’ultima dittatura europea.

Le prime elezioni democratiche videro la partecipazione di sei candidati tra cui vinse, a sorpresa, un giovane Aleksandr Lukashenko ottenendo il 45% dei voti al primo turno e l’80% al ballottaggio contro lo sfidante Vjačaslaŭ Francavič Kebič. Quarantenne ex militare delle forze armate sovietiche e già deputato del Soviet bielorusso dal 1990, Lukashenko condusse una campagna elettorale incentrata sulle promesse di fare pulizia nel paese rimuovendo dalle posizioni di vertice gli ufficiali corrotti e di impedire privatizzazione e riforme di mercato. Una volta eletto, però, le sue idee politiche e la sua linea antioccidentale iniziò ad apparire sempre più chiara. Nel 1999 promosse una modifica alla costituzione per allungare da 5 a 7 anni il suo mandato presidenziale mentre due anni più tardi alzò il tiro contro i paesi occidentali facendo espellere gli ambasciatori di Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti d’America, Germania, Italia, Grecia accusandoli di cospirazione. È l’inizio di un regime mai più interrotto che ha trasformato la presidenza della repubblica in un gioco personale nelle mani di una sola persona.

Rieletto per un secondo mandato nel 2001, nonostante l’OCSE avesse sollevato dubbi sulla legittimità delle consultazioni, promosse e fece approvare una nuova modifica alla costituzione eliminando il limite di due mandati per i Presidenti della repubblica e spianandosi la strada verso un futuro alla guida del paese. Da quel momento il copione si è ripetuto identico per altre 3 volte prima di quest’anno (2006, 2010, 2015). Ad ogni tornata elettorale Lukashenko ha trionfato con un consenso tra il 70 e l’80% portandosi dietro critiche da tutti i paesi occidentali e dall’OCSE che ha più volte sottolineato come nei mesi precedenti alle elezioni venissero sistematicamente fermati tutti i principali sfidanti. Negli anni ha ridotto infatti in modo drastico le libertà di stampa e di parola in Bielorussia comprimendo i diritti delle minoranze e portando avanti una costante campagna persecutoria nei confronti degli oppositori politici.

Elezioni – E così è stato anche quest’anno. La stanchezza per il suo dominio infinito, la crisi economica e il suo spudorato negazionismo della pandemia hanno dato vigore a reali candidature alternative: il vlogger Serghej Tikhanovskij, l’ex direttore di una banca controllata da Mosca Viktor Babariko e l’ex ambasciatore negli Usa e fondatore della “Silicon Valley” bielorussa Valerij Tsepkalo. Candidature forti che, a pochi mesi dalle elezioni sembravano poter strappare finalmente lo scettro all’ultimo dittatore d’Europa e dar vita a un vero cambiamento per il paese. Ma in una Bielorussia in cui nulla deve impedire a Lukashenko di governare una tale voglia di cambiamento non è ammissibile. Così, dopo averli definiti “burattini della Russia”, l’eterno leader ha fatto arrestare i primi due e invalidato la candidatura del terzo. Unica ammessa alle elezioni per sfidarlo è stata la moglie di Serghej, Svetlana Tikhanovskaja considerata meno pericolosa perché donna. Su questo però, si sbagliava.

L’arresto dei principali candidati ha dato uno slancio inimmaginabile alla Tikhanovskaja che ha raccolto la rabbia e la stanchezza dei bielorussi. Timida insegnante trentasettenne, è riuscita infatti a galvanizzare le folle radunando addirittura 60mila sostenitori a Minsk in quello che è stata la manifestazione politica più partecipata dalla caduta dell’Unione Sovietica. Così la sua candidatura ha preso forza giorno dopo giorno tanto da arrivare, secondo alcuni sondaggi, ad avere oltre il 60% dei consensi nel paese. Ogni tentativo di Lukashenko di arginare la sua ascesa, come i quasi 1.300 attivisti arrestati durante manifestazioni a sostegno della Tikhanovskaja, sembrava andare nella direzione opposta rafforzando la sua candidatura. Ma quando l’opposizione era pronta a festeggiare un risultato storico, i dati ufficiali hanno gelato gli animi. Il 9 agosto la commissione elettorale ha diffuso, a seggi ancora aperti, i risultati delle elezioni: Lukashenko 80%, Tikhanovskaja 7%.

Proteste – L’ennesima tornata elettorale viziata da evidenti brogli e la prospettiva di un sesto mandato per Lukashenko ha scatenato la rabbia dei bielorussi che sono scesi in strada in oltre 30 città. Ancora una volta, però, il regime ha reagito come meglio sa fare. L’accesso a internet è stato interrotto isolando di fatto per diverse ore la Bielorussia dal resto del mondo mentre decine di migliaia di agenti venivano schierati in tenuta antisommossa per reprimere le proteste. Il bilancio a notte fonda è drammatico: 3.000 manifestanti arrestati, oltre 1.000 feriti e un manifestante ucciso. Ma è solo l’inizio.

Per tutta la settimana la tensione in Bielorussia resta altissima, centinaia di migliaia di persone scendono in strada sventolando drappi bianchi simbolo dell’opposizione. La Tikhanovskaja fugge in Lituania, dove da alcune settimane aveva mandato i suoi figli, temendo per la propria sicurezza in un paese che sembra sull’orlo di una rivoluzione. Perché più i giorni passano più la rabbia aumenta e con essa anche la repressione. Diverse associazioni denunciano il pestaggio e le torture inflitte ai manifestanti arrestati mentre i video mostrano una repressione sempre più dura da parte della polizia che, però, inizia a perdere i pezzi. Alcuni video mostrano infatti anche gruppi di militari che si tolgono la divisa per unirsi alle proteste rifiutandosi di combattere una guerra tra poveri per fare il gioco di Lukashenko.

Tutto quello che c’è da sapere sulla legge contro l’omotransfobia

 “L’intolleranza affonda infatti le sue radici nel pregiudizio e deve essere contrastata
attraverso l’informazione, la conoscenza, il dialogo, il rispetto”

-Sergio Mattarella-

A inizio settimana è iniziata alla Camera la discussione del disegno di legge contro discriminazioni e violenze per orientamento sessuale, genere e identità di genere, che prende il nome dal suo relatore, il deputato del Partito democratico, Alessandro Zan. il disegno di legge contro l’omofobia, come è stato ribattezzato dai media, potrebbe essere approvato entro metà agosto alla camera per poi approdare all’esame del senato. Ma come sempre, in Italia, quando si parla di omofobia e diritti LGBTQ si scatena il putiferio. Non a caso sono almeno 25 anni che si parla di una legge contro l’omofobia, da quando cioè il Parlamento Europeo l’8 febbraio 1994 approvò una risoluzione che chiedeva agli stati di adottare misure e di intraprendere campagne, in cooperazione con le organizzazioni nazionali di gay e lesbiche, contro gli atti di violenza e di discriminazione sociale nei confronti degli omosessuali. Una legge che nel nostro paese non è mai arrivata.

La legge – Il disegno di legge approdato alla camera a inizio settimana è la sintesi di cinque proposte di legge avanzate negli ultimi anni dai deputati Boldrini, Zan, Scalfarotto, Perantoni, Bartolozzi. “Con questa proposta di legge” si legge nel testo “anche l’ordinamento italiano si potrà dotare di uno strumento di protezione della comunità LGBTI in linea con una visione più moderna e inclusiva della società e nel tentativo di realizzare quella pari dignità che la Costituzione riconosce a ciascuna persona”. Una legge tanto fondamentale quanto, tecnicamente, semplice. La proposta del deputato Zan, infatti, è composta da nove articoli che apporterebbero modifiche agli articoli 604-bis e 604-ter del Codice penale e alla cosiddetta “Legge Mancino” del 1993.

Il fulcro del ddl Zan sta nelle modifiche alla legge Mancino del 1993. Se diventasse legge, infatti, si aggiungerebbero le discriminazioni e le violenze “fondate sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere” alla normativa già presente per quanto riguarda le fattispecie di “discriminazione razziale etnica e religiosa”. Se la legge venisse approvata, dunque, chi incita a commettere o commette violenza per motivi fondati sull’orientamento sessuale potrebbe essere punito con la reclusione tra i 4 mesi e i sei anni. Un passo avanti che colmerebbe un vuoto legislativo che dura da 25 anni e che, dopo ben 6 tentativi naufragati, darebbe all’Italia una legge contro l’omofobia riportandola al passo degli altri stati Europei. Negli altri articoli il ddl prevede un incremento di 4 milioni annui al fondo per le politiche relative ai diritti e alle pari opportunità, da destinare all’implementazione di politiche anti discriminazione, e commissione all’Istat un rilevamento statistico da effettuare ogni 3 anni per verificare gli atteggiamenti della popolazione che possano essere di aiuto nell’attuazione di politiche di contrasto alla discriminazione e alla violenza. Ultimo punto è l’istituzione di una giornata nazionale contro l’omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia. La ricorrenza verrebbe fissata per il 17 maggio, data in cui nel 1990 l’omosessualità venne rimossa dalla lista delle malattie mentali, con lo scopo di promuovere la cultura del rispetto e dell’inclusione, contrastare i pregiudizi, le discriminazioni e le violenze motivati dall’orientamento sessuale e dall’identità di genere, in attuazione dei princìpi di uguaglianza e di pari dignità sociale sanciti dalla costituzione.

Europa – Il nostro paese, se questa legge dovesse essere approvata, si conformerebbe ad un quadro generale che vede quasi tutti gli stati membri dell’Unione Europea che si sono dotati più o meno recentemente di leggi contro l’omofobia e le discriminazioni di genere. La prima a prendere una posizione è stata la Norvegia che nel 1981 ha, prima al mondo, modificato il Codice penale prevedendo la persecuzione penale per chi “in attività economiche o similari” rifiuta beni o servizi ad una persona per la sua “disposizione, stile di vita o tendenza all’omosessualità”.

L’esempio norvegese è stato seguito a distanza da pochi anni dagli altri paesi scandinavi che entro la metà degli anni ’90 si sono dotati di una legislazione contro l’omofobia spinti anche dalla rimozione dell’omosessualità dalla lista delle malattie mentali nel 1990. Poi è stata la volta di Paesi Bassi, Islanda, Belgio e via via tutti gli altri paesi europei. Nel 2003 sono state Spagna e Regno Unito ad adeguare la propria legislazione prevedendo tutele per le minoranze LGBTQ e in Francia dal 2004 chi insulta gay e lesbiche rischia un anno di carcere e fino a 45.000 euro di multa. L’unica eccezione, tra i principali paesi europei, sembra essere la Germania che ad oggi non ha una legge federale contro l’omofobia ma ha preferito delegare ai governi territoriali l’emanazione di norme su questo tema. Così a partire dalla metà degli anni ’90 molti Lander tedeschi hanno aggiunto addirittura nelle proprie costituzioni passaggi contro l’omofobia.

Italia – Resta nel panorama europeo un’unica nazione che ancora non si è mossa. L’Italia è rimasta sorda ai richiami dell’Unione Europea rimandando continuamente la discussione e l’approvazione di una legge su questo tema. Dopo 25 anni e sei proposte di legge naufragate siamo di nuovo alla vigilia di uno scontro ideologico su quella che dovrebbe essere una legge di civiltà condivisa da tutti. Da un lato c’è ovviamente la destra, con Lega e Fratelli d’Italia che si oppongono in maniera ferma e netta al ddl Zan parlando di “legge liberticida”. Ma mentre Salvini e Meloni parlano di un Parlamento paralizzato dal testo sull’omofobia diventata, secondo loro l’unico tema in discussione, i parlamentari dei due partiti hanno portato avanti un ostruzionismo a oltranza presentando in Commissione Giustizia 975 emendamenti al testo. Emendamenti fantasiosi, come quello che propone di estendere la legge mancino a chi ha “tratti fisici caratterizzanti, quali calvizie e canizie”, con cui leghisti e fratelli d’Italia hanno provato a bloccare la discussione in commissione per impedire al testo di arrivare alla camera. Un ostruzionismo che il leghista Alessandro Pagano ha sostenendo che “questa legge crea una super categoria, gli omosessuali lobbisti, che sovrasta il resto del mondo. Sono loro gli illiberali, noi siamo per la libertà”.

Se dalla destra arriva una posizione netta, più mite è quella del centro. Forza Italia, nonostante Berlusconi abbia definito la legge “inutile e pericolosa”, si trova in un limbo e rimane un’incognita in caso di voto. Allineata con Forza Italia, anche in vista di una possibile alleanza alle urne, è Italia Viva che grazie al suo ruolo nella maggioranza potrebbe puntare a smorzare la legge. I due partiti stanno infatti convergendo sulla necessità di asciugare il testo: vorrebbero mantenere solo la parte di contrasto alla violenza di genere, stralciando gli articoli che puntano alla sensibilizzazione, con l’istituzione di una Giornata nazionale contro l’omofobia (il 17 maggio), il potenziamento delle competenze dell’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni (Unar) in materia, mentre i 4 milioni di maggiori fondi per il Dipartimento per le pari opportunità sono già entrati in un articolo del dl Rilancio.

Ma mentre il parlamento si spacca e tra maggioranza e opposizioni volano gli stracci, nel paese l’omofobia dilaga. Intimidazioni, aggressioni verbali e fisiche e minacce aumentano giorno dopo giorno. Solo questa settimana si sono registrati episodi di omofobia a Roma, a Siracusa, a Firenze e a San Benedetto del Tronto dove alcuni ragazzi in vacanza ha aggredito per le strade un gruppo di amici perché tra di loro vi era un ragazzo gay. Episodi che si moltiplicano e che in questi mesi stanno toccando vette mai raggiunte prima. Una situazione che stride con le parole di chi definisce “inutile” la legge sull’omofobia. Una situazione che, invece, dovrebbe farci capire che forse serve proprio una legge del genere.

Alla scoperta del TAV tra ritardi, costi alle stelle e benefici nulli

“Arriverà un governo che prenderà atto dell’evidenza: la valle non vuole i cantieri.
E finalmente darà l’ordine alle truppe di tornare a casa”
-Erri de Luca-


Lo scorso agosto il dibattito la realizzazione della cosiddetta TAV, la linea ferroviaria che dovrebbe collegare Torino a Lione, aveva dato uno scossone decisivo al governo giallo-verde aprendo le crepe che avrebbero poi portato alla rottura definitiva tra Lega e Movimento 5 Stelle. Per arginare la crisi il premier Giuseppe Conte aveva dato il via libera all’opera, da sempre malvista dai pentastellati, sostenendo che sarebbe stato più costoso interrompere i lavori che continuarli. Dopo il polverone che quel dibattito aveva generato, riportando la TAV al centro della scena politica e mediatica, il cantiere infinito è tornato nel dimenticatoio fino a mercoledì quando la Corte dei Conti Europea ha stroncato il progetto ritenendolo troppo costoso, troppo in ritardo e con un beneficio ambientale praticamente nulla.

TAV – Di Alta velocità Torino – Lione si parla dai primi anni ’90 quando è iniziata di fatto la progettazione di un’opera che da oltre 25 anni divide opinione pubblica ed esperti. Dopo anni di dibattito interno l’impulso ad una effettiva realizzazione arrivò nel 1994 quando il Consiglio Europeo di Essen inserì l’opera tra le 14 infrastrutture prioritarie da finanziare prevedendo investimenti da parte della BEI e chiedendo agli stati di iniziare i lavori entro il 1996. Una data che rimarrà la prima di una lunga serie di scadenze non rispettate nella storia della TAV con i due governi che solo 5 anni più tardi, nell’ottobre 2001, iniziarono i lavori di ricognizione per la realizzazione della parte comune.

Il progetto, infatti, prevede una divisione in tre blocchi. Da un lato due tratte nazionali per un totale di circa 180km, a carico dei singoli stati, dall’altro il grande progetto di una nuova galleria di base a doppia canna lunga 57 km (12 su territorio italiano e 45 in Francia) che colleghi Saint-Jean-de-Maurienne e Susa/Bussoleno, finanziata dall’Unione Europea. Proprio la realizzazione del tunnel del Moncenisio si è rivelata nel corso degli anni l’aspetto più problematico dell’intera opera tanto che ad oggi solamente sono stati realizzati solamente i primi 9 km, tutti però sul versante francese. Dal lato italiano la situazione appare più complicata e il cantiere sta subendo ritardi e rallentamenti infiniti anche a causa di una strenua opposizione del movimento No Tav che sin dai primi anni ’90 si oppone all’opera e che l’8 dicembre 2005 occupò e smantellò il cantiere di Venaus al termine di una manifestazione a cui parteciparono oltre 30mila persone. Tra scontri politici, manifestazioni e cambi di progetto, la realizzazione dei 12 km di galleria in capo all’Italia non è infatti ancora partita. Se dunque i lavori in Francia continuano, nel nostro paese ad oggi non si è ancora scavato un centimetro del tunnel di base mentre si procede con la realizzazione di gallerie esplorative e di analisi preliminari. Una situazione che rende di fatto impensabile la conclusione dell’opera entro il 2030, data ultima prevista dalla Commissione Europea.

Ritardi – Uno dei principali problemi sollevati dalla Corte dei Conti è proprio quello relativo ai tempi di realizzazione e di messa in funzione dell’opera. Secondo le prime stime, realizzate a metà degli anni ’90, i lavori avrebbero dovuto iniziare nei primi anni 2000 con una serie di gallerie esplorative che avrebbero permesso di iniziare il cantiere per la realizzazione del tunnel di base nel 2008. Nei piani originali, infatti, dopo una serie di indagini preliminari i lavori avrebbero dovuto procedere in modo rapido e lineare portando ad una conclusione in circa 7 anni e alla relativa inaugurazione dell’opera nel 2015. Le stime, come ben sappiamo, si sono rivelate alquanto ottimistiche.

Nel 2008 l’apertura dei cantieri per la realizzazione del tunnel era infatti ancora un miraggio e sarebbe iniziata addirittura solo in corrispondenza della data indicato come termine ultimo dei lavori, il 2015. Un ritardo in partenza che ha ovviamente condizionato in modo pesante la realizzazione dell’opera portando la Commissione a rivalutare tempistiche e progetti individuando nel 2030 il termine ultimo per l’inaugurazione dell’opera e dunque il dicembre 2029 come deadline per il completamento dell’intera opera. Nonostante la previsione di tempi più lunghi, raddoppiati rispetto ai 7 previsti per il suo completamento nel progetto iniziale, sembra ancora difficile che la tratta Torino – Lione possa essere completata nei prossimi 10 anni. Mentre in Francia si continua a lavorare, infatti, in Italia manca ancora una data certa per l’inizio dei lavori di realizzazione del tunnel di base. Un ritardo, l’ennesimo, sulla tabella di marcia che rischia di far slittare ulteriormente un’opera a cui si lavora da 25 anni e che, da progetto iniziale, sarebbe dovuta essere attiva già da 5.

Costi e benefici – Altro tema particolarmente scottante è quello relativo ai costi e ai benefici. Numerose analisi negli anni hanno provato a stimare il costo complessivo dell’opera, che aumenta anno dopo anno tra ritardi e nuovi progetti, e i benefici che deriverebbero dalla sua realizzazione nel tentativo di valutare l’effettiva utilità dell’opera. Tutte le analisi si devono però confrontare con la problematica previsione dei costi di un’opera la cui realizzazione sta richiedendo investimenti sempre maggiori e non previsti. Se si considera solamente la realizzazione della tratta comune che collega Bussoleno a Saint-Jean-de-Maurienne, costituita quasi esclusivamente dal tunnel sotto il Moncenisio, i costi sono lievitati in maniera vertiginosa passando da una previsione di 3,8 miliardi di euro nel 1998 ad una attuale di 9,6 miliardi che potrebbe però subire ulteriori incrementi nei prossimi anni. I Costi per la realizzazione della parte comune sarebbero coperti per il 40% dall’Unione Europea, per il 25% dalla Francia e per il 35% dal nostro paese. Nonostante, dunque, l’Italia si debba occupare di 12 dei 57 km di galleria dovrà investire nell’opera più di quanto farà la Francia che, al momento della ripartizione della spesa, ha fatto leva sul maggior costo della tratta nazionale da realizzare per ottenere una riduzione della spesa nell’opera comune.

Ma se quantificare i costi è difficile, ancor di più lo è per i benefici comuni. Ma mentre inizialmente tutte le analisi sembravano indicare l’utilità dell’opera, negli ultimi anni si è registrata un’inversione di tendenza. Ad aprire la pista ad una nuova visione è stata nel 2016 la Corte dei Conti francese che ha sonoramente bocciato la TAV definendolo come un progetto “molto preoccupante per l’equilibrio futuro delle finanze pubbliche”. Anche in Italia, dopo sette precedenti analisi costi-benefici congiunte con esiti positivi con una previsione nel 2010 di benefici per 12 miliardi, l’ultima analisi commissionata dal governo lo scorso anno ha evidenziato l’inutilità dell’opera. La nuova valutazione ha infatti riscontrato un impatto negativo dell’opera che si aggira intorno ai -6,9 miliardi. Ad influire in modo pesante su questa inversione di rotta vi sono stati due fattori: il calo del traffico di merci e persone nelle tratte già esistenti e il minor beneficio ambientale. In particolare, su quest’ultimo aspetto, la Corte dei Conti Europea ha sottolineato come “i vantaggi ambientali in termini di emissioni di CO2 devono tener conto degli effetti negativi della costruzione, e degli effetti positivi a lungo termine dell’operatività”. E proprio considerando gli effetti negativi nella fase di realizzazione gli esperti consultati dalla Corte hanno concluso che le emissioni di CO2 verranno compensate solo 25 anni dopo l’entrata in servizio dell’infrastruttura. Per di più, quella previsione dipende dai livelli di traffico: se i livelli di traffico raggiungono solo la metà del livello previsto, occorreranno 50 anni dall’entrata in servizio dell’infrastruttura prima che le emissioni di CO2 prodotte dalla sua costruzione siano compensate.

La bocciatura dell’opera da parte della Corte dei Conti Europea sembra dunque essere solo l’ultimo tassello di una storia controversa. La storia di un cantiere infinito con costi mai definiti e benefici dubbi. Un cantiere contro cui si sono mobilitati negli anni milioni di persone dando vita ad uno dei principali movimenti di protesta nel nostro paese. Ora, dopo l’ennesima stroncatura, sembra più che mai necessario prendere una posizione netta sull’opera. Sembra più che mai necessaria una rivalutazione del progetto e degli obiettivi. Perché se prima si poteva utilizzare la scusa, aberrante, di un profitto messo prima della tutela dell’ambiente ora nemmeno più quella scusa può risultare credibile.

“Concludo confermando la mia convinzione che la linea di sedicente alta velocità in Val di Susa va ostacolata, impedita, intralciata, dunque sabotata per la legittima difesa della salute, del suolo, dell’aria, dell’acqua di una comunità minacciata.”

Coronabond e MES: Cosa sono e perchè dividono l’Europa

“Amo furiosamente l’Europa
ma ammetto che non funziona,
che dobbiamo rifondarla.”
-Emmanuel Macron-


Il coronavirus non è più solo un’emergenza sanitaria ma, in questi giorni più che mai, si sta trasformando in un’emergenza politica. Lo è per i governi statali chiamati a rispondere ad una situazione completamente nuova che spesso li ha trovati impreparati. Lo è, ancor di più, per l’Unione Europea che rischia di morire colpita da un braccio di ferro politico senza precedenti. Intrappolata nei suoi stessi meccanismi, non è stata fino ad ora in grado di dare risposte concrete per sostenere le famiglie e le imprese colpite da una crisi senza precedenti e che negli stati più colpiti arrancano e chiedono a gran voce un aiuto che non arriva. Si parla da giorni di MES e coronabond, con scontri e barricate tra chi sostiene uno e chi sostiene l’altro. Tra chi in patria chiede a gran voce una misura ma poi la boccia in Europa. Tra chi non vuole nessuno dei due e chi, invece, chiede aiuti senza condizioni.

MES – Il Meccanismo Europeo di Stabilità, MES per gli amanti degli acronimi o “Fondo salva stati” per chi vuole semplificare, è un’organizzazione intergovernativa europea attiva dal luglio 2012. Regolato dal diritto internazionale e con sede in Lussemburgo, il fondo nasce con lo scopo di fornire assistenza finanziaria agli stati dell’area euro che versino in condizioni di difficoltà tali da mettere a rischio la stabilità dell’intera Unione. A disposizione del fondo ci sono circa 700 miliardi di euro di cui solo una parte (80 miliardi) viene finanziata direttamente dagli stati membri in modo proporzionale alla loro importanza economica mentre il restante capitale viene raccolto sui mercati finanziari attraverso l’emissione di bond. L’Italia, terza economia europea dopo Germania e Francia, ha contribuito per il 17,9% versando all’organizzazione 14,3 miliardi di euro. Sette meno dei tedeschi e due meno dei francesi.

Il problema di fondo, per cui molti lo ritengono uno strumento inadeguato ad una situazione così critica, è che il meccanismo di stabilità concede prestiti dietro condizioni severe. Per poter accedere al fondo il paese che lo richiede deve sottoscrivere una lettera d’intenti concordata con la Commissione Europea, la BCE e il Fondo Monetario Internazionale in cui si impegna ad attuare interventi specifici nell’abito di un consolidamento fiscale, delle riforme strutturali, o del settore finanziario. Proprio da qui nasce lo scontro che ha spaccato il governo italiano e sta dividendo i paesi europei. I paesi che decidessero di attivare il meccanismo sarebbero infatti sottoposti a vincoli e regole più ferree rispetto agli altri stati rischiando di trovarsi ad affrontare una stagione di riforme più rigide e difficoltà finanziarie maggiori. Condizioni che stridono con il principio di solidarietà su cui si basa la comunità europea e che non sembrano in grado di rispondere in maniera efficace ad una crisi che colpisce tutti.

Coronabond – Meno condizioni sono invece richieste dai cosiddetti “eurobond”, ribattezzati “coronabond” per l’occasione. Quando si parla di Eurobond ci si riferisce ad un’obbligazione ideata nel 2011 dalla Commissione Europea presieduta dal portoghese José Manuel Barroso dietro cui si cela un ragionamento semplice: essendo l’eurozona un’entità con un’unica banca centrale e un’unica moneta, perché non creare anche un unico debito pubblico? Un titolo di stato europeo garantisce infatti una maggior stabilità e tassi di interesse minori di quelli a cui sarebbero sottoposti i titoli dei paesi più deboli.

Avendo spese superiori rispetto alle entrate, gli stati chiedono costantemente prestiti emettendo in cambio obbligazioni (bond, in inglese) che garantiscono una rendita annuale a chi li detiene. Lo stato che ha richiesto il prestito paga in questo modo gli interessi impegnandosi a ripianare il debito allo scadere delle obbligazioni. L’Italia, ad esempio, emette solitamente i cosiddetti BTP, obbligazioni decennali che al momento rende agli acquirenti un interesse di circa l’1,7%. In sostanza chi presta soldi al nostro paese riceve un 1,7% annuo per dieci anni dopodiché riottiene la somma prestata. Il rendimento dei titoli di stato è in continua evoluzione e dipende dalla solidità del paese: più un paese è stabile, più l’investimento viene considerato sicuro e più sarà basso il tasso di interesse. Al contrario per paesi in difficoltà l’interesse sarà maggiore essendo più alto il rischio che non riescano a ripagare il debito. Metro di paragone è la Germania, ritenuta l’economia più solida a livello europeo, sui cui titoli di stato viene calcolato il divario (lo “spread”) degli altri stati. Un divario che oscilla tra i 226 punti della Grecia, i cui titoli hanno un tasso di rendimento del 2,1%, e i 29 punti dell’Olanda, i cui titoli sostanzialmente non danno alcun rendimento.

Proprio le oscillazioni a cui sono sottoposte le obbligazioni rendono gli eurobond, o coronabond che dir si voglia, maggiormente utili per quei paesi meno stabili. La grande stabilità finanziaria dell’Unione Europea nel suo complesso garantisce la possibilità di emettere titoli con un tasso di interesse comune per tutti i paesi e che dunque non sia soggetto ad oscillazioni stato per stato. La condivisione di un debito comune a tutti gli stati genera però preoccupazione in quei paesi caratterizzati da un maggior rigore preoccupati per la possibilità di fallimento di stati meno inflessibili che ne potrebbero approfittare per tenere comportamenti economicamente irresponsabili lasciando di fatto il pagamento del debito in capo ai contribuenti di stati più virtuosi.

Europa – Come il premier Giuseppe Conte, anche noi siamo costretti a fare nomi e cognomi. In Europa le barricate dello scontro eurobond-Mes hanno infatti contorni e colori ben definiti: da una parte gli stati dell’area mediterranea, Italia e Spagna su tutti, dall’altra quelli del nord Europa, capeggiati dalle virtuosissime Olanda e Germania. Mentre i primi chiedono un salto culturale all’Unione Europea con l’approvazione di una misura senza precedenti, i secondi frenano spingendo invece per l’utilizzo del MES seppur con qualche correzione che lo renda meno rigido.

A chiedere l’indebitamento comune tramite coronabond è stato il cosiddetto “gruppo dei nove”, ovvero un ampio schieramento di governi nazionali che nelle scorse settimane hanno firmato una lettera indirizzata alla commissione. Italia, Spagna, Francia, Belgio, Lussemburgo, Grecia, Irlanda, Portogallo e Slovenia hanno chiesto così formalmente che la Commissione Europea apra finalmente a questo debito comune per permettere lo sfruttamento di maggiori risorse e affrontare la crisi in corso. Si tratta di stati che, oltre ad essere i più colpiti dall’emergenza coronavirus, presentano i conti pubblici più fragili e quindi maggiormente in difficoltà nel finanziare misure straordinarie per il sostegno di imprese e famiglie. Ma se la Commissione Europea ha, dopo vari tentennamenti, accettato le richieste aprendo alla possibilità di indebitarsi, a fermare il tutto sono arrivati i falchi del nord: Olanda, Finlandia, Austria e, naturalmente, la Germania. I paesi più virtuosi del continente non intendono fare ulteriori concessioni dopo le misure già approvate per lo sforamento del tetto del 3% al deficit pubblico, quello del 60% al debito pubblico e la sospensione delle regole sulla concorrenza riguardo agli aiuti di Stato. Misure che permetteranno agli stati di indebitarsi senza incorrere in conseguenze mettendo a rischio la stabilità dell’intera unione. Uno strappo dell’Unione che Berlino e si suoi satelliti non hanno mai pienamente digerito e che considerano già una misura straordinaria.

E mentre lo scontro tra nord e sud Europa imperversa, il tempo passa. Bisogna urgentemente intervenire, come ha sottolineato Mario Draghi nel suo editoriale sul ‘Financial Times’, “con la necessaria forza e rapidità per impedire che la recessione si trasformi in una depressione duratura”. Bisogna farlo prima che sia troppo tardi, prima che il costo dell’esitazione sia fatale non solo per l’Unione ma anche e soprattutto per i suoi stati membri. È ora di dimostrare, in quanto europei, che quella solidarietà su cui è stata fondata l’Unione non è solo una parola vuota ma un reale valore comune e condiviso. È necessario, oggi più che mai, mostrarci uniti per combattere un nemico che, innegabilmente, sta colpendo tutti.