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Verso il voto: cosa dicono i programmi dei partiti sul contrasto alle mafie

In vista del voto del 25 settembre abbiamo analizzato i programmi dei quattro principali schieramenti politici per verificare se e come il contrasto alla criminalità organizzata venga trattato dai partiti che compongono i cosiddetti quattro poli. 

“Dignità è un Paese libero dalle mafie, dal ricatto della criminalità, libero anche dalla complicità di chi fa finta di non vedere.” Era il 3 febbraio quando, davanti al Parlamento che lo aveva appena rieletto, il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella pronunciava queste parole. Non aveva fatto in tempo nemmeno a finire la frase che dai banchi del parlamento senatori e deputati si erano alzati ad applaudire quell’affermazione. Per quasi venti secondi, applausi bipartisan avevano incorniciato quella frase costringendo il Presidente Mattarella a fermarsi e osservare quel pieno sostegno alla propria affermazione. Sei mesi dopo, però, quella simbolica presa di impegno sembra essere svanita nel nulla con programmi elettorali in cui la parola mafia fatica a comparire mentre il tema del contrasto alla criminalità organizzata trova sempre meno spazio.

Centrosinistra (PD, Verdi-Sinistra Italiana, Impegno Civico, +Europa) – Il centrosinistra sembra essere la coalizione che, almeno da programma, presta maggior attenzione al tema delle mafie. Il Partito Democratico indica nel proprio programma la volontà di “costruire una nuova cultura della legalità, che faccia della lotta alle mafie e alla criminalità organizzata una priorità”. Il PD sottolinea l’urgenza di un “piano nazionale contro le mafie che definisca obiettivi condivisi per tutte le amministrazioni dello stato per accompagnare la nuova stagione di investimenti pubblici”. Un riferimento implicito ai soldi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza che viene esplicitato in un passaggio successivo in cui si ribadisce l’importanza di “vigilare affinché i fondi del PNRR ed in particolare gli appalti ad essi legati siano tenuti al riparo dai rischi di infiltrazione mafiosa”. A ciò si aggiunge la volontà, espressa come vedremo da più parti, di riformare la legge sullo scioglimento dei comuni per rafforzare il contrasto alle infiltrazioni mafiose nella pubblica amministrazione. Proposte certo condivisibili ma prive di qualsiasi indicazione sui tempi e i metodi per attuarle al punto da farle sembrare slogan più che reali impegni. Unico passaggio “concreto” sul tema nel programma del Partito Democratico è la proposta di legalizzare l’autoproduzione di cannabis per uso personale vista come un tassello importante “nell’ambito delle politiche di contrasto alle mafie”. Un tema, quello della legalizzazione e regolamentazione della cannabis che condivide anche +Europa che l’unica volta che cita la parola “mafia” nel proprio programma lo fa proprio per sottolineare come una regolamentazione della cannabis in Italia aiuterebbe nel “contrasto ai profitti delle narco-mafie”.

Decisamente più articolato e concreto il programma sul tema di Verdi e Sinistra Italiana. L’alleanza rossoverde dedica ampio spazio al tema nel suo programma, anche se penultimo tra i punti programmatici, individuando anche alcune proposte concrete da attuare in caso di governo di centrosinistra. Anche in questo caso, in linea con quanto proposto dagli alleati, si ha una netta apertura alla legalizzazione delle droghe leggere come strumento di contrasto alla criminalità organizzata. A ciò si aggiunge la volontà di “affermare sempre più la legalità attraverso processi formativi ed educativi e prima ancora che per la propria sicurezza, per la propria dignità e per poter affermare la nostra libertà” e di facilitare le procedure per il riutilizzo sociale dei beni confiscati ai mafiosi. Rispetto agli alleati, e coerentemente con la natura dell’alleanza, Verdi e Sinistra Italiana affrontano poi nel dettaglio il contrasto alle cosiddette ecomafie con un elenco di venti proposte volte a ostacolare il fenomeno. A livello normativo si segnala la volontà di aggiornare la normativa sul piano cave, teatro da sempre di sversamenti e tombamento di rifiuti, e “un rafforzamento delle misure cautelari del sequestro preventivo e della confisca” oltre all’inserimento dei reati ambientali nel novero di quei delitti per cui non scatta l’improcedibilità. Tra gli altri punti importanti appaiono quello relativo all’attivazione di un sistema di tracciamento GPS dei rifiuti, già previsto per legge ma mai realmente attivato, oltre a una mappatura di impianti autorizzati allo smaltimento e di aree dismesse potenzialmente a rischio perché utilizzabili per stoccare illegalmente rifiuti.

Il programma di centrosinistra, come vedremo, è quello che dedica maggior spazio al tema. In linea con quanto visto per le questioni ambientali, però, ancora una volta le proposte appaiono essere fumose e poco concrete ad eccezione del programma dell’alleanza rossoverde, unica realtà in grado di mettere nero su bianco proposte concrete per il contrasto ad un fenomeno specifico come quello delle ecomafie.

Centrodestra (Fratelli d’Italia, Lega, Forza Italia, Noi Moderati) – “Lotta alle mafie e al terrorismo”. È questo l’unico passaggio sul tema nel programma comune della coalizione di centrodestra. Una singola frase all’interno del capitolo dedicato a “sicurezza e contrasto all’immigrazione illegale” senza alcun approfondimento o proposta concreta. Una situazione che ricalca quanto si verifica anche nei singoli partiti con, ad esempio, Fratelli d’Italia che nel suo “programma per risollevare l’Italia” nel capitolo dedicato a sicurezza e immigrazione parla genericamente di “lotta senza tregua a tutte le mafie, al terrorismo e alla corruzione”. Lo stesso avviene nel programma di Forza Italia in cui si parla di una generica “riforma degli strumenti di lotta alle mafie per conferire loro maggior efficacia”.

All’interno della coalizione il partito che dedica maggior spazio al tema, anche se in modo schematico e a nostro parere confuso, è la Lega che dedica due slide nel proprio “programma di governo” al tema del contrasto alle mafie. Tra le proposte emerge la volontà di espandere gli organici delle forze di Polizia per garantire “un controllo e una prevenzione sul territorio maggiormente capillare” e la proposta di potenziare il ruolo dell’Agenzia Nazionale dei Beni Confiscati e Sequestrati. Per quanto riguarda i beni confiscati la Lega rilancia poi la proposta di aprire alla possibilità di vendere i beni confiscati, già emersa in passato durante il governo Lega-M5S e duramente contestata dal movimento antimafia che ne ha sottolineato i rischi. Sul tema della formazione il programma del partito di Matteo Salvini sottolinea la necessità di istituire protocolli con le scuole per lo svolgimento di “incontri e percorsi formativi volti alla promozione della cultura della legalità e al contrasto alle mafie”. A far discutere, come già emerso nelle scorse settimane, è però il punto riguardante lo scioglimento dei comuni per mafia: “Attualmente” si legge nel documento “quando in un Comune la commissione prefettizia accerta che la collusione con una organizzazione criminale sia di un singolo consigliere e/o funzionario pubblico, quasi sempre viene sciolto il Comune. Proponiamo invece che la decadenza riguardi solo la persona collusa”. Si tratta però di una narrazione semplicistica che che non tiene conto del fatto che per lo scioglimento del comune non basta la presenza di un singolo funzionario o consigliere colluso ma di un ampio sistema in gradi di “determinare un’alterazione del procedimento di formazione della volontà degli organi elettivi ed amministrativi e da compromettere il buon andamento o l’imparzialità delle amministrazioni comunali e provinciali”.

Movimento 5 Stelle – Timido appare anche il programma del Movimento 5 Stelle che sul tema non porta proposte concrete se non quella, già avanzata dal centrosinistra, di legalizzare e regolamentare la coltivazione della cannabis per uso personale “al fine di contrastare il business della criminalità organizzata”. Per il resto, nel breve paragrafo dedicato al tema, si parla di un generico “potenziamento degli strumenti di contrasto già esistenti” e del “completamento delle riforma in tema di ergastolo ostativo” con l’esplicita volontà di tutelare i “principali presidi antimafia come il 41bis e le misure di prevenzione personali e patrimoniali”.

Si tratta di un programma evidentemente scarno e privo di qualsiasi proposta concreta che poco sembra avere a che fare con lo slogan “Onestà, Onestà” su cui ha basato la propria ascesa il Movimento 5 Stelle delle origini. La scarsa attenzione al tema di mafie e criminalità organizzata sembra oggi confermare la tendenza del M5S a staccarsi sempre più da quell’idea di anti-partito da cui era nata l’esperienza pentastellata.

Terzo Polo (Italia Viva, Azione) – Quasi assente, invece, la parola mafia dal programma di Azione – Italia Viva. Nel testo depositato dal cosiddetto Terzo Polo, oltre a sottolineare con frasi di circostanza l’ovvia necessità di contrastare il fenomeno, l’unica proposta che emerge è la volontà di modificare la legge sullo scioglimento dei Comuni per infiltrazioni mafiose “garantendo risorse adeguate e strumenti efficaci per evitare il fenomeno degli scioglimenti ripetuti.” Si segnala inoltre la presenza della parola mafia utilizzata anche in relazione al contrasto all’immigrazione clandestina che sarebbe “un danno sia per i migranti sia per i paesi di destinazione” e “favorisce lo sviluppo di mafie transnazionali e di politiche ricattatorie”.

Verso il voto: cosa dicono i programmi dei partiti su ambiente e clima

In vista del voto del 25 settembre abbiamo analizzato i programmi politici dei quattro principali schieramenti politici che si presenteranno a questa tornata elettorale per verificare se e come l’ambiente sia presente nelle idee dei partiti.

C’è una crisi a cui stiamo andando incontro totalmente impreparati. No, non parliamo della crisi economica né di quella energetica. La crisi più drammatica a cui stiamo assistendo è la crisi climatica che sta trasformando completamente l’ambiente e le nostre vite e che, senza contromisure immediate, potrebbe portare a conseguenze catastrofiche. Lo sanno bene i più giovani che proprio sui temi ambientali sembrano essere i più attenti come conferma l’ultimo sondaggio pubblicato da Repubblica il 1° settembre in cui emerge come un terzo dei giovani italiani si definiscono ambientalisti e chiedono un maggior impegno della politica su questi temi. Ma in vista delle prossime elezioni del 25 settembre, i principali schieramenti politici sembrano aver lasciato da parte la questione ambientale riservandole, quando va bene, uno spazio marginale all’interno dei programmi.

Centrosinistra (PD, Verdi-Sinistra Italiana, Impegno Civico, +Europa) – Il centrosinistra, grazie soprattutto alla presenza dell’alleanza rossoverde tra Verdi e Sinistra Italiana, è senza dubbio la coalizione con il programma più articolato per quanto concerne le tematiche ambientali. Tra le principali proposte portate dal tandem Fratoianni-Bonelli all’interno del programma elettorale del centrosinistra c’è l’approvazione di una legge per il clima con obiettivi coerenti e vincolanti a tutti i livelli. All’interno della stessa dovrebbe trovare spazio lo stanziamento di fondi per la realizzazione di opere di cambiamento climatico giudicate assolutamente indispensabili dal leader di Sinistra Italiana che ha ricordato come “negli ultimi quarant’anni l’Italia ha registrato ventimila morti a causa di eventi estremi, seconda solo alla Francia come numero di decessi”. Sul piano pratico, l’alleanza rossoverde propone lo sviluppo di una programmazione annuale che consenta di coprire l’80% del fabbisogno energetico nazionale con sole energie rinnovabili entro il 2030. La priorità, in questo piano di sviluppo, deve essere data in particolare all’energia solare e all’eolico mentre viene scartata l’ipotesi nucleare “come da mandato dei due referendum”. Per sostenere questa transizione, Sinistra Italiana e Verdi propongono l’eliminazione dei sussidi fossili (attualmente 20 miliardi l’anno) entro il 2025 e la redistribuzione di quelle risorse “come incentivo e supporto ai settori industriali e alle fasce sociali più esposte” ai cambiamenti di una transizione energetica. A ciò si aggiungono un programma di incentivi per l’utilizzo e lo sviluppo del trasporto pubblico locale e un nuovo piano rifiuti che punti da un lato allo sviluppo di un’economia circolare basata sul riciclo e dall’altro alla graduale eliminazione della plastica.

Misure meno estreme sono quelle proposte invece dagli alleati, ed in particolare dal PD che pur riconoscendo la transizione ecologica uno dei pilastri su cui basare l’azione dei prossimi quattro anni sostiene che gli obiettivi climatici devono essere “ambiziosi ma realistici”. Così nel programma della coalizione viene lasciata aperta la porta all’utilizzo di rigassificatori, come quello che tanto sta facendo discutere a Piombino, ma solo come soluzione temporanea da smobilitare “ben prima del 2050”. Dal punto vista legislativo, si pensa a una legge quadro sul clima e una riforma fiscale verde che “promuova gli investimenti delle imprese e delle famiglie a difesa del pianeta”, oltre all’implementazione del Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici (fermo al 2017). Previsto anche un Piano nazionale per il risparmio energetico e interventi finalizzati ad aumentare drasticamente la quota di rinnovabili prodotte in Italia, anche attraverso lo sviluppo delle Comunità energetiche, con l’obiettivo di installare 85 GW di rinnovabili in più entro il 2030. A ciò si aggiunge “la progressiva riduzione dei sussidi dannosi per l’ambiente” senza però indicare tempistiche per la sua realizzazione, a differenza di quanto fatto da Verdi e Sinistra Italiana.

Sulla questione ambientale, insomma, il centrosinistra viene trainato dalle posizioni forti dell’alleanza Verdi-Sinistra Italiana il cui programma dettagliato e determinato sembra compensare la timidezza e la fumosità delle proposte degli alleati.

Centrodestra (Fratelli d’Italia, Lega, Forza Italia, Noi Moderati) – Nel programma congiunto del centrodestra l’ambiente finisce in fondo alle priorità, al dodicesimo posto sui quindici punti programmatici della coalizione destinata a vincere le elezioni. Se non scontata appare la decisione di mettere nero su bianco la volontà di rispettare gli impegni internazionali assunti dal nostro paese, vista la spinta della Lega per una revisione degli stessi, il resto del programma appare poco ambizioso e certo marginale.

Si parla, in modo generico e senza precisare tempi e modi, dello sviluppo di un “piano strategico nazionale di economia circolare” che possa “aumentare il livello qualitativo e quantitativo del riciclo dei rifiuti, ridurre i conferimenti in discarica, trasformare il rifiuto in energia rinnovabile attraverso la realizzazione di impianti innovativi”. Una proposta certamente di buon senso e condivisibile che però, senza dettagli su come e cosa fare, risulta essere più uno slogan elettorale che un impegno reale e prioritario. Lo stesso si può dire per le altre priorità del centrodestra in tema ambientale che vengono ridotte in due punti in cui si promette la “salvaguardia della biodiversità” e di “incentivare l’utilizzo del trasporto pubblico e promuovere politiche di mobilità urbana e sostenibile”. Poca concretezza, oltre che scarsa ambizione, che rendono assolutamente marginale la tematica ambientale nella coalizione trainata da Giorgia Meloni.

A discostarsi maggiormente dall’ambientalismo è poi la parte di programma che riguarda “la sfida dell’autosufficienza energetica” in cui oltre a promettere una “transizione energetica sostenibile” vengono espressi i netti si della coalizione a termovalorizzatori, rigassificatori e nucleare. Sul nucleare il centrodestra ribadisce la volontà di voler valutare il ricorso al cosiddetto “nucleare pulito” per la cui realizzazione però bisognerà attendere ancora diversi anni trattandosi di tecnologie sulle quali ancora si sono ottenuti solo risultati di laboratorio privi di prospettive concrete nel breve e medio periodo.

Per quanto riguarda i singoli partiti, Fratelli d’Italia punta sull’aggiornamento del piano Nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici e sulla tutela delle coste e dei mari. La Lega sembra invece voler scommettere sulle montagne con la creazione anche di un ministero ad hoc per la loro tutela e sulla realizzazione di opere volte a garantire l’approvvigionamento idrico del paese. Forza Italia, dal canto suo, propone la piantumazione di un milione di alberi e il “potenziamento della semplificazione, di incentivi strutturali e crediti di imposta per le imprese che riconvertono e investono in eco innovazione e nuove tecnologie”. Appare evidente come il programma di centrodestra su questi temi punti più che altro a mediare tra transizione ecologica e tutela delle attività produttive e industriali.

Movimento 5 Stelle – Nato con una forte vocazione ambientalista, il M5S ha negli ultimi anni cambiato volto trasformandosi in un vero e proprio partito. Un cambiamento di cui risente anche l’attenzione alle tematiche ambientali che vengono accennate senza mai scendere nei dettagli. si parla, ad esempio, di una non meglio specificata “società dei 2.000 watt”, che dovrebbe “tendere a un modello sostenibile di consumo energetico” per ridurre le emissioni annuali di gas serra. A ciò si aggiunge la volontà di mantenere e anzi implementare il “Superbonus” per “per permettere la pianificazione degli investimenti sugli immobili e continuare a migliorare i livelli di risparmio energetico”, una proposta volta però più a ridurre i costi delle bollette che a salvaguardare l’ambiente. Nel programma del movimento si parla poi genericamente di “sburocratizzazione per favorire la creazione di impianti di energia rinnovabili” confermando però il secco no alla realizzazione di nuovi inceneritori e nuovi impianti di trivellazione. È importante sottolineare come nel programma non vi sia alcun riferimento al nucleare su cui però il Movimento 5 Stelle è sempre stato fermamente contrario e che, dunque, si può presumere mantenga la stessa posizione.

Terzo Polo (Italia Viva, Azione) – Carlo Calenda e Matteo Renzi intendono la questione ambientale dividendola in obiettivi di breve, medio e lungo periodo. Nel breve periodo il fulcro del programma è certamente un netto si al gas, con la realizzazione dei due rigassificatori per aumentare la produzione nazionale e ridurre gradualmente la dipendenza dal combustibile russo. Nel medio periodo l’obiettivo dell’alleanza Italia Viva-Azione è quello di ridurre del 50% l’emissione di CO2 entro il 2030 attraverso un percorso di decarbonizzazione volto a sviluppare fonti sostenibili. Una misura che almeno in parte sembra stridere però con la proposta di “abbassare il prezzo della CO2” per le imprese fino al termine della guerra in Ucraina, che tradotto significa abbassare le tasse sulle emissioni delle aziende costrette a utilizzare combustibili fossili visto il blocco del gas causato dal conflitto. Netto invece il sì al nucleare che, combinato con le rinnovabili, nella strategia del Terzo Polo dovrebbe permetter all’Italia di raggiungere entro il 2050 l’obiettivo “emissioni zero”.

La flat tax è incostituzionale?

La protagonista assoluta della campagna elettorale del centrodestra e la Flat Tax, una tassazione con aliquota uguale per tutti che, secondo analisti e avversari politici, rischia di essere incostituzionale. Proviamo a capire perché e se è realmente così.

Manca meno di un mese alle elezioni politiche del 25 settembre e nella fase più delicata di questa inedita campagna elettorale agostana il centrodestra lavora per convincere gli indecisi rilanciando un tormentone della scorsa campagna elettorale: la Flat Tax. D’altra parte il taglio delle tasse è da sempre cavallo di battaglia del centrodestra ed in particolare dell’ex premier Silvio Berlusconi che già promette agli elettori di attuare la riforma del fisco nei primi cento giorni di governo. Ma in questi giorni molti analisti e avversari politici stanno sottolineando come la proposta fiscale del centrodestra possa risultare incostituzionale in quanto contraria all’art. 53 della Costituzione che recita: “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”.

Per capire se sia realmente così bisogna far chiarezza innanzitutto su cosa prevede la riforma fiscale inserita nel programma di centrodestra. Il sistema attuale è progressivo e prevede quattro diverse aliquote in base al reddito imponibile annuo: chi, ad esempio, ha un reddito fino ai 15.000 euro si trova così nel primo scaglione e dovrà versarne il 23% in tasse, mentre chi guadagna oltre 50.000 euro annui si trova nell’ultimo scaglione dovrà versarne il 43%. Si tratta, come evidente, di un sistema che punta alla redistribuzione delle ricchezze, come previsto dalla Costituzione, con tassazioni più elevate per chi ha redditi maggiori. Con la riforma fiscale pensata dal centrodestra e basata su una flat tax, invece, sparirebbero i quattro scaglioni previsti attualmente e si applicherebbe la stessa aliquota a tutti i redditi. In questo modo, dunque, chi ha un reddito annuo inferiore ai 15.000 euro pagherebbe la stessa percentuale di chi ha un reddito superiore ai 50.000 euro.  È evidente come il sistema sin qui descritto non sia né progressivo né in grado di tenere conto della capacità contributiva dei singoli nuclei ed apparirebbe assolutamente incostituzionale.

La Flat Tax, quindi, è irrealizzabile senza modifiche alla costituzione? La risposta è no. Nonostante le parole del senatore di Fratelli d’Italia Massimo Mallegni che nel corso di un dibattito ha sottolineato come sia necessaria una modifica della Carta costituzionale, la realtà è che la flat tax può essere introdotta con legge ordinaria senza intaccare la Costituzione. Anzi, la flat tax in Italia già esiste: il reddito dei lavoratori a partita IVA, infatti, è già tassato al 15% senza distinzioni sul reddito annuo. Per estendere questo sistema a tutti i contribuenti senza renderlo incostituzionale, però, sarà necessario introdurre dei correttivi che rendano meno “piatta” la Flat Tax avvicinandola il più possibile a quella progressività richiesta dalla Costituzione. Qualche indicazione su come i partiti di centrodestra intendano impostare la riforma fiscale ci arriva dal disegno di legge presentato dalla Lega nel maggio 2020, a firma del senatore Siri, per l’introduzione e l’implementazione di una tassa piatta. Nella proposta del carroccio per superare i dubbi di costituzionalità erano stati inseriti una “no tax area”, volta a salvaguardare i redditi più bassi esentando dal versamento delle imposte i contribuenti con reddito inferiore a 10.000 euro, e una serie di detrazioni e deduzioni graduate in base al reddito ed alla situazione familiare mirate a rendere più equa la tassazione. Se dunque senza correttivi sarebbe improponibile, impostata in questo modo la Flat Tax non risulterebbe incostituzionale e potrebbe rispettare il criterio della progressività fiscale. 

Ma se costituzionalmente un sistema fiscale come quello proposto dal centrodestra può essere accettabile, è evidente come questa riforma sia espressione di un momento politico-sociale caratterizzato da un forte individualismo e da una scarsa coesione. Sembra assai lontana quella “nuova stagione dei doveri” più volte richiamata nella storia repubblicana, e ripresa anche dal Presidente Mattarella negli ultimi anni, perché necessaria a salvare l’Italia da pericolose derive. La Flat Tax proposta dal centrodestra è la fine di quel principio di solidarietà di cui parla l’art. 2 della nostra Costituzione auspicando “l’adempimento di doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. Il dovere di concorrere alle spese pubbliche, come stabilito da dottrina e giurisprudenza, è un dovere di solidarietà economica e sociale che richiede una tassazione progressiva basata su un sistema che riconosca la capacità contributiva di ciascuno. L’eliminazione, seppur attraverso correttivi, di un fisco progressivo mina quei principi stabiliti dalla Carta pur non violandoli espressamente. Ma al di là di una questione meramente astratta e sociologica come quella relativa all’art. 2, c’è anche una questione pratica che rende la tassa piatta inadeguata alla situazione in cui versa il nostro paese. Come si può pensare di mantenere i conti in ordine imponendo un’aliquota al 15% (o al 23% come proposto da Forza Italia), più bassa cioè anche dell’aliquota minima prevista dal sistema attuale che tassa al 23% i redditi inferiori ai 15.000 euro? È evidente come le entrate sarebbero nettamente inferiori. E, in un paese in cui il sommerso è di oltre 80 miliardi ogni anno, a poco valgono le parole dei leader del centrodestra che sostengono che con una tassazione del genere anche ci oggi evade le tasse inizierebbe a pagarlo. L’unica cosa certa è che alle condizioni attuali, una flat tax al 15% non potrebbe garantire le coperture necessarie. Forse bisognerebbe, prima di rivedere il sistema fiscale, occuparsi in modo serio e concreto del problema dell’evasione fiscale in Italia.

Come funziona la legge elettorale e perché rende indispensabili le alleanze

Dalla caduta del governo Draghi ad oggi un tema più di tutti ha riempito le pagine dei quotidiani: le alleanze. Un tema spinoso ma che va necessariamente affrontato all’interno dei partiti a causa di una legge elettorale che sfavorisce chi corre da solo. 

Era il marzo 2018 quando tutta Italia si rese drammaticamente conto dell’inadeguatezza della legge elettorale in vigore: il Rosatellum. In quell’occasione, complice la definitiva scomparsa del bipolarismo con l’ascesa del Movimento 5 Stelle, le urne non consegnarono una vittoria netta a nessun partito o coalizione ma costrinsero i principali leader politici a lunghe trattative per la nascita del governo. Ottanta giorni. Tanto fu necessario perché a seguito delle elezioni si trovasse un accordo per la nascita del primo governo Conte. Uno stallo indecoroso che, sommato al taglio dei parlamentari approvato nel 2020 tramite referendum, convinse tutte le parti politiche della necessità di rivedere la legge elettorale prima delle successive elezioni.

Invece ci risiamo. Il 25 settembre gli italiani saranno chiamati ad eleggere 600 parlamentari (400 alla Camera e 200 al Senato) con la legge elettorale pensata dal presidente di Italia Viva Ettore Rosato, da qui il nome “Rosatellum”, che prevede l’assegnazione dei seggi in parte con sistema proporzionale e in parte con sistema maggioritario. Significa, di fatto, che una parte dei seggi sarà distribuita ai partiti sulla base dei consensi a livello nazionale per la Camera e regionale per il Senato mentre i restanti seggi saranno assegnati a chi vincerà nei vari collegi uninominali in cui è stata suddivisa la penisola. A livello numerico la parte più corposa dei seggi verrà assegnata con il sistema proporzionale che permetterà di eleggere 367 parlamentari (245 alla Camera e 122 al Senato) mentre 221 saranno assegnati nei collegi uninominali (147 alla camera e 74 al senato) e i restanti 12 parlamentari saranno espressione delle circoscrizioni estere e verranno eletti con metodo proporzionale.

Il funzionamento della parte proporzionale del Rosatellum è facile ed intuitivo. Come dice il nome stesso, infatti, i seggi vengono distribuiti proporzionalmente tra tutti i partiti che hanno superato la soglia di sbarramento fissata al 3%. La parte più complicata, e maggiormente pesante nel sistema elettorale ideato da Rosato, è quella maggioritaria che prevede che in ognuno dei collegi in cui è stata suddivisa l’Italia venga eletto il candidato o la candidata della coalizione, o del partito in caso corra da solo, che prende il maggior numero di voti in quella porzione di territorio. Al momento del voto l’elettore potrà così scegliere di mettere una croce sul simbolo del partito che intende votare, assegnando così il suo voto a quel partito per la parte proporzionale e al candidato della coalizione nel maggioritario, oppure di metterla sul nome del candidato, assegnando al candidato il voto per l’uninominale mentre al proporzionale il suo voto sarà distribuito tra tutti i partiti della coalizione. Non è invece prevista la possibilità di un voto disgiunto e non sarà dunque possibile votare per un candidato all’uninominale ed un partito o coalizione diversa nel proporzionale.

È questo, di fatto, che rende quasi indispensabili le alleanze. Da un lato i partiti grandi, ad esempio il Partito Democratico, correndo da soli contro una coalizione più ampia farebbero molta fatica a vincere nei collegi uninominali e dunque cercano alleanze per raggranellare qualche consenso in più sperando di strappare qualche seggio agli avversari. Dall’altro, invece, senza alleanze i partiti più piccoli si ritroverebbero con poche o nessuna possibilità di vincere nei collegi uninominali e dovrebbero così accontentarsi dei seggi ottenuti con il proporzionale. L’alleanza Sinistra Italiana – Verdi, ad esempio, essendo data intorno al 4% potrebbe ottenere circa 15 parlamentari nel sistema proporzionale ma correndo da sola perderebbe in tutti i collegi uninominali in cui i candidati sono eletti con il maggioritario. Da qui nasce la necessità di entrare in coalizione con partiti più grandi per non dover rinunciare totalmente alla corsa nei collegi. In questo modo in cambio del proprio apporto elettorale, che come visto è necessario anche per i grandi partiti, i partiti più piccoli negoziano con le coalizioni la possibilità di mettere i propri candidati anche in alcuni collegi considerati “blindati”, cioè in cui la coalizione è sicura di vincere.

Ma se il sistema delle alleanze fin qui descritto appare intuitivo, meno comprensibile sembrano essere le trattative e i compromessi per allearsi con partiti tanto piccoli da rimanere sotto la soglia di sbarramento del 3% e che quindi rimarrebbero fuori dal Parlamento. Accade sia nel centrodestra, con i centristi di “Noi Moderati”, sia nel centrosinistra, con la formazione di Di Maio ben lontana dal 3%, ed è dovuto ad una seconda soglia di sbarramento prevista dal Rosatellum: le liste che fanno parte di una coalizione e che prendono tra l’1 e il 3% non guadagnano seggi al proporzionale, ma i loro voti vengono spartiti proporzionalmente tra gli altri partiti che compongono la coalizione. Inglobando nella coalizione partiti così piccoli dunque si ottengono vantaggi sia i partiti più grandi, che tentano così di raggranellare qualche seggio in più, sia per i partiti piccoli che vedono in queste alleanze e nella promessa di una candidatura in un collegio uninominale blindato (in cui cioè è quasi certa la vittoria della coalizione) l’unica strada per entrare in parlamento.

Per portare effettivamente voti alla coalizione, però, il partito in questione deve superare l’1%. In caso contrario tutti i suoi voti andranno persi. Se, ad esempio, il partito di Di Maio prendesse lo 0,8% e il suo leader venisse eletto in un collegio uninominale grazie alla coalizione di centrosinistra, Di Maio entrerebbe in parlamento ma gli altri partiti non otterrebbero alcun vantaggio da quella alleanza perché quello 0,8% non sarebbe ridistribuito a nessuno. 

Fratelli di ‘ndrangheta: i guai giudiziari nel partito di Giorgia Meloni

L’esponenziale crescita nei sondaggi del partito di Giorgia Meloni ha portato negli ultimi anni ad una migrazione di massa di esponenti di partiti di centrodestra verso Fratelli d’Italia. Un’arma a doppio taglio con cui FdI ha spalancato le porte a soggetti con legami pericolosi con cosche mafiose

Mancano meno di due mesi alle prime elezioni politiche autunnali della storia repubblicana e qualcuno già la incorona vincitrice. Giorgia Meloni, in testa a tutti i sondaggi, sta spingendo Fratelli d’Italia verso vette di consenso che nessuno poteva immaginare qualche anno fa. Nato nel dicembre del 2012 da una costola dell’allora Popolo delle Libertà, fino agli ultimi mesi era stato il partito minore all’interno della coalizione del centrodestra, utilizzato da Forza Italia e Lega per attrarre i voti delle frange più estreme della destra ed ampliare così il bacino elettorale di una coalizione orientata più al centro. Ma negli ultimi anni qualcosa è cambiato.

Radicato a Roma e provincia e fondato su una solida base di nostalgici e orfani della vecchia fiamma tricolore, Fratelli d’Italia ha scalato le gerarchie all’interno della coalizione diventando il primo partito sia nel centrodestra che nel paese. Grazie alla sua linea dura di forte opposizione a tutti i governi che si sono succeduti in questa legislatura, il partito di Giorgia Meloni è passato dal 4,4% delle politiche del 2018 ad un potenziale 23% alla prossima tornata elettorale. Un’ascesa quasi miracolosa che ha però portato ad una serie di problemi collaterali all’interno del partito in termini di legalità. Con la crescita dei consensi diversi politici, soprattutto al sud, sono migrati in modo quasi incontrollato da Forza Italia e dalla Lega verso il partito di Giorgia Meloni portando a Fratelli d’Italia importanti pacchetti di voti che hanno contribuito ad alimentare la crescita nei sondaggi. Ma questa continua “campagna acquisti” si è rivelata un’arma a doppio taglio: se da un lato ha ingrossato le fila del partito e contribuito alla crescita dei consensi, dall’altro ha spalancato le porte a soggetti in odor di mafia.

Uno smacco non indifferente per Giorgia Meloni che da sempre ricorda di aver iniziato a far politica dopo la morte del giudice Paolo Borsellino e di voler mettere al primo posto la legalità proprio per questo suo legame con il giudice antimafia. Parole che troppo spesso stridono, però, con i fatti. Fratelli d’Italia, ad oggi, sembra infatti essere il partito con più legami con i clan e con il maggior numero di esponenti arrestati. Per questo, anche se ha destato particolarmente clamore essendo arrivato in piena campagna elettorale, non sorprende il caso di Terracina scoppiato pochi giorni fa. Nel feudo nero di Fratelli d’Italia, dove la stessa leader del partito si era candidata per essere certa di essere rieletta in Parlamento, era stato ideato un vero e proprio sistema fatto di corruzione e gestione opaca degli appalti pubblici. Un sistema su cui ora indaga anche l’antimafia per le violenze e le intimidazioni in pieno stile mafioso ai danni di chi minacciava di opporsi. L’inchiesta, che vede coinvolto tra gli altri anche Nicola Procaccini fedelissimo di Giorgia Meloni già sindaco del comune pontino ed europarlamentare nelle file di Fratelli d’Italia, è la prosecuzione di quella che solo pochi mesi fa aveva portato all’arresto del vicesindaco Marcuzzi, anche lui meloniano della prima ora e in procinto di candidarsi alle prossime regionali.

E pensare che nel 2020, in piena campagna elettorale per le amministrative, era stata proprio la leader di Fratelli d’Italia a osannare il “modello Terracina” affermando di volerlo esportare anche a livello nazionale. “Io vi prometto” aveva detto durante un comizio “che prenderemo questo laboratorio, questo esempio di democrazia e politica, e lo porteremo al governo della nazione”. Ma se dopo gli arresti appare difficile immaginare la Meloni che, fiera e decisa, promette di portare il sistema Terracina in tutta Italia, in molti tra i suoi compagni di partito sembrano averla presa in parola riproducendo in tutta Italia quel tessuto di relazioni pericolose che ha portato alla fine della giunta del comune pontino.

È il caso, ad esempio, di Francesco Lombardo. Candidato alle amministrative di Palermo con Fratelli d’Italia è stato arrestato a pochi giorni dal voto per aver chiesto voti al boss mafioso Vincenzo Vella in cambio di favori. Una vicenda da cui Fratelli d’Italia ha subito preso le distanze dichiarandosi parte offesa. Così come aveva a suo tempo preso le distanze da Roberto Russo, assessore regionale in Piemonte, condannato nei giorni scorsi a 5 anni per voto di scambio politico mafioso. E ancora Alessandro Niccolò, capogruppo di FdI in Calabria arrestato per associazione mafiosa. O Giancarlo Pittelli, ex europarlamentare calabrese di Forza Italia passato a Fratelli d’Italia nel 2017 ed arrestato nell’ambito dell’inchiesta “Rinascita-Scott” perché considerato anello di congiunzione tra la politica e i clan di ‘ndrangheta. O ancora Domenino Creazzo, già sindaco di sant’Eufemia d’Aspromonte, arrestato tra l’elezione e l’insediamento in consiglio regionale per i suoi rapporti con la cosca Alvaro. E si tratta solamente di alcuni degli esponenti di Fratelli d’Italia arrestati o indagati negli ultimi anni per rapporti opachi con i clan. Una lista lunghissima che non fa sconti a nessuno, da nord a sud, da semplici eletti a dirigenti del partito.

“Io non posso conoscere personalmente tutte le migliaia di candidati che ha Fratelli d’Italia in tutto il paese” si era difesa Giorgia Meloni ai microfoni della trasmissione Report ribadendo il suo impegno per ripulire il partito da figure del genere. Un’affermazione sacrosanta e, a tratti, anche condivisibile. Difficile però immaginare che la leader di quello che oggi è il primo partito a livello nazionale non sapesse degli affari di Pasquale Maietta, astro nascente del partito e tesoriere del gruppo di Fratelli d’Italia alla Camera dei Deputati. Secondo le indagini condotte nel 2016 Maietta avrebbe avuto rapporti stabili e di reciproco interesse con il boss Costantino “cha cha” Di Silvio, elemento di spicco della criminalità organizzata nell’agro pontino che avrebbe garantito tramite Maietta il sostegno elettorale a Fratelli d’Italia nei territori controllati dal clan.

Si tratta di un quadro desolante che contrasta con le parole della candidata premier che da giorni ripete in lungo e in largo che “la classe dirigenti di Fratelli d’Italia è pronta per governare il paese”. Ma questo è il momento che Giorgia Meloni aspetta da una vita ed ora che si prepara a ricoprire la carica più importante di Governo ha deciso di eliminare tutti gli ostacoli tra lei e la premiership tra cui anche i problemi giudiziari legati che contribuiscono ad accostare il nome di Fratelli d’Italia alle cosche mafiose. Da giorni Giovanni Donzelli, responsabile organizzativo di FdI, è al lavoro per fare pulizia all’interno del partito eliminando dalle liste tutti i soggetti che negli anni hanno dimostrato una certa familiarità con gli ambienti criminali di tutta Italia. Un tentativo in extremis di ripulire la facciata per scongiurare polemiche e attacchi da parte degli avversari. Sarà sufficiente a portare la legalità non solo a parole ma anche nei fatti? 

Quirinale, giorno 5: Il centrodestra è morto, il centrosinistra spaccato. Così l’elezione del Presidente diventa una rissa

Sono le 14.58 quando Fico annuncia i risultati della prima votazione segnando la fine del centrodestra. La sconfitta della Casellati fa implodere la coalizione e costringe a nuove trattative con il centrosinistra che, però, in serata si spacca.

Quando il gioco si fa duro, i franchi tiratori iniziano a giocare. È la legge non scritta delle elezioni per il capo dello stato. Questa volta i traditori non sono 101 ma 71 e a farne le spese non è il centrosinistra ma il centrodestra. A farne le spese è la seconda carica dello stato: la Presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati. E peggio di così non poteva andare. Quella che doveva essere una prova di forza, si è rivelata una catastrofe. L’obiettivo del centrodestra, che conta 453 grandi elettori, era di arrivare almeno a 410-420 voti dimostrando così una certa unità prima provare l’affondo nel pomeriggio. Alla fine, però, l’asticella si è fermata a 382. Pochi. Troppo pochi.

La Casellati segue lo scrutinio al fianco di Fico contando i voti “segnati” come da copione dai partiti del centrodestra. Capisce che qualcosa non sta funzionando. Inizia a messaggiare nervosamente dal suo smartphone, tanto che Fico deve rallentare più volte la conta perché lei smette di passare le schede ai segretari. Alla fine della votazione sembra abbia un attimo di mancamento, lo percepiscono in pochi, ma un assistente parlamentare si affretta a darle un sostegno fisico, offrendole il braccio. Esce dall’aula senza dire nulla. La seconda carica dello stato è bruciata da 71 franchi tiratori. Non serve molto per capire chi ha tradito. Come da consolidata tradizione i partiti hanno “segnato” le schede, scrivendo lo stesso nome in modo diverso, per misurare la fedeltà. L’accordo di ieri era chiaro: la Lega scrive solo Casellati, Fdi Elisabetta Alberti Casellati, Forza Italia Elisabetta Casellati, Coraggio Italia Alberti Casellati. Le defezioni, in questo modo portano una firma inequivocabile. La firma di Forza Italia, proprio il partito della Casellati. Il centrodestra si spacca con Meloni e Salvini che si dicono uniti e accusano gli azzurri. È il momento più buio per la coalizione che si sentiva invincibile e che ora smarrita sembra in cerca di una via. Intanto il tempo stringe in vista della seconda votazione fissata per le 17 e il momento sembra propizio per il centrosinistra che dopo l’astensione del mattino potrebbe riprendere in mano la partita. Non è così, dal vertice tra PD LeU e M5S non escono nomi ma solo l’indicazione di votare scheda bianca. Una scelta fatta più che altro per misurare quella frangia che da giorni vota per Sergio Mattarella e le cui fila vanno ingrossandosi. Come prevedibile, mentre il centrodestra decide di astenersi, i voti per il presidente uscente arrivano da ogni dove e alla fine saranno 336. Due nulla di fatto, alla fine della giornata, ma se il secondo passa sostanzialmente senza fare danni il primo è un vero cataclisma.

E adesso che succede? È questa la vera domanda che aleggia, irrisolta a fine giornata. Dal tardo pomeriggio, dopo lo strappo sul voto alla Casellati, Forza Italia si è smarcata dagli alleati iniziando ad incontrare in autonomia i leader del centrosinistra in cerca di un accordo senza rispondere più a Lega e Fratelli d’Italia. Salvini e Meloni devono ammettere la sconfitta e rinunciano a forzature aprendo al dialogo con tutti. A un passo dal baratro, Matteo Salvini incontra il premier Draghi per verificare in estremo la possibilità di un accordo che tenga insieme il destino del governo e il nome del prossimo capo dello Stato. Poi subito da Conte e Letta per trovare un nome condiviso con le forze politiche che sembrano trovare una quadra e per qualche ora sembra si sia addirittura trovato l’accordo per votare Elisabetta Belloni già da questa mattina. Ma è un’illusione che dura poche ore, giusto il tempo di far circolare il nome sui principali media italiani. Da subito Forza Italia si dice contraria alla numero uno del DIS ricevendo l’appoggio di Italia Viva con Renzi che annuncia che non la voterà. Anche i cinque stelle si spaccano con DI Maio che attacca Conte con una dichiarazione dai toni forti: “Trovo indecoroso che sia stato buttato in pasto al dibattito pubblico un alto profilo come quello di Elisabetta Belloni. Senza un accordo condiviso. Lo avevo detto ieri: prima di bruciare nomi bisognava trovare l’accordo della maggioranza di governo. Tutto ciò, inoltre, dopo che oggi è stata esposta la seconda carica dello Stato. Così non va bene, non è il metodo giusto”.

È chiaro a questo punto che se la Belloni venisse eletta salterebbe la maggioranza venendo meno quel principio di condivisione tra tutti i partiti auspicato da Draghi. Ma mentre anche i grandi elettori del Pd pubblicano comunicati duri sulla decisione di Belloni e sul passaggio diretto dai Servizi al Colle, sorge il dubbio che il suo nome sia stato fatto per disorientare gli avversari e la stampa su quella che sarà la vera mossa dei leader delle forze che reggono il governo. Riemerge insomma lo spettro di un accordo tra Salvini e Conte. L’idea che i due possano tramare in segreto per trovare un nome era già circolata nei giorni scorsi tanto da costringere Letta ad imporsi nel vertice di ieri mattina e chiedere l’astensione del centrosinistra alla prima votazione, temendo che nel segreto dell’urna questo accordo diventasse palese con l’elezione della Casellati. Di certo, appare scelta incauta quella di spifferare sottovoce alla stampa, come hanno fatto i leghisti, o proclamare a gran voce, come ha fatto Grillo, il nome del candidato presidente il giorno prima dello scrutinio per eleggerlo. Verrebbe da pensare che l’intento vero sia quello di bruciare Belloni, coprendo con questa notizia il nome vero. Italia Viva e Forza Italia credono ancora che l’operazione Casini possa riuscire. Marta Cartabia è un’altra opzione ancora percorribile, se vengono superate le resistenze grilline. E poi c’è Mattarella per il quale ieri si è mossa una marea di grandi elettori e su cui molti iniziano a nutrire più di qualche speranza.

Le certezze insomma sono sostanzialmente due: il centrodestra non esiste più e il centrosinistra potrebbe fare la stessa fine a breve. L’elezione del Capo dello Stato, insomma, si trasforma in un tutti contro tutti e dal marasma emergono le forze populiste che potrebbero provare il colpaccio. Oggi potrebbe già essere il giorno decisivo con il tentativo di eleggere un Presidente già da questa mattina (prima votazione alle 9.30). Ma oggi, potrebbe essere anche l’ennesima giornata di scontro e trattative in attesa che si sblocchi una situazione che pare sempre più intricata.


Le immagini che restano

  1. Sconforto: La casellati segue sconfortata e con distacco lo spoglio che la vede sconfitta.
  2. Tradito: Primo ad uscire dal vertice con Conte e Salvini, Enrico Letta parla di responsabilità ed ottimismo, afferma che “ci vuole tempo” evitando di fare riferimenti a nomi o personalità. Passano pochi minuti ed escono gli altri due leader che decidono per una linea diversa annunciando che la candidata sarà una donna. “Basta, ci vuole serietà, sennò così si bruciano candidati e soluzioni” il commento stizzito del leader del PD
  3. Tweet: Elio Vito comunica su Twitter di non aver voluto seguire l’indicazione di voto del suo schieramento, ovvero di votare Elisabetta Casellati, e al tempo stesso di non far parte del gruppo dei franchi tiratori che, nell’urna, hanno “tradito” la comanda dei leader. “Non sono d’accordo con la decisione del cdx di votare, senza un accordo, Casellati. Il metodo giusto per eleggere il Capo dello Stato in questa situazione è cercare la condivisione con il centrosinistra” aveva comunicato poco prima sempre sui social.

Quirinale giorno 4: La fine della corsa per Casini e i nomi autorevoli bruciati a ripetizione

È il giorno della calma. La quiete dopo la tempesta che mercoledì ha scombussolato i piani spaccando il centrodestra e scuotendo il centrosinistra. Una giornata in cui si cerca di rimettere insieme i pezzi mentre un accordo sembra ancora più lontano.

Dopo la tempesta di mercoledì, alle 11 si è tornati in aula per votare ma questa volta le strategie sono diverse. Il centrosinistra dà indicazione ai suoi di votare scheda bianca, il centrodestra di astenersi. Così, con 441 grandi elettori astenuti, le schede bianche diventano 261 e si consuma l’ennesimo nulla di fatto nella prima giornata con il quorum a 505. Ma lo scrutinio di ieri ha dimostrato anche un’altra cosa: la forza di Sergio Mattarella. Lo hanno votato in 166, senza che nessuno lo avesse ufficialmente proposto. Sono 166 voti spontanei, 41 in più rispetto al giorno precedente, che indicano come la stima e la fiducia nel presidente uscenti sia ancora tanta. L’ipotesi di un bis resta assai remota, visto che come dice Salvini “ha già detto di no per 18 volte”, ma non così impossibile. Se tutte le altre porte dovessero chiudersi tra rifiuti e nomi bruciati la sua potrebbe essere l’ultima a cui andare a bussare facendo affidamento al suo alto senso istituzionale.

L’altro dato, come detto, è quello dei 441 grandi elettori di centrodestra che non hanno votato. La strategia, decisa all’ultimo minuto nel vertice di centrodestra di ieri mattina, aveva l’obiettivo di contarsi. Il centrodestra in questo modo sa, o pensa di sapere, che nella votazione di oggi parte da 441 voti sicuri e che, di conseguenza, ne mancano 63 per raggiungere il quorum. Ma la strategia di Salvini, che continua a vestire i panni di kingmaker nonostante le evidenti difficoltà, di falle sembra averne parecchie. In primo luogo, perché ha già dimostrato di non saper controllare i voti dei suoi che oggi, nel segreto dell’una, potrebbero non seguire le indicazioni dei tre leader. Ma soprattutto perché quella conta che doveva essere prova di forza si è trasformata in un boomerang ed il centrodestra astenendosi ha confermato di essere minoranza smentendo di fatto le ipotesi di spallata che circolano da giorni con i leader della coalizione che minacciano di eleggersi da soli il capo dello Stato. Allo stato attuale, di fatto, non sarà possibile. Soprattutto perché, ancora una volta, si registrano defezioni nello schieramento: il centrodestra ha 453 grandi elettori, ieri sono stati 441 quelli astenuti. 12 grandi elettori, pur sapendo che sarebbero stati individuati, hanno deciso di non seguire le indicazioni dei leader. Immaginatevi cosa può accadere oggi quando tutti e 453 avranno la certezza di non poter essere individuati tra i voti espressi.

Voti espressi, si. Perché oggi il centrodestra uscirà dalla logica della scheda bianche e per la prima volta proverà a votare compatto un nome: quello della Presidente del Senato Casellati. Era il nome circolato nei giorni scorsi per la possibile “spallata”, la forzatura di Salvini per provare ad eleggersi da solo il Presidente. Ora diventa un nome di ripiego per provare a dimostrare la compattezza della coalizione e la capacità di votare in blocco un candidato per far pesare quel dato in una nuova trattativa da intavolare con Letta, Speranza e Conte. Ma la Casellati, oramai, è bruciata. Così come è sfumata l’ipotesi Casini, fino a ieri iperfavorito ma cassato senza appello da Giorgia Meloni ieri mattina nella sua rottura con Salvini. “Casini è un candidato di sinistra e per noi è irricevibile” il verdetto al termine del vertice di centrodestra di ieri. In giornata, dunque, si provano a rimettere insieme i pezzi. Sembrano salire le quotazioni di Elisabetta Belloni con l’appoggio totale di FdI, l’approvazione della Lega, la gioia dei cinque stelle e un ok non troppo convinto del PD. Per qualche ora, nel pomeriggio, sembra cosa fatta. Poi qualcosa si inceppa e quello della numero uno dei Servizi Segreti diventa l’ennesimo nome bruciato. Renzi dice un no secco, LeU attacca, i più moderati del centrodestra la affondano. Alla fine è Di Maio a darle il colpo di grazia: “Profilo alto, ma non vogliamo spaccare la maggioranza”. E mentre Letta continua con la strategia attendista, più per non spaccare la maggioranza che per altro, Salvini raduna le sue truppe e cerca nomi in ogni dove. Prende contatti con il presidente di Fincantieri Giampiero Massolo e rimette sul tavolo le carte Frattini e Cassese. Il primo, di fatto, sembra messo li per fare numero. Non conosce la politica, la politica non conosce lui e, dato non da poco, ha troppi interessi per essere super partes. Il nome di Franco Frattini pare una mossa per provocare gli avversari che già si sono espressi con un secco no sull’ex ministro degli esteri. Cassese avrebbe l’appoggio di Fratelli d’Italia Lega e Pd, che lo aveva inserito nella sua rosa di nomi insieme ad Amato e Draghi, ma spaccherebbe la maggioranza con la contrarietà quasi totale di Forza Italia e Cinque Stelle.

Oggi assisteremo ad un altro nulla di fatto, con il centrodestra che si misurerà per la prima volta con il voto e il centrosinistra che punterà nuovamente sulle schede bianche mentre fuori dal palazzo si proverà a trovare un accordo. I nomi sul tavolo, come visto, sono tanti e sullo sfondo rimane quello del Presidente del Consiglio. Draghi in questi giorni ha interrotto le proprie trattative personali, iniziate con le prime votazioni, e continua a non mettere d’accordo i due schieramenti. Ma se dovessero saltare gli accordi su altri nomi sarebbe certamente pronto a lasciare Palazzo Chigi per salire al Quirinale. Rimane, insomma, una sorta di ultima spiaggia. Prima di tornare a bussare alla porta di Mattarella implorandolo di non dire no per la diciannovesima volta.


Le immagini che resteranno

  1. Rossoblu: Pierfierdinando Casini arriva a montecitorio sorridente indossando la sciarpa del Bologna, sua squadra del cuore. Ma quella di ieri per l’eterno centrista è la giornata in cui sfuma la possibilità di salire al Colle.
  2. Il caffè: Prima del vertice di centrodestra Salvini, Tajani e Toti si incontrano al bar per fare colazione. La Meloni non c’è, forse a causa della rottura del giorno prima
  3. Memoria: Quella di ieri è stata però anche la Giornata della Memoria. Vedere una donna sopravvissuta all’orrore dei campi di sterminio posare delicatamente la scheda con un voto (Perché come ha detto nei giorni scorsi “votare scheda bianca è irrispettoso”) suscita grande emozione. “Non può essere una giornata sola per nessuno, ma potete immaginare il giorno della memoria, quando tutti i giorni sono il giorno della memoria, per chi quella strada l’ha percorsa, per chi ha visto, per chi ha sentito, per chi ha fatto un passo dopo l’altro, una gamba dopo l’altra nella marcia della morte” ha detto ieri mattina la senatrice a vita.

Quirinale giorno 2: Dal centrodestra prove generali di elezione mentre si cerca un nome condiviso

Nella seconda giornata di votazioni si registra un altro giro di schede bianche con conseguente fumata nera. Tra conferenze stampa congiunte e nomi di bandiera si cerca convergere verso un nome comune. E se il centrodestra avesse già i numeri?

Sul Colle sventola scheda bianca. Come da copione anche la seconda votazione per l’elezione del capo dello stato non ha dato risultati e si è chiusa, in largo anticipo rispetto alla giornata di lunedì, con 527 schede bianche. I più attenti forse noteranno che le schede bianche sono diminuite notevolmente rispetto alle 672 del giorno precedente. È un segnale che qualcosa si muove? Assolutamente no. È solo il frutto della decisione dei parlamentari di porre fine a quella serietà di cui vi avevamo parlato ieri votando i nomi più disparati, da Nino Frassica ad Enrico Ruggeri che prende addirittura 4 voti. Al di là di questo poco cambia: trionfo di schede bianche ed ex cinque stelle che di nuovo votano in blocco Paolo Maddalena (39 voti). Unica variazione significativa si ha sul numero dei grandi elettori che da ieri tornano ad essere 1009 a seguito della proclamazione di Maria Rosa Sessa (Forza Italia) al posto di Vincenzo Fasano, deputato forzista deceduto domenica.

Qui si esaurisce la cronaca dal Palazzo. Ma è fuori dal Parlamento, negli uffici e nei ristoranti romani, che si gioca la partita vera. Ed il primo tempo va al centrodestra che alle 16.29 con una conferenza stampa congiunta dei tre leader Salvini, Meloni e Tajani annuncia una rosa di tre nomi per il Quirinale: Letizia Moratti, Marcello Pera, Carlo Nordio. Tre nomi di bandiera che, e lo sanno bene anche nel centrodestra, sono assolutamente irricevibili da PD, LeU e Movimento 5 Stelle che come previsto rispondono con un secco “no” ma si dicono disponibili al dialogo al punto da non presentare nomi alternativi per non rompere quel sottile equilibrio che si va creando. Ma allora perché il centrodestra avrebbe presentato tre nomi pur sapendoli irricevibili? Per smuovere la situazione in vista di domani quando, lo ricordiamo, il quorum scenderà a 506 grandi elettori. L’obiettivo è, insomma, quello di far uscire allo scoperto il centrosinistra che a questo punto per non andare al muro contro muro sarà costretto a sedersi a un tavolo con i leader della parte opposta per trattare su un nome esterno a quella rosa. Tra quei tre nomi, infatti, ne manca uno molto più autorevole: Maria Elisabetta Casellati, l’attuale presidente del Senato. E proprio lei sarebbe il candidato su cui vuole puntare il centrodestra. Un nome non fatto per proteggere la sua candidatura, per non “bruciarla” come si dice in gergo. È la carta coperta su cui andare in all in, o quasi, in vista di domani.

Oggi, insomma, è la giornata chiave e a condurre le danze sarà ancora una volta il centrodestra che vuole chiudere la partita ed eleggere domani o massimo venerdì il nuovo Capo dello Stato. Il vertice tra i due schieramenti, che si terrà a breve, potrebbe portare ad un nome condiviso o a una rottura. Mentre scendono le quotazioni di Draghi, su cui anche il PD sembra sempre più spaccato, restano alte quelle del centrista Casini. Proprio su di lui potrebbero convergere le varie forze politiche considerando che il centrosinistra farà verosimilmente di tutto per scongiurare l’elezione della Casellati, che rappresenterebbe di fatto la vittoria del centrodestra. Ma se il tavolo oggi dovesse saltare lo scenario cambierebbe e non poco. Uno strappo oggi significherebbe l’addio all’ipotesi di un candidato condiviso e la caccia del centrodestra ai voti necessari per raggiungere il quorum ed eleggere il proprio presidente che, a quel punto, potrebbe essere davvero la Presidente del Senato.

È uno scenario così impossibile? Forse no. Il centrodestra, che conta 457 grandi elettori, avrebbe infatti bisogno di fatto di trovare una cinquantina di voti fuori dai propri gruppi parlamentari. Nulla di così impossibile nella legislatura con il gruppo misto più grande di sempre. In questo scenario, che ricordiamo essere assolutamente ipotetico, i primi a confluire nel centrodestra potrebbero essere i 43 grandi elettori di Italia Viva che da sempre guardano con interesse a quel lato dell’emiciclo. Ancora non basterebbe. Ma a votare con il centrodestra potrebbe esserci un altro gruppo che in questi giorni sta facendo parlare di sé: gli ex 5 Stelle. Quei 35-40 grandi elettori che in questi giorni votano compatti per Maddalena. Con i loro voti di lunedì e di ieri hanno dimostrato il loro peso, offrendosi di fatto al miglior acquirente come pacchetto di voti sicuro. E l’acquirente, stando a quanto hanno rivelato a chi scrive fonti vicine al gruppo, sarebbe arrivato proprio dal centrodestra che nella giornata di ieri avrebbe trovato un accordo per farli confluire nelle proprie fila da domai. A quel punto il quorum sarebbe ampiamente superato. 457 dal centrodestra, 43 da Italia Viva e altri 35 dagli ex Cinque stelle a cui aggiungere qualche franco tiratore del centrosinistra e almeno una quindicina del misto. I numeri per eleggersi il proprio capo dello stato, insomma, il centrodestra li ha.

Lo farà? Difficile. Più facile che il Centrodestra utilizzi questi numeri, se confermati, per fare pressione sul Centrosinistra. Nessuno vuole uno strappo, che significherebbe di fatto caduta del governo ed instabilità politica ai massimi storici. Oggi si cercherà di convergere su un nome, e non è da escludere che il Centrodestra possa votare in blocco uno dei tre nomi fatti ieri uscendo dalla logica della scheda bianca per far vedere il suo peso effettive. Domani le carte saranno tutte sul tavolo. Domani si fa sul serio.


Le immagini che resteranno:

  1. Prove tecniche di insediamento: Il gran giorno è vicino. Al Quirinale sono già iniziati i preparativi per la cerimonia di insediamento e nella giornata di ieri davanti al Quirinale hanno sfilato la fanfara a cavallo dei Carabinieri, i corazzieri a cavallo e la mitica Lancia Flaminia a bordo della quale il nuovo presidente farà il suo ingresso a palazzo.
  2. I King (o Queen) maker: Alla conferenza stampa del pomeriggio di ieri i leader del centrodestra escono allo scoperto. Sono loro ad avere in mano la partita del Quirinale.
  3. Il giovane Casini: Un Casini giovanissimo che parla ad un comizio e la frase “la passione politica è la mia vita”. Un post sibillino dell’eterno centrista su Instagram che sa tanto di candidatura al Colle.

Il pentito che accusa Giorgia Meloni: “Diede 35mila euro ai clan per ottenere voti”

Dalle parole di un collaboratore di giustizia arrivano pesanti accuse verso la leader di Fratelli d’Italia. Agostino Riccardi racconta ai magistrati romani di come Giorgia Meloni avrebbe pagato 35mila euro ai clan rom in cambio di voti per le elezioni politiche del 2013.

La denuncia arriva direttamente dalle parole del collaboratore di giustizia Agostino Riccardi ed è una di quelle notizie che, potenzialmente, potrebbero scatenare un terremoto politico. Parlando con i magistrati della Direzione distrettuale antimafia capitolina, Riccardi ha rivelato di come in occasione delle elezioni politiche nel 2013 Fratelli d’Italia avrebbe cercato il supporto e i voti dei clan. Con la sua collaborazione Riccardi sta aiutando i pm romani a ricostruire le vicende relative al clan nomade Travali, già finito al centro delle polemiche nei giorni scorsi per il video rap dei rampolli del clan.

Proprio il clan Travali, colpito duramente con l’indagine “Reset” delle scorse settimane, Fratelli d’Italia si sarebbe rivolto in cerca di voti. Secondo le parole del collaboratore di giustizia, infatti, sarebbe stata la stessa Giorgia Meloni a recarsi da loro per chiedere un sostegno in vista della tornata elettorale su suggerimento di Pasquale Maietta, all’epoca astro nascente della formazione politica poi finito al centro delle cronache per i suoi legami con i clan e con il boss dei Casamonica Costantino “Cha Cha” Di Silvio. “Nel 2013 alle elezioni politiche, prima di conoscere Gina Cetrone, presentata da Di Giorgi, al bar eravamo io, Pasquale Maietta, Viola, Giancarlo Alessandrini” si legge nelle dichiarazioni di Riccardi. “Maietta ci presentò Giorgia Meloni. Era presente anche il suo autista. Parlavamo della campagna elettorale e Maietta disse alla Meloni che noi eravamo i ragazzi che si erano occupati delle campagne precedenti per le affissioni e per procurare voti. Parlarono del fatto che Maietta era il terzo della lista, prima di lui c’erano Rampelli e Meloni, nonché del fatto che Rampelli, anche se eletto, si sarebbe comunque dimesso per fare posto al Maietta”. Ma ovviamente quei “ragazzi” non si sarebbero occupati gratuitamente della campagna elettorale di Fratelli d’Italia. Quando Maietta si rivolse alla Meloni per dirle che c’era bisogno di un pagamento lei non si sarebbe fatta troppi scrupoli: “Non c’è problema.” Avrebbe detto “Parlatene con il mio segretario” avrebbe detto.

L’incontro tra gli uomini del clan e il segretario di Giorgia Meloni si sarebbe svolto nei giorni successivi al Caffè Shangrila di Roma e in breve tempo, “senza usare telefoni o altre apparecchiature elettroniche”, si arrivò ad un accordo. Fratelli d’Italia avrebbe infatti pagato al clan 35mila euro per procurare voti e affiggere manifesti elettorali in giro per la città di Latina, pesantemente controllata dal clan nomade come testimoniato dalle recenti inchieste.

Si tratta, come comprensibile, di dichiarazioni che potrebbero avere ripercussioni pesantissime sul partito e sull’immagine di Giorgia Meloni. Dopo le numerose inchieste che negli ultimi anni hanno portato alla luce legami tra esponenti del partito, soprattutto a livello locale, e criminalità organizzata le parole di Riccardi mettono per la prima volta in relazioni i vertici del partito con un potente clan mafioso. Se fino ad ora Giorgia Meloni aveva (quasi) sempre avuto parole di condanna per chi, nel suo partito, veniva coinvolto in inchieste di mafia ora si ritrova coinvolta in prima persona ed è chiamata a difendersi. La prima risposta è ovviamente arrivata via Facebook con un video in cui la leader di Fratelli d’Italia ha smentito tutto: “Io non faccio affari con i rom, io non metto i soldi nelle buste del pane, la notizia è inventata” ha commentato “Devo pensare che gli inquirenti l’abbiano considerata infondata altrimenti mi avrebbero chiesto conto di una notizia che mi infanga e mi chiedo come sia possibile che una rivelazione del genere sia finita su Repubblica, senza che nessuno abbia inteso chiedermi un punto di vista. È partita la macchina del fango contro l’unico partito di opposizione. Non ci facciamo intimidire. Gli ultimi sondaggi ci danno sopra il 18%”.