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Il nuovo colonialismo che svuota l’Africa silenziosamente

“La fine del ventesimo secolo ha visto scomparire il colonialismo,
mentre si ricomponeva un nuovo impero coloniale.” 

-Josè Saramago-


È notizia di pochi giorni fa che la Germania, per la prima volta nella sua storia, ha riconosciuto di essere responsabile tra il 1904 e il 1908 di un vero e proprio genocidio nei confronti delle popolazioni di allevatori degli Herero e dei Nama in quella che oggi è la Namibia moderna, indipendente dal 1990 ma all’epoca colonia tedesca. Il Ministro degli esteri tedesco, Heiko Maas, oltre ad auspicare una riconciliazione con la Namibia, ha annunciato che la Germania intende stanziare un fondo di 1,1 miliardi di euro nei prossimi 30 anni, da investire in sviluppo dell’agricoltura e progetti di formazione ovvero per altre destinazioni che le stesse comunità colpite saranno libere di scegliere.

Europa  – Così la Germania cerca di riappacificarsi con il proprio passato coloniale a differenze di molti paesi occidentali, tra cui l’Italia, che ancora non riescono a riconoscere quegli orrori. Ma quando si parla di colonialismo è sbagliato pensare a qualcosa di lontano, a qualcosa che non ci appartiene. Ancora oggi, in gran parte del continente africano, perdurano forme di colonialismo diverse ma certo non meno provanti per chi le vive. In Europa è la Francia la principale attrice nel nuovo colonialismo, non più militare certo, ma fatto di influenza economica e culturale. Da questo punto di vista l’imperialismo francese sembra non essersi mai concluso e Parigi ha saldamente mantenuto un forte legame con i quattordici stati africani che un tempo erano colonie. Proprio in questi quattordici stati si verifica un caso unico di colonialismo moderno grazie all’utilizzo in tutte le ex colonie francesi di una moneta, il Franco della Comunità Francese in Africa (CFA), coniata da Parigi con un tasso di cambio fisso (655 CFA = 1 euro). Quella che sembra essere solamente una moneta racchiude in sé il senso del nuovo colonialismo francese. Da un lato, infatti, in cambio della convertibilità del CFA con l’euro la Francia richiede di partecipare alla definizione della politica monetaria della zona mentre dall’altro i paesi che utilizzando il Franco Africano sono tenuti a versare il 50% delle proprie riserve presso il Tesoro francese in un fondo comune gestito dallo stato transalpino. Tra i vantaggi derivanti dall’adozione di questa valuta vi è senza dubbio una sorta di scudo contro la svalutazione. Il CFA ripara anche dalle impennate inflattive che sovente scuotono l’Africa e rappresenta una garanzia anche in termini di integrazione regionale, facilitando gli scambi tra i Paesi che lo utilizzano. Non mancano gli svantaggi. Il più evidente è di costituire un potenziale freno allo sviluppo di questi Paesi. A farne le spese sono soprattutto i produttori africani desiderosi di esportare i loro beni in Europa. Il cambio fisso rende molto costose le loro merci e agevola gli agricoltori francesi ed europei. Rafforzando i propri legami culturali ed economici con le ex colonie, Parigi tenta di mantenere un’influenza importante sul continente per resistere al colonialismo in arrivo da oriente.

Asia – Ad oggi la principale potenza colonizzatrice dell’Africa è, senza dubbio, la Cina. Se fino al 2010 Pechino non aveva fatto grossi sforzi per aumentare la propria influenza sul continente, negli ultimi dieci anni sono stati investiti oltre cento miliardi di dollari per lo sviluppo di progetti economici e commerciali e per la realizzazione di infrastrutture. Un modo silenzioso per far valere la propria forza nel continente aumentando la propria influenza sugli stati che beneficiano degli investimenti massicci in arrivo dalla Cina. Ma quegli investimeni non sono destinati ad una reale crescita dell’Africa. Sono soldi spesi da Pechino in cerca di un tornaconto. Secondo uno studio condotto dalla China-Africa Research Initiative presso la Johns Hopkins School of Advanced International Studies, la Cina ha prestato un totale di 143 miliardi di dollari a 56 nazioni africane di cui circa un terzo dei è destinato a finanziare progetti di trasporto, un quarto all’energia e il 15% destinato all’estrazione di risorse, compresa l’estrazione di idrocarburi. Solo l’1,6% dei prestiti cinesi è stato invece destinato ai settori dell’istruzione, della sanità, dell’ambiente, alimentare e umanitario. Una cifra irrisoria che fa capire come l’investimento cinese sia finalizzato all’utilizzo dell’Africa per scopi economici e commerciali.

Quei prestiti, inoltre, stringono un cappio attorno al collo dei paesi africani che solo ora si rendono conto di essere alle dipendenze di Pechino. La difficoltà di restituire i prestiti ottenuti, infatti, sta costringendo diversi stati a cedere alla Cina infrastrutture o settori strategici della propria economia. Così l’Angola ha legato la propria produzione petrolifera alla Cina per poter ripagare il debito accumulato e il kenya potrebbe addirittura perdere il porto di Mombasa, una delle sue infrastrutture chiave e più grande porto dell’Africa orientale, cedendolo al governo cinese se la Kenya Railways Corporation (KRC) non dovesse effettuare il pagamento di 22 miliardi di dollari dovuti alla Exim Bank of China.

Mentre gli investimenti della Cina aumentano a dismisura, però, va sottolineato come anche altri paesi asiatici abbiano allungato le proprie mire sul continente nero. Tra i dieci maggiori investitori, infatti, si trovano anche Singapore, India ed Hong Kong che investono circa 20 miliardi ciascuno ogni anno in diverse zone.

Dove – Così come i partner, anche i settori e le regioni di interesse sono mutati nel corso degli anni. Gli investimenti hanno infatti iniziato ad essere diretti non solo alle materie prime, ma anche alle infrastrutture, alla manifattura, alle telecomunicazioni e, più recentemente, al settore dei servizi finanziari e commerciali, facendo uso sempre più di nuove tecnologie e puntando all’automazione. Allo stesso modo hanno subito una marcata diversificazione in termini di paesi di destinazione. I paesi destinatari di investimenti sono così cambiati e aumentati: non più solo quelli ricchi di risorse come il Sudan, la Nigeria, l’Angola, ma anche quelli con mercati e consumatori promettenti, per quantità e tipologia, come il Kenya e l’Etiopia. Per la Cina questa diversificazione è avvenuta di pari passo all’arrivo di imprese private cinesi nel continente e al crollo dei prezzi delle materie prime africane.

Il colonialismo, insomma, non sembra essere finito. Nonostante sempre più paesi prendano le distanze dal proprio passato fatto di abusi e violenze, ancora oggi la dominazione straniera in Africa sembra continuare sotto forme diverse. Più silenziose, forse, ma certo non meno pericolose. Se prima, infatti, lo sfruttamento delle risorse africane avveniva alla luce del sole, oggi prosegue nell’ombra sotto forma di investimenti e prestiti che, alla fine dei conti, sembrano servire solo in chi investe danneggiando ulteriormente chi li riceve.

A Hong Kong “non è la fine della battaglia”

Hong Kong è il faro della speranza per la democrazia in Cina.
Se questo faro cade e si spegne, la Cina entrerà in un’epoca buia.

– Dalù; giornalista dissidente cinese –


È già passato un anno da quando ad Hong Kong si consumavano gli ultimi atti delle proteste durate ininterrottamente oltre 8 mesi. Nel 2020, però, l’onda democratica che aveva travolto l’ex colonia britannica stanca delle prepotenze cinesi si è gradualmente interrotta, schiacciata sotto il peso della pandemia e della nuova legge sulla “sicurezza nazionale”.

Legge – Dopo mesi alla finestra a guardare Hong Kong bruciare senza intervenire in modo diretto, la Cina ha infatti deciso di stringere il cappio intorno ai sogni democratici della provincia autonoma. Durante il 13° “National People Congress”, l’assemblea parlamentare cinese che si riunisce annualmente per indicare la rotta politica cinese, è stata infatti annunciata la decisione di elaborare una legge apposita per Hong Kong che mettesse fine alle speranze degli “hongkongers”. Una grave intromissione della Cina negli affari dell’ex colonia che ha di fatto posto fine al modello “un paese due sistemi” sancendo in modo implicito il potere di Pechino su un territorio che avrebbe dovuto godere di una particolare autonomia. La legge, elaborata dai leader del partito comunista cinese, è stata poi approvata dal governo di Hong Kong ed è dunque entrata a pieno titolo nell’ordinamento dell’ex colonia britannica generando effetti devastanti.

La legge, secondo la Cina necessaria per “migliorare il sistema giuridico e i suoi meccanismi di applicazione per salvaguardare la sicurezza nazionale Hong Kong”, ha l’obiettivo dichiarato di prevenire, sopprimere e punire i reati di secessione, sovversione, terrorismo e collusione con un paese straniero a danno della stabilità interna con pene che vanno dai tre anni all’ergastolo. Ma l’ampiezza e la vaghezza con cui sono stati definiti tali crimini all’interno del testo, rende di fatto la legge applicabile a discrezione dei giudici in una moltitudine di casi. Giudici e Magistrati che, in occasione dei processi per casi riguardanti la sicurezza nazionale, vengono nominati direttamente da Pechino.

Conseguenze – Come ampiamente previsto, dal momento della sua introduzione la nuova legge è stata ampiamente abusata con il fine di reprimere i movimenti che nei mesi precedenti avevano infiammato la città portando in strada fino a due milioni di persone nelle marce più partecipate di sempre. Nelle settimane immediatamente successive centinaia di persone sono state arrestate anche solo per il possesso di adesivi, volantini, magliette o bandiere con gli slogan delle proteste ritenuti evidentemente pericolosi per la sicurezza di Hong Kong. Lo slogan “Liberate Hong Kong, revolution of our times”, utilizzato durante le proteste, è stato dichiarato sovversivo e messo al bando con divieto assoluto di usarlo o riprodurlo in qualsiasi modo. il controllo sui media è stato intensificato a tal punto che il New York Times ha deciso di chiudere la propria redazione in città spostando la sede asiatica a Seul. Il tutto mentre il governo cinese ha aperto un apposito ufficio con ufficiali mandati da pechino autorizzati ad intervenire per reprimere eventuali tentativi di violare la legge sulla sicurezza nazionale.

A settembre a decine di candidati dei partiti pro-democrazia è stato impedito di partecipare alle elezioni e molti hanno preferito lasciare il paese e chiedere asilo politico tra Taiwan e il Regno Unito. Il magnate della stampa Jimmy Lai, 73enne proprietario del giornale Apple Daily e noto per le sue battaglie pro-democrazia, è stato arrestato ad agosto ed ora rischia l’ergastolo. Il 1° ottobre, in un solo giorno, sono state arrestate 60 persone tra cui due consiglieri distrettuali con l’accusa di aver partecipato ad assemblee non autorizzate. Gli attivisti della rete democratica che hanno deciso di non fuggire, ora rischiano condanne altissime per aver organizzato le manifestazioni dello scorso anno. Tra di oro spiccano i nomi di Joshua Wong, Ivan Lam e Agnes Chow: i tre volti più noti delle manifestazioni antigovernative sono stati condannati rispettivamente a 13, 7 e 10 mesi di detenzione. In un ultimo, sfrontato, atto di sfida al regime cinese si sono consegnati loro alle forze di polizia per farsi arrestare. Davanti ai giudici Wong ha lanciato il suo ultimo messaggio prima di sparire nelle carceri della città: “Pensate di aver vinto” ha detto “ma questa non è la fine della battaglia”.

Prospettive – Ad oggi, certo, risulta difficile crederlo. La Cina sa di avere sufficiente forza per ignorare le proteste, peraltro mai troppo forti, della comunità internazionale e riportare Hong Kong nella propria orbita in modo definitivo spezzando ogni sogno di maggior autonomia. Ha dimostrato di aver imparato dagli errori commessi nel passato e, senza bisogno di alcuno spargimento di sangue come avvenne a Tienanmen nel 1989, ha ripreso il controllo di un territorio popolato da sei milioni di persone che avevano deciso di esprimere la loro insoddisfazione in piazza come alle urne conferendo al fronte democratico una schiacciante vittoria alle elezioni distrettuali dello scorso anno.

Ma allora con che coraggio Wong afferma che la battaglia non è finita? Può farlo perché la storia della città sembra essere dalla sua parte. Hong Kong è sempre riuscita a rialzarsi e a dimostrare che anche quando tutto sembra finito basta poco per trovare la forza per ricominciare. Nel 2014 con la repressione della “rivoluzione degli ombrelli” sembrava fosse finito ogni sogno di cambiamento e invece dopo cinque anni ancora più persone hanno provato a riprendere in mano quei sogni. Anche in quell’occasione Wong aveva avvertito che la battaglia era appena iniziata ed era stato preso per pazzo ma evidentemente non si sbagliava. Perché lui, come gli altri ragazzi che hanno animato le proteste, è un sognatore. Come il condottiero biblico da cui trae il suo nome, Joshua Wong vuole salvare il proprio popolo dall’oppressione cinese e non sembra intenzionato a fermarsi. Sui suoi social utilizza spesso riferimenti alle sacre scritture ed alla cultura popolare per raccontare i trionfi inattesi di personaggi sfavoriti e rilanciare la speranza dei propri concittadini e convincerli a non fermarsi. La voglia di democrazia di Hong Kong non si è fermata sotto la pioggia di lacrimogeni del 2014 ed è tornata cinque anni dopo ad infiammare letteralmente le strade della città con ancora più potenza. E allora sembra quasi logico il ragionamento di Wong: la battaglia non è finita, potete giurarci. Ad Hong Kong il sogno democratico non è spento. E, presto, tornerà a bussare con più forza alle porte di Pechino.

La Cina spegne il sogno di Hong Kong

May people reign
proud and free

now and evermore
glory to be thee Hong Kong


Per mesi è rimasta alla finestra ad osservare da spettatrice le proteste che hanno messo a ferro e fuoco Hong Kong. Per settimane si sono rincorse voci di un possibile intervento armato per reprimere nel sangue le proteste. Ora, la Cina ha deciso di passare al contrattacco. Con una nuova legge sulla “Sicurezza Nazionale” Pechino punta ad ingabbiare Hong Kong per ricondurlo lentamente sotto la propria influenza eliminando quell’“alto grado di autonomia” su cui si basa l’ex colonia britannica.

Legge – L’annuncio di una legge per Hong Kong è arrivato, improvviso e inaspettato, durante la terza sessione del 13° “National People Congress”, l’assemblea parlamentare cinese che si riunisce annualmente per indicare la rotta politica cinese. Un annuncio, però, che rappresenta una grave intromissione della Cina negli affari interni della ex colonia che, come sancito dalla costituzione, dovrebbero essere gestiti in maniera esclusiva dagli organi politici di Hong Kong. Proprio per questo ai vertici di Pechino è corsa in soccorso la governatrice Carrie Lam, massima carica politica e principale bersaglio delle proteste degli ultimi mesi, che si è detta in queste ultime ore pronta a collaborare “pienamente con il Comitato permanente del Congresso nazionale del popolo per completare al più presto la legislazione pertinente”. In questo modo, formalmente la legge verrà votata nel parlamento di Hong Kong nel rispetto della costituzione. Poco importa se, dietro quella norma, vi sia la mano nemmeno troppo invisibile di Pechino.

“È necessario stabilire e migliorare il sistema giuridico e i suoi meccanismi di applicazione per salvaguardare la sicurezza nazionale Hong Kong. Per prevenire, fermare e punire le minacce alla sovranità.” Se i dettagli della Legge non sono ancora definiti le parole di Wang Chen, vicepresidente del Comitato permanente del National People’s Congress, spiegano alla perfezione quale sia l’intento cinese. Un intervento deciso e netto da parte della Cina per limitare ogni forma di dissenso nell’ex colonia. Con la nuova legge sulla Sicurezza Nazionale, Pechino si aprirebbe di fatto le porte di Hong Kong estendendo all’ex colonia britannica forme più o meno stringenti di repressione. Tra le misure più controverse vi sarebbe infatti l’apertura di un ufficio a tutela della sicurezza nazionale completamente dipendente da Pechino che avrebbe il compito di intervenire ogniqualvolta si verifichino tentativi di secessione, eversione contro lo Stato, terrorismo e interferenze straniere. Se ora per un intervento diretto della Cina sul territorio di Hong Kong è necessaria una specifica autorizzazione da parte del parlamento dell’ex colonia, con la nuova legge Pechino si aprirebbe un varco importante che gli permetterebbe di intervenire a proprio piacimento sul territorio di quella che appare sempre meno come una provincia con “alto grado di autonomia”.

Critiche – La sola proposta di una legge simile, che nelle intenzioni di Carrie Lam potrebbe essere promulgata entro settembre, ha scatenato critiche e timori. Il volto duro e risoluto del Partito Comunista Cinese si mostra ora in tutta la forza, senza alcun timore ne tentativo di mascherarsi, con un provvedimento che potrebbe porre fine non solo ai sogni di una maggior democrazia ma anche al modello “un paese, due sistemi”. Con l’apertura di un ufficio alle dipendenze di Pechino, il governo cinese potrà di fatto colpire liberamente gli oppositori anche ad Hong Kong interpretando in modo ampio e contorto il concetto vago di Sicurezza Nazionale. Storpiandolo per ricondurlo alle proprie necessità quel concetto sarà utilizzato per colpire i diritti e le libertà dei cittadini reprimendo ogni forma di protesta e dissenso per evitare che si possano ripetere manifestazioni anti-Cina come quelle che più volte si sono viste negli ultimi 10 anni.  

Questa imposizione unilaterale di una legge che rischia di mettere a repentaglio le libertà di Hong Kong è un assalto frontale e pericoloso all’autonomia, allo stato di diritto e alla libertà dell’ex colonia. Un provvedimento che potrà avere ricadute pesantissime anche sull’economia della città. L’immagine di Hong Kong come città aperta, libera e internazionale potrebbe infatti subire un duro colpo e la sua sottomissione al regime cinese potrebbe allontanare investitori esteri e visitatori. Timori confermati anche dall’andamento delle borse con il mercato di Hong Kong che venerdì, dopo l’annuncio della legge sulla sicurezza nazionale, ha ottenuto il suo peggior risultato da oltre cinque anni perdendo il 5,6%. Nel frattempo, però, fatica a sollevarsi dal resto del mondo un coro di condanna unanime al governo cinese. Se un gruppo di 200 parlamentari di 23 paesi diversi ha pubblicato un appello in cui condanna duramente la mossa di Pechino, le reazioni dei leader mondiali sono state timide e marginali. Il ruolo giocato dalla Cina come potenza economica e politica negli equilibri mondiali rappresenta sicuramente uno scoglio importante che spinge molti ad evitare interventi affrettati o duri per non compromettere i rapporti con Pechino. La prima reazione è stata quella di Donald Trump che, senza specificarne le modalità, ha spiegato di voler affrontare “la questione in maniera decisa” dicendosi pronto a porre fine allo status economico speciale che permette commerci più semplici tra gli Usa e la ex colonia, non sottoposta ai dazi imposti alla Cina. Ma mentre Hong Kong rischia di diventare un semplice pedone sulla scacchiera di una nuova guerra fredda tra Pechino e Washington, a pagarne le conseguenze saranno gli abitanti di Hong Kong. La Cina sembra pronta a muovere la sua regina per mettere sotto scacco il re degli Stati Uniti. Ma per farlo deve mangiare quel pedone che non può fare passi indietro.

Proteste – E di passi indietro, ad Hong Kong non se ne fanno da quasi un anno. Da quando sono iniziate le proteste nel maggio scorso la rabbia è divampata in città e milioni di persone hanno manifestato la loro contrarietà prima al disegno di legge sull’estradizione poi all’intero sistema. La nuova proposta di legge potrebbe dare nuova linfa ad un movimento rimasto silenzioso per mesi a causa dell’emergenza sanitaria. Qualche centinaio di manifestanti si è radunato nelle ultime ore nelle strade di Hong Kong costringendo la polizia ad intervenire con cariche e gas lacrimogeni. È una prima risposta della città al tentativo cinese di incatenarla ma nessuno sembra intenzionato a fermarsi e tutto sembra indicare la ripresa di proteste massicce e di ulteriori scontri in città. Lo sanno gli organizzatori con il Civil Human Rights Front, che ha organizzato marce con oltre un milione di persone lo scorso anno, che si dice pronto a riprendere la battaglia dalle prossime settimane. Ma lo sa anche la Cina che, secondo alcune indiscrezioni, sarebbe pronta a tollerare una nuova breve stagione di proteste se ad esse seguirà la promulgazione della legge che sottometterà Hong Kong. Se, insomma, lo scorso anno le proteste avevano portato al ritiro della legge sull’estradizione, questa volta la Cina sembra più determinata che mai ad andare avanti anche a costo di una nuova escalation di violenza come quella che si è registrata in autunno. E in quello che il legislatore democratico Tanya Chan ha definito come “il giorno più triste nella storia di Hong Kong”, il leader delle proteste Joshua Wong ha esortato gli “HongKongers” a non piegarsi alla rappresaglia cinese. Chiedendo l’aiuto del mondo in questa battaglia ha ricordato in un tweet che “ogni HongKongers ne è ben consapevole: non lottiamo perché pensiamo di essere più forti, lottiamo perché non c’è altra soluzione”.

Un’altra soluzione, forse, l’avrebbe la Cina. Nella piccola Hong Kong il Partito Comunista Cinese ha un’opportunità unica per mostrare al mondo che è abbastanza forte e maturo da ospitare un’isola di libertà all’interno dei suoi confini sovrani. Un’isola influenzata certo da Pechino ma non succube ad un regime totalitario. Ma di fronte alle richieste democratiche di quell’isola felice, il regime cinese si è scoperto fragile. Spaventato da una sfida così grande mostra ora tutte le sue debolezze tornando al solo strumento che conosce per mantenere il controllo della situazione: la repressione. Ma chi ad Hong Kong ha assaggiato la libertà di un paese quasi democratico non può tollerare il controllo e la repressione di un regime totalitario. Chi chiede democrazia non può tollerare la dittatura. Sono i giovani che si ribellano per un futuro fatto di diritti. Non per un capriccio ma perché “non c’è altra soluzione”.

Il punto su Hong Kong

Il movimento, nato pacifico, sta diventando sempre più violento e radicale in risposta agli abusi della polizia. Il ritiro della legge sull’estradizione non ha placato le proteste che da ventiquattro settimane scuotono l’ex colonia britannica e gli Hongkongers non sembrano intenzionati a fare passi indietro mentre lo spettro di una nuova Tienanmen incombe.
9 giugno 2019. A tre giorni dalla discussione in parlamento della legge sull’estradizione voluta dalla governatrice Carrie Lam, il ‘Fronte per i diritti umani’ convoca una marcia di 3km per esprimere il proprio disappunto sul provvedimento. La manifestazione è un successo. Oltre un milione di persone si riversa per le strade di Hong Kong sfilando pacificamente da Victoria Park fino al LegCo, il palazzo governativo. È l’inzio di un movimento di protesta che, da quel momento, non si è più fermato arrivando alla 24° settimana consecutiva di proteste. Un movimento nato pacifico, trasversale ed immenso in grado di portare in piazza due milioni di persone (due volte la popolazione totale di Napoli, per intenderci) nel pomeriggio del 16 giugno. Un movimento che, però, con il passare delle settimane è diventato sempre più violento e deciso e di conseguenza meno partecipato e condiviso da chi quella violenza l’ha sempre rifiutata.
Con il passare delle settimane sono cambiate anche le richieste dei manifestanti al governo. L’Extradition Bill, la controversa legge che aveva dato il via alle manifestazioni, è stata prima sospesa e poi ritirata definitivamente dalla governatrice Carrie Lam. Un gesto di debolezza da parte della Chief Eecutive che, oltre ad averne minato in parte la credibilità agli occhi di Pechino, non ha sortito l’effetto sperato. Le proteste infatti non si sono fermate e i manifestanti hanno ribadito con forza lo slogan che li accompagna da ormai 6 mesi: “5 demands, not one less”. Cinque domande. Cinque richieste al governo e nessuna intenzione di rinunciare a nessuna di queste: il ritiro, già ottenuto della legge sull’estradizione; il rilascio di tutti i manifestanti arrestati; le dimissioni di Carrie Lam; il suffragio universale per l’elezione del consiglio legislativo e dello Chief Executive; l’istituzione di una commissione indipendente sulle violenze della polizia.
Proprio la polizia è infatti finita in questi mesi al centro delle polemiche. La repressione messa in atto dalle forze dell’ordine è stata in varie occasioni brutale e spropositata ed ha contribuito a radicalizzare e rendere più violento anche il movimento nato pacificamente. Una spirale di violenza in cui gli abusi della polizia hanno causato gli assalti sempre più duri da parte dei manifestanti innescando un infinito circolo vizioso. Se in questi mesi abbiamo assistito ad episodi estremi da entrambi gli schieramenti (dall’occupazione del LegCo, alle cariche indiscriminate in luoghi chiusi) il culmine lo si è raggiunto lunedì mattina. Alle prime luci dell’alba, infatti, un agente ha colpito con tre colpi di pistola a bruciapelo un manifestante disarmato che ora versa in condizioni critiche in ospedale. La reazione dei manifestanti è stata violentissima. La città è stata messa a ferro e fuoco ed un cittadino cinese, che si era avvicinato per provocarli, è stato cosparso di liquido infiammabile e dato alle fiamme. La rabbia dei manifestanti e gli abusi della polizia hanno contribuito a ridurre la partecipazione che, se inizialmente vedeva la partecipazione di 2/3 della popolazione, ora è limitata a circa 100/200 mila persone. Numeri altissimi, certo, ma non paragonabili alla marea umana che fino a metà luglio riempiva la città ogni weekend.
Ma nonostante i numeri parzialmente ridotti, la città è sotto scacco. Dopo le violenze di lunedì, i manifestanti hanno deciso di rimanere in piazza dando vita a quello che, di fatto, è il più lungo scontro con la polizia dall’inizio delle proteste. Tre giorni ininterrotti di tumulti e guerriglia urbana stanno paralizzando Hong Kong. I manifestanti hanno preso di mira semafori e stazioni della metro paralizzando di fatto il traffico in gran parte della città. Si stima che circa 200 semafori siano stati divelti o danneggiati e gli incroci stradali bloccati con barricate improvvisate mentre gli scontri più violenti si registrano nella zona dell’Università Cinese di Hong Kong. Le forze dell’ordine da lunedì sera sono schierate in tenuta antisommossa intorno al Campus occupato dai manifestanti e hanno ripetutamente tentato di liberarlo con gas lacrimogeni e proiettili di gomma. A nulla è servita la mediazione dei vertici dell’Università che hanno chiesto alle forze dell’ordine di non entrare negli spazi dell’ateneo dove, invece, da giorni va in scena una vera e propria battaglia in cui sono comparsi anche archi e frecce infuocate. Secondo i dati diffusi dalla polizia nella sola giornata di lunedì gli scontri avrebbero interessato 50 aree della città e avrebbero portato all’arresto di 287 persone (e altre 150 nella giornata martedì) e all’utilizzo di 255 candelotti lacrimogeni, 90 granate in spugna e 204 proiettili di gomma. La città è nel caos totale, la polizia fatica a muoversi in città e sedare le proteste per via dei blocchi stradali, gli studenti cinesi sono stati evacuati con una nave militare e il governo condanna le violenze ma non riesce a fermarle. Una situazione ormai fuori controllo che sta evidenziando tutti i limiti di Carrie Lam, sempre più incapace di riportare l’ordine in citta.
Proprio la Chief Executive è stata al centro di diversi rumors circa un piano, smentito da Pechino, per costringerla alle dimissioni e sostituirla a inizio 2020 dopo aver sedato le proteste con la forza. Una serie di decisioni e dichiarazioni controverse e, per certi versi incomprensibili, prese dalla governatrice hanno infatti contribuito ad alimentare le proteste invece di sedarle. Dalla sospensione dell’Extradition Bill al divieto di indossare maschere, dal supporto totale alla violenza delle forze dell’ordine all’accusa di egoismo ai manifestanti che paralizzano la città: Carrie Lam sta gettando benzina sulle fiamme che da 7 mesi bruciano Hong Kong. Un atteggiamento certo non gradito a Pechino che vede nelle proteste una sfida al suo nazionalismo e non può tollerarle ancora a lungo mentre le democrazie di tutto il mondo guardano con soddisfazione l’assalto degli Hongkongers all’autoritarismo del potente vicino.  Una situazione critica in cui la Cina starebbe meditando di agire in prima persona. Se da tempo, infatti, infatti si vocifera di un possibile intervento dell’esercito cinese per ripristinare l’ordine, le nuove violenze potrebbero portare il governo a prendere una decisione drastica e irreversibile. A lanciare l’avvertimento è stato il “Global Times”, giornale cinese vicino al governo, che ha paragonato i manifestanti all’ISIS e ha ricordato come “l’Esercito Popolare Cinese può entrare ad Hong Kong e riportare la calma”.
Mentre Hong Kong brucia ed affronta la prima recessione da 10 anni a causa delle proteste che ne hanno paralizzato l’economia la Cina resta alla finestra. Ma la sensazione è che non tollererà ancora a lungo tutto questo. Ora più che mai, lo spettro di una nuova Tienanmen incombe sull’ex colonia britannica.

Cosa sta accadendo ad Hong Kong?

Le proteste contro la governatrice Carrie Lam hanno raggiunto ieri un punto di rottura. I manifestanti chiedono le dimissioni del governo e il ritiro del ‘Extradition Bill’.

   
Uno striscione appeso all’esterno del Parlamento 
sintetizza lo spirito dei manifestanti 
Ieri, Nel giorno del 22° anniversario dalla fine del dominio coloniale, le proteste ad Hong Kong hanno raggiunto livelli mai visti prima. I manifestanti, dopo ore di assedio, hanno occupato per più di tre ore il palazzo del Parlamento. All’esterno dell’edificio la bandiera cinese è stata sostituita da una bandiera nera della città, simbolo delle proteste, mentre all’interno sventolavano bandiere coloniali. Dopo 156 anni di dominio inglese, Hong Kong, è diventata una Regione amministrativa speciale della Cina il 1° luglio 1997. Grazie al lungo passato coloniale la città ha però sempre goduto di una grande autonomia dalla Cina. Gli accordi stipulati tra Londra e Pechino stabiliscono infatti che Hong Kong possa mantenere un’economia capitalista fino al 2047 ed ha una totale liberà in tutti i settori con l’eccezione della difesa e della politica estera. A scatenare le proteste degli ‘Hongkongers’ è stato il rischio di perdere parte di questa libertà, a livello giudiziario, rafforzando il legame con Pechino. A preoccupare, soprattutto i più giovani, è la legge sull’estradizione voluta dalla Chief Executive, Carrie Lam. Dopo le ingenti manifestazioni, il 15 giugno la governatrice aveva deciso di sospendere ogni decisione sulla riforma rimandando la sua approvazione a data da destinarsi. Il ritiro della proposta di legge però non è bastato ai manifestanti che pensano sia solo un modo per calmare le acque per riproporla appena la situazione sarà tornata alla normalità.
 ‘Extradition bill’ – La riforma è stata proposta mesi fa dopo la mancata estradizione a Taiwan di un ragazzo accusato di aver ucciso la propria fidanzata a Taipei. Hong Kong ha attualmente accordi di estradizione con soli 20 stati, tra cui Regno Unito e Stati Uniti, e con questa legge vorrebbe colmare l’assenza di accordi con gli altri paesi regolando in linea generale i rapporti in materia in tutti i casi al di fuori di quelli già stabiliti. Portata avanti con forza dalla leader del governo di Hong Kong, Carrie Lam, la legge prevede la possibilità per le autorità di estradare chi è sospettato di gravi crimini. John Lee, segretario per la sicurezza di Hong Kong, ha precisato che i “gravi crimini” per cui sarà prevista l’estradizione sono tutti i reati punibili con una condanna uguale o superiore ai 7 anni di reclusione.
I messaggi dei manifestanti sul Lennon Wall di Hong Kong

Il procedimento per l’estradizione, previsto dalla legge, è complesso e prevede alcune garanzie. Dopo una prima richiesta formale al governo, in caso di approvazione, è la corte a disporre l’arresto e a pronunciarsi sull’eventuale estradizione. Nel caso decidesse di procedere, l’ultima parola spetterebbe nuovamente allo Chief Executive che può definitivamente disporre l’allontanamento del soggetto accusato. Nella legge è però prevista la possibilità di appellarsi contro tale decisione. In caso di ricorso dopo la pronuncia della corte, è possibile l’annullamento completo della decisione presa e l’interruzione della procedura. L’appello può avvenire anche al momento della decisione finale della governatrice. In tal caso, però, anche se il ricorso dovesse essere accolto la decisione tornerebbe nelle mani della corte che potrà decidere se confermare o meno la propria precedente decisione.

Perché ha scatenato le proteste? – Secondo i partiti di opposizione un ruolo così centrale dello Chief Executive nel procedimento di estradizione presenta degli aspetti problematici. Il rischio è che il leader del governo di Hong Kong, scelto da un comitato elettorale legato a Pechino, si sentirebbe in qualche modo obbligato ad accettare le richieste di estradizione provenienti dalla Cina. Anche le organizzazioni per la tutela dei diritti umani temono che la legge possa diventare uno strumento nelle mani di Pechino per silenziare voci dissidenti ad Hong Kong come già accade in Cina. Questo timore è aumentato dopo che Han Zheng, membro dell’Ufficio politico del Partito comunista cinese, ha annunciato il suo sostegno alla legge dichiarando che questo provvedimento potrebbe riguardare anche i cittadini di Hong Kong “sospettati di aver messo a rischio la sicurezza nazionale della Cina”. Il rischio è dunque che Hong Kong perda gran parte della propria economia diventando schiava del regime cinese, considerato liberticida dai protestanti e con un sistema giudiziario totalmente diverso. In Cina è ancora prevista, come denunciano gli attivisti per i diritti umani, la pena di morte per reati di particolare gravità, ciò non accade invece nell’ex colonia dove l’esecuzione capitale è stata abolita nel 1993.
Contro la legge sull’estradizione si è espresso anche Mike Pompeo, Segretario di Stato degli Stati Uniti, che ha criticato l’emendamento, sostenendo che potrebbe danneggiare lo stato di diritto a Hong Kong. Anche L’Unione Europea, il Regno Unito e numerosi altri stati hanno espresso la loro preoccupazione e i loro dubbi riguardo a tale riforma. La camera di Commercio di Hong Kong ha addirittura diffuso una nota in cui ha affermato che i cambiamenti potrebbero indurre le imprese a riconsiderare la scelta della città come sede regionale.
Due milioni di persone alla manifestazione del 16 giugno
(ph: Bloomberg)
Nonostante siano arrivate condanne unanimi a questa legge, Carrie Lam è comunque decisa a portare avanti la riforma. Nel discorso in cui annunciava il rinvio, oltre ad aver annunciato di non aver intenzione di rassegnare le dimissioni, ha ribadito la necessità di tale documento. Non è un caso, dunque, la manifestazione più imponente si è avuta il 16 giugno, proprio il giorno successivo alle dichiarazioni della governatrice, quando quasi 2 milioni di persone hanno sfilato nella più grande manifestazione della storia di Hong Kong. Se in una situazione del genere sembra inevitabile il ritiro definitivo dell’emendamento, la governatrice non sembra intenzionata a percorrere questa strada. L’impressione è che in questo caso l’autonomia della Chief Executive sia minata dalle pressioni di Pechino che spinge per l’approvazione della riforma. Dall’altra
parte, anche i manifestanti non sembrano per nulla intenzionati a fermare le proteste e in un clima di crescente tensione, giunta all’apice nella giornata di ieri, continuano a scendere in piazza e a chiedere le dimissioni della governatrice al grido di “Carrie Lam! Downstairs!”.