Nei giorni scorsi Lorenzo Tondo, giornalista del “The Guardian, ha ricevuto la notifica della prima udienza del suo processo che si terrà il 2 febbraio prossimo. La sua colpa? Aver svelato al mondo gli errori di un giudice italiano che ha condannato un innocente credendolo un trafficante.
Un grossolano errore giudiziario, di quelli che non dovrebbero accadere. Un giornalista tra i più autorevoli in tutta Europa che se ne accorge e decide di indagare. Un reportage che fa luce sulla vicenda gettando ombre inquietanti sul lavoro della magistratura. Una vicenda surreale che si chiude con la corte d’assise che dà ragione al giornalista confermando l’errore giudiziario e disponendo il rilascio dell’imputato. Ma in quella che sembra la trama di un libro c’è tempo per un ultimo colpo di scena: la notifica recapitata al giornalista che comunica l’inizio di un processo a suo carico il 2 febbraio 2022. L’accusa? Aver diffamato i pm con il suo reportage.
Ma facciamo un passo indietro. È il 2016 quando Calogero Ferrara, sostituto procuratore a Palermo, annuncia di aver disposto e portato a termine l’arresto del “Generale” Medhanie Yehdego Mered, uno tra i principali trafficanti di esseri umani. La notizia rimbalza sui principali siti di informazione d’Europa e sembra essere il punto più alto della lotta al traffico di esseri umani. Ma qualcuno si insospettisce. Secondo Lorenzo Tondo, giornalista del “The Guardian”, c’è qualcosa che non quadra in quella vicenda e decide di conseguenza di approfondirla seguendo le udienze e indagando sull’uomo arrestato. Quello che emerse da quel reportage fu clamoroso: l’uomo estradato in Italia perché considerato il più sanguinoso trafficante di esseri umani altro non era che un profugo eritreo che faceva il falegname a Khartoum con l’unica colpa di avere lo stesso nome del “generale” ricercato. Uno scambio di persona che ha portato in carcere un innocente lasciando a piede libero il vero trafficante. Perché, nonostante le inchieste di Tondo e le prove portate a processo dall’avvocato della difesa, quel processo si concluse con la condanna di Mered. Quello sbagliato, ovviamente. Solo nel 2019, dopo tre anni di detenzione in carcere, la Corte d’Assise di Palermo riconobbe l’errore ed ordinò l’immediata scarcerazione dell’uomo.
Ma le inchieste condotte dal giornalista del Guardian non sono mai state digerite dal pubblico ministero. Tra il dicembre 2019 e il gennaio 2020, infatti, Ferrara ha presentato due denunce per diffamazione a carico di Tondo: la prima per i suoi post su Facebook in cui chiedeva di fare chiarezza sul caso, la seconda per le sue inchieste sul Guardian e la sua indagine parallela a quella della magistratura. Ora, conclusosi il processo di mediazione, Ferrara ha deciso di confermare entrambe le cause e Tondo dovrà presentarsi in aula per difendersi dalle accuse del PM. “Il caso di Lorenzo Tondo è emblematico delle difficoltà che vive oggi il giornalismo indipendente in Italia”, ha commentato l’avvocato nominato dal Guardian, Andrea Di Pietro, che da anni segue le peripezie giudiziarie dei giornalisti. “La critica che spesso si rivolge ai cronisti giudiziari italiani è di essere troppo dipendenti dai pubblici ministeri i quali interagiscono con la stampa solo quando questa è disposta a raccontare la loro versione dei fatti”. Criticare un PM in Italia espone i reporter al rischio di dover affrontare, nella quasi totalità dei casi, querele o denunce in un meccanismo perverso che limita la libertà di stampa.
Il caso, ora, è al centro dell’attenzione internazionale e il processo a Tondo potrebbe diventare il simbolo delle libertà di stampa violate. Sulla vicenda è intervenuta anche la Piattaforma del Consiglio d’Europa per la protezione del giornalismo e la sicurezza dei reporter che indicato come una potenziale “intimidazione” la doppia querela presentata da Ferrara. Un’intimidazione che, però, non può funzionare. Tondo ha ricevuto pieno supporto dal suo giornale, il Guardian, che ha deciso di sostenere interamente le spese legali mentre tutto il mondo del giornalismo europeo e non solo si è stretto intorno al collega a difesa di una libertà che deve rimanere inviolabile. Lorenzo non è solo oggi e non lo sarà nemmeno il 2 febbraio in aula.
“Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure.“ – art. 21, Costituzione italiana-
La diamo per scontata. Pensiamo che sia un problema che non ci riguardi. Pensiamo che l’Italia sia un’isola felice in cui questi problemi non esistono. Ma anche da noi, la libertà di stampa è in pericolo. A dirlo sono i dati del “Word Press Freedom index 2020”, la ricerca condotta ogni anno dall’ONG “Reporters Sans Frontiers” sul livello di libertà di stampa in 180 paesi del mondo. Nella classifica di quest’anno il nostro paese è al 41° posto, dietro Ghana, Sud Africa, Burkina Faso, Botswana e Namibia. Una sola posizione più in alto della Corea del Sud.
Italia – A pesare sulla situazione nel nostro paese è la presenza di tanti, troppi giornalisti costretti a vivere sotto scorta per colpa delle minacce subite. Sono almeno 20 i giornalisti nel programma di protezione secondo quanto riportato da RSF che evidenzia come nel nostro paese quello del giornalista sia ancora troppo un lavoro pericoloso. Da Saviano a Borrometi, da Federica Angeli a Donato Ungaro fino alle ultime inquietanti e dolorose minacce all’ormai ex direttore de “la Repubblica”, Carlo Verdelli. È impossibile negare che in Italia la libertà di stampa sia minacciata costantemente da estremismi politici e criminalità organizzata. Essere “Giornalisti Giornalisti” nell’accezione data da Giancarlo Siani, giornalista ucciso dalla camorra il 23 settembre 1985, espone a rischi altissimi in un paese in cui spesso diamo per scontate le libertà che abbiamo senza accorgerci di quanto invece siano in pericolo ogni giorno. In un’Italia distratta da mille dibattiti, guardiamo al dito invece che alla luna. Guardiamo alle parole di Vittorio Feltri come estremo esempio di libertà di stampa piuttosto che a quei 25 giornalisti sotto scorta come un pericolosissimo campanello d’allarme di una libertà sempre più minacciata.
E se il rapporto si riferisce al 2019, anche quest’anno non sembra registrarsi un’inversione di tendenza anzi, il trend è stato confermato in meno di una settimana. Il 7 gennaio due giornaliste di LaPresse e Alanews sono stati aggrediti ed intimiditi da militanti di estrema destra mentre tentavano di documentare la commemorazione per la strage di Acca Larentia, a Roma. Il giornalista bresciano Federico Gervasoni continua a ricevere minacce dopo le sue inchieste sull’estrema destra da cui è nato il libro “il cuore nero della città”. Andrea Pellegrino è stato minacciato sui social dopo un articolo pubblicato qualche giorno fa sulla manifestazione indetta dall’estrema destra per il 25 aprile. E poi il caso già citato del direttore di uno dei maggiori quotidiani italiani minacciato di morte per settimane da diversi account social. Sono i cosiddetti “squadristi da tastiera” che nascosti dietro l’anonimato di finti profili social lanciano minacce ed anatemi prima di sparire nel nulla. Lasciando, per fortuna, qualche traccia che possa ricondurre a loro.
Mondo – Chi sembra non avere di questi problemi sono i paesi del nord. Come già accaduto negli ultimi anni Norvegia, Finlandia, Danimarca e Svezia ricoprono infatti i primi quattro posti della classifica stilata da RSF e sembrano essere dei paradisi del giornalismo, dove esercitare la professione liberi da pressioni e minacce. Purtroppo, però, sono dei casi più unici che rari in un mondo in cui nel 13% dei paesi la stampa si trova in una situazione definita grave, il 26% in situazione di difficoltà e il 34% presenta concreti pericoli. In Corea del Nord (180° su 180), ad esempio, “il regime totalitario continua a mantenere i propri cittadini nell’ignoranza” grazie al “controllo quasi completo sulle comunicazioni e sui file trasmessi sul web”. Non va meglio nemmeno alla Cina (177°) la cui libertà di stampa è da settimane sotto accusa per aver nascosto i dati reali sui contagi da coronavirus e in cui “il presidente Xi Jinping è riuscito a imporre un modello sociale basato sul controllo di notizie e informazioni e sulla sorveglianza online dei suoi cittadini”.
Se le regioni peggiori per le libertà di stampa si confermano ancora una volta il Medio Oriente e l’Europa orientale, dove Russia e Turchia rappresentano modelli esemplari della repressione ai giornalisti, è proprio la regione asiatica ad aver registrato il peggioramento più consistente nell’ultimo anno con un consistente aumento nelle violazioni alle libertà di stampa. Oltre alla presenza dei due già citati regimi autoritari, pesa sulla situazione della regione il drastico peggioramento di diversi stati. L’Australia, ad esempio, ha perso cinque posizioni nella classifica delle libertà di stampa perdendo quell’immagine di paese modello per le libertà di stampa a causa dei recenti episodi di violazioni nella riservatezza delle fonti e di sistematiche violazioni in nome di una non meglio definita “sicurezza pubblica”. Ma a trascinare ancor più in basso l’intera regione è stata senza dubbio Hong Kong. Travolta dalle proteste di cui a lungo vi abbiamo parlato nei mesi scorsi, l’ex colonia britannica ha assistito ad una crescita esponenziale delle violazioni verso i media. Molti operatori e giornalisti hanno denunciato violenze della polizia nei confronti di chi documentava le manifestazioni di piazza in cui un reporter indonesiano ha addirittura perso un occhio dopo essere stato colpito da un proiettile di gomma. Cariche, violenze indiscriminate e arresti non hanno risparmiato nemmeno i media, nonostante fossero chiaramente riconoscibili grazie ad una pettorina gialla, che hanno dovuto operare in un clima di aperta ostilità.
Per molti paesi, insomma, la libertà di stampa si conferma un lusso mentre entriamo in decennio che sarà fondamentale anche per il giornalismo. Sulla libertà di stampa pendono come un’ennesima spada di Damocle cinque crisi convergenti che potrebbero schiacciarla definitivamente: una crisi geopolitica, dovuta all’aggressività dei regimi autoritari; una crisi tecnologica, a causa della mancanza di garanzie democratiche; una crisi democratica dovuta alla polarizzazione e alle politiche repressive; una crisi di fiducia dovuta al sospetto e persino all’odio nei confronti dei media; una crisi economica che inevitabilmente mette a rischio il giornalismo, la cui qualità richiede anche costi non indifferenti.
Saranno dieci anni difficili, come lo sono stati gli ultimi. Dieci anni in cui avremo bisogno, più che mai, di “Giornalisti Giornalisti” che ci raccontino la verità ad ogni costo. Però, in questi dieci anni e per quelli a venire, è ancor più importante che non rimangano soli. È ancor più importante che tutti smettiamo di guardare al dito e iniziamo a vedere la luna. Una luna fatta di violazioni ed intimidazioni. Come una grande Morte Nera che possa da un momento all’altro toglierci libertà che pensiamo essere intoccabili.
Con oltre 350 casi accertati, l’Italia è il terzo paese al mondo per diffusione del coronavirus. Un’emergenza che i media stranieri stanno raccontando con attenzione e la giusta dose di preoccupazione.
Da venerdì, quando l’emergenza coronavirus ha colpito direttamente il nostro paese, l’epidemia è diventata il principale argomento di tutti i mezzi di informazione italiani. Prime pagine, telegiornali, radio e siti di informazioni aggiornano costantemente il proprio pubblico sull’evoluzione della situazione generando spesso panico tra la popolazione. In questi giorni, infatti, la narrazione dell’epidemia nel nostro paese ha assunto sempre più toni epici. Come per raccontare una guerra contro un nemico invincibile, si aggiornano in diretta i numeri dei contagi, si parla di “caccia al paziente 0” di “corsa contro il tempo” di zone gialle e zone rosse, si mostrano le foto di supermercati assaltati, di persone con le mascherine, di città deserte. Il nord, descritto come uno scenario apocalittico dai media italiani, è così sprofondato in un panico autoalimentato in cui la corsa alle mascherine si è presto trasformata in corsa ai beni di prima necessità e cibi a lunga conservazione. Intanto gli occhi del mondo sono puntati tutti sul primo paese occidentale costretto ad affrontare un contagio su larga scala.
Cina – Sono quasi 80 mila le persone contagiate in Cina con oltre 2.600 decessi dall’inizio dell’epidemia ad oggi. In un sistema estremamente attento all’immagine del paese agli occhi del mondo i media cinesi stanno enfatizzando l’immenso sforzo attuato dal governo cinese per limitare i contagi ed affrontare l’emergenza. Come comprensibile, il coronavirus sta monopolizzando il dibattito pubblico e non mancano inevitabili riferimenti al resto del mondo ed al nostro paese. Diversi siti di informazione riportano notizie sulle misure di prevenzione prese nel nord Italia e sulle azioni intraprese dal governo per arginare il contagio. Con una narrazione ben lontana da quella esageratamente aggressiva dei media italiani, dall’epicentro dell’epidemia si guarda al nostro paese con apprensione ma senza allarmismi e si sottolinea da più parti come il crescente numero di casi in Italia rispetto al resto del mondo occidentale sia dato da un maggior numero di tamponi effettuati. Da sempre affezionati all’Italia e alle città d’arte nel nostro paese i cittadini cinesi hanno evidenziato grande interesse anche per quanto riguarda i monumenti e i simboli del nostro paese nel mondo, diversi siti riportano infatti notizie relative alla chiusura dei principali monumenti e delle manifestazioni pubbliche al nord sottolineando in certi casi l’eccezionalità delle decisioni prese come nel caso del teatro “alla Scala” chiuso per la 7 volta nella sua storia. Ma c’è anche chi, vede nel contagio italiano una sorta di “karma” dopo le aggressioni a cittadini orientali e lo stop ai voli da e per la Cina sempre condannato da Pechino. “L’Italia in preda all’epidemia scopre come si sentono i cinesi” titolava ieri il “South China Morning Post” sul suo sito ricordando come il nostro paese sia stato l’unico in Europa a chiudere il proprio traffico aereo verso oriente. Una decisione che avrebbe addirittura favorito il contagio perché, potendo tornare in Italia facendo scalo in altri paesi, “le autorità italiane hanno perso la capacità di rintracciare le persone che tornano dalla Cina”. Ma se i cittadini cinesi nel nostro paese hanno dovuto subire nelle scorse settimane “un contraccolpo razzista”, ora “tocca agli italiani affrontare quelle condizioni” si legge nell’articolo in riferimento ai blocchi imposti da altri stati a chi proviene dal nord Italia.
USA – Se visto dalla Cine lo scenario italiano sembra essere assolutamente sotto controllo, ancor più tranquillo appare agli occhi degli americani. Con circa 60 contagi e ancora nessun decesso registrato gli Stati Uniti risultano essere l’ottavo paese al mondo per diffusione dell’epidemia ed è evidente come oltreoceano l’isteria collettiva per il virus sia ben lontana del diffondersi. I media statunitensi seguono l’evoluzione dell’epidemia con molta apprensione e la CNN sul proprio sito fornisce aggiornamenti in tempo reale sulla diffusione del virus nel mondo. Parlando del nostro paese, proprio il principale broadcast televisivo americano, rilancia in diversi articoli apparsi sul portale web l’appello del governo a mantenere la calma etichettando come ingiustificate le scene di panico che stanno vivendo Lombardia e Veneto anche in base ai dati dell’OMS secondo cui “nella maggior parte dei casi (4 su 5) le persone manifestano sintomi lievi o assenti”. Ma l’arrivo del coronavirus, come riporta il ‘New York Times’, “ha frantumato il senso di sicurezza” degli europei pur avendo fatto “solamente 2.400 vittime su un totale d’oltre 80.000 contagi”. Il quotidiano newyorkese sottolinea come “la percezione di una minaccia crescente è stata amplificata sui canali televisivi, sui titoli dei giornali e sui feed dei social media”. La situazione sarebbe dunque ingigantita dai media che con articoli e titoli ad effetto stanno portando avanti un racconto alterato del contagio esaltandone quasi la pericolosità.
E così, più che sul panico scatenato dal coronavirus e dalla pericolosità del contagio, i media statunitensi sembrano interessarsi a tutto ciò che sta intorno all’epidemia, dalle questioni politiche a quelle economiche. È di nuovo il ‘NY Times’ a porre l’accento sulle ripercussioni economiche che il blocco del nord Italia potrebbe avere sul sistema italiano ed europeo. A preoccupare è soprattutto il ruolo di Milano, il capoluogo lombardo “da sol0 rappresenta il 10 percento dell’economia italiana, ha detto, e la regione Lombardia più del doppio” e dunque inevitabilmente secondo il quotidiano “se Milano si ferma, si ferma l’Italia.” La preoccupazione che traspare per il ruolo dell’Italia “nell’ecosistema produttivo mondiale” emerge anche dall’attenzione con cui i media statunitensi seguono le vicende politiche nostrane in relazione al virus. Le parole del premier Conte e degli altri attori politici coinvolti vengono più volte riprese da diverse testate che in questi giorni rilanciano anche le polemiche di Salvini contro governo ed Unione Europea. È il ‘TIME’, in particolare, a parlare ampiamente dell’ex ministro dell’Interno che “uscito dal governo ad agosto, ora si trova in perenne campagna elettorale” e l’epidemia fornisce al leader della Lega “materiale perfetto”. Come evidenzia il settimanale infatti “Sebbene i paesi che sono le principali fonti di migranti che viaggiano attraverso il Mediterraneo non soffrano di focolai di coronavirus, Salvini sta creando un legame implicito tra il movimento delle persone e la diffusione del virus”.
In Italia, insomma, vi sarebbe una reazione esagerata e poco razionale alimentata dai media che, per soddisfare il bisogno del pubblico di seguire la cronaca del contagio, “alimentano la sensazione che qualcosa di enorme stia accadendo”. È lo stesso ‘Dipartimento di Stato’ americano a classificare l’Italia come una nazione sicura in cui è solamente necessario “esercitare un alto grado di cautela nelle regioni della Lombardia e del Veneto”. Consiglio seguito alla lettera dal giornalista della ‘ABC News’ Dan Colasimone che afferma: “Anche se non farei mai nulla per mettere a rischio la mia famiglia, sono tranquillo nel portare le mie due figlie in Italia per una vacanza il mese prossimo”.
Europa – Un po’ meno tranquilli sembrano essere gli altri paesi europei. Dall’Austria alla Gran Bretagna, passando per Francia Germania e Spagna i nostri vicini guardano all’Italia con preoccupazione e sembrano prepararsi al peggio. In primis la BBC che questa mattina, sul proprio sito, riportava in prima pagina una vasta copertura della situazione parlando di come “l’epidemia si diffonde in Europa partendo dall’Italia” e spiegando con un lungo articolo “come il Regno Unito si prepara all’epidemia” descrivendo con una certa concitazione le procedure da seguire in caso di un nuovo focolaio e ponendosi domande certamente poco rassicuranti: “Il sistema sanitario è pronto?” “Cosa succede se fallisce il contenimento?” “E se ci fossero focolai di massa?”. Più pacato appare il Guardian che, pur riportando nella homepage del proprio sito una mappa virtuale della diffusione del virus, elogia il nostro paese per aver contenuto l’epidemia grazie a “regole draconiane”.
Eppure, nell’intero continente, tra i principali media sembra prevalere l’approccio allarmista della BBC rispetto circa la diffusione dell’epidemia. Diverse testate si interrogano sulle possibili misure da intraprendere in caso di contagio e sulla solidità del sistema sanitario nazionale. “Cosa fare in caso di epidemia in Francia?” titola ‘Le Monde’ a cui fa eco il tedesco ‘Der Spiegel’ che parla di “un focolaio imminente” portato dall’epicentro italiano, più cauto appare lo spagnolo ‘El Pais’ su cui si legge che “il sistema sanitario e la società dovranno imparare a convivere con il virus”. Ma se sulla diffusione l’allarme è al massimo, tutti sono concordi nel riportare la calma sulla gravità della malattia che “ha un tasso di mortalità del 2% circa ed ancora più bassa se si esclude la Cina”. Grave si, dunque, ma nulla per cui andare nel panico. Con toni pacati ed una copertura “normale”, a differenza di quella monopolizzante a cui assistiamo nel nostro paese, anche l’Europa sembra essere pronta al contagio.
Uno scienziato cinese di nome Li Chen fuggì negli Stati Uniti, portando una copia su dischetto dell’arma biologica cinese più importante e pericolosa del decennio: la chiamano ‘Wuhan-400’
La Lombardia e il Veneto sono piegati dal coronavirus. Contagi in Piemonte, Emilia-Romagna e Lazio mentre il Friuli-Venezia Giulia dichiara lo stato di emergenza. Ma la vera emergenza, da alcune settimane corre sui social network e nel passaparola. Centinaia di fake news stanno circolando da giorni alimentando un clima di paura e creando inutili allarmismi tra la popolazione favorendo così la diffusione del contagio con consigli tanto inutili quanto controproducenti. Dalle finte istruzioni date da anonimi dirigenti sanitari ai finti casi di contagio che aumentano la psicosi. Dalle diete miracolose che renderebbero immuni ad una profezia nascosta in un romanzo del 1981. Notizie incontrollate che stanno facendo il giro del web costringendo in diversi casi le autorità ad intervenire per smentirle prima che la situazione degeneri.
Aggressioni – La situazione, però, in diversi casi è degenerata. Il caso più grave a livello europeo è sicuramente quello andato in scena in Ucraina nel corso di questa settimana. Sei pullman con a bordo oltre 70 cittadini ucraini evacuate da Wuhan e dirette al centro di quarantena sono stati assaltati da un centinaio di manifestanti che hanno tentato di fermarli con barricate e lancio di sassi. Solo l’intervento della polizia ha evitato il peggio e permesso il passaggio dei mezzi. A scatenare la protesta, come prevedibile, una bufala. Sui social avrebbe infatti iniziato a circolare una finta mail, attribuita ala ministero della Salute, in cui si parlava della positività ai test di tutti i rimpatriati diretti all’ospedale di Novi Sanzhary per la quarantena. Tanto è bastato a metter in allarme i cittadini della regione e a creare un clima ostile nei confronti di tutti i rimpatriati. Una fake news circolata così in fretta da non lasciare il tempo per una smentita ufficiale arrivata solo dopo l’assalto ai pullman con la ministra della salute che ha condannato il gesto e deciso di mettersi in quarantena con i propri connazionali in segno di solidarietà.
E mentre in Ucraina si vivono scenari da film apocalittico, l’Italia non è certo immune ad episodi di violenza alimentati da bufale e razzismo. Sono infatti diversi i cinesi aggrediti nel nostro paese, accusati di essere “untori” e di diffondere il contagio in modo intenzionale. L’ultimo caso risale a ieri, a Torino una donna di 40 anni residente nel capoluogo piemontese dal 1977 è stata fermata per strada da una coppia di italiani. “Sei una cinese di merda. Hai il virus vattene” gli avrebbe gridato l’uomo mentre la donna tentava di colpirla. Un’aggressione che si aggiunge a quelle dei giorni scorsi e che ha spinto l’Ambasciata cinese a chiedere un intervento per fermare questa tendenza sottolineando come “nella comunità cinese si sta diffondendo il panico. Non per l’epidemia di coronavirus, ma per la sicurezza”. Aggressioni, verbali e fisiche, non tollerabili e assolutamente non giustificabili in nessun modo, frutto di una serie di informazioni distorte o non comprese che sul web accostano ripetutamente i cinesi al coronavirus. Un abbinamento entrato ormai nella testa di tutti foraggiato dalle continue notizie, dalle foto e dai video che inondano i social network. Poco importa se ad essere contagiati, in tutto il nord Italia, siano quasi esclusivamente cittadini italiani. Il racconto delle ultime settimane ha mostrato al popolo del web l’accostamento tra cinesi e virus e tanto basta con articoli allarmisti sulle comunità cinesi in Italia e foto di cinesi con la mascherina o addirittura malati.
Social – Sui social network, come sempre accade in casi del genere si sta verificando quella che è già stata da più parti definita come una infodemia: la circolazione di una quantità eccessiva di informazioni, talvolta non vagliate con accuratezza, che rendono difficile orientarsi su un determinato argomento per la difficoltà di individuare fonti affidabili. Articoli, foto, video e chi più ne ha più ne metta, spesso citando fonti inesistenti diffondono infatti false informazioni sulla situazione relativa al virus. Un atteggiamento quantomai pericoloso perché, non limitandosi a fornire un quadro della situazione a dir poco catastrofico, consigliano una serie di comportamenti che non solo risultano inefficaci per contrastare il coronavirus ma si possono rivelare controproducenti. C’è chi, ad esempio, sostiene che per prevenire il contagio siano sufficienti gargarismi regolari con il collutorio e chi pensa che lavare il naso con una soluzione salina possa essere un modo efficacie per disinfettare le vie aeree e immunizzarsi dal covid-19. In alcuni casi si è addirittura arrivati ad ipotizzare che cospargendo con olio di semi di girasole o con soluzioni alcoliche i sospetti contagiati si potesse uccidere il virus prima che prendesse piene. Si tratta ovviamente di misure totalmente inefficaci che potrebbero mettere a rischio la salute e su cui è dovuta intervenire l’Organizzazione Mondiale della Sanità che, da alcune settimane, sta cercando di limitare la diffusione di notizie false che possano creare pericoli ulteriori per la salute. Sul sito dell’organizzazione è stato pubblicato un decalogo con le domande più frequenti e le bufale più diffuse nel tentativo di fare chiarezza sugli aspetti che potrebbero risultare più problematici.
Chi si sta spendendo per fermare la diffusione di notizie non confermate sono proprio i Social Network. Tutte le principali piattaforme stanno infatti correndo ai ripari nel tentativo di arginare la diffusione di bufale e articoli che possano diffondere il panico o inutili allarmismi. Twitter ha cambiato il proprio prompt di ricerca per fare in modo che cercando #coronavirus o hashtag collegati vengano mostrati per primi i risultati più attendibili e utili per gli utenti mentre Instagram rimanda al sito dell’OMS tutti gli utenti che cerchino sull’applicazione hashtag correlati alla malattia. Facebook, dal canto suo, sta lavorando con fact-checker terzi per rivedere i contenuti e smascherare false informazioni relative al virus. È in corso, insomma, una vera e propria task force che vede coinvolti i principali attori del web e il mondo scientifico nel tentativo di eliminare i contenuti falsi e cospirazionisti e far emergere tra i risultati di ricerca le fonti affidabili e scientifiche.
WhatsApp – In ritardo rispetto alle altre piattaforme risulta essere, forse inevitabilmente, WhatsApp. L’app di messaggistica più utilizzata nel nostro paese sta infatti diventando veicolo di informazioni errate o parziali. È il caso, ad esempio, di un audio in cui un fantomatico italiano residente in Cina racconta di come il virus fosse una versione potenziata della Sars realizzata in un laboratorio di Wuhan a scopo militare e del rimpatrio di 200 italiani contagiati con un volo fantasma diretto a Roma. Notizie false, come falsi sono gli audio di presunti dirigenti sanitari lombardi che in questi giorni diffondono informazioni allarmiste sul contagio con numeri assolutamente distanti dalla realtà e informazioni non verificate. Così come falsa è la notizia di una paziente contagiata al Policlinico di Tor Vergata come ripetuto in due audio da una ragazza che si autodefinisce la sorella di un’infermiera dell’ospedale. Ma i casi sono decine, da Peschiera a Messina, passando per Bari, la Toscana e il Lazio la psicosi è totale. Messaggi e audio in cui si diffondono quasi sempre notizie di nuovi contagi in zone sempre diverse che alimentano una psicosi sempre più pericolosa.
Se dunque i principali social network sono corsi ai ripari e stanno tentando di arginare un fenomeno tanto diffuso quanto pericoloso lo stesso non si può dire per WhatsApp. Ed è proprio l’app, di proprietà del gruppo Facebook, quella dove rimbalzano maggiormente bufale e allarmi. L’impossibilità, per motivi di privacy e di portata, di scandagliare ogni messaggio inviato o ricevuto dagli utenti riduce quasi a zero le possibilità di contrastare la diffusione di simili messaggi che si diffondono come catene di sant’Antonio. È un’epidemia dentro l’epidemia, ugualmente pericolosa alla diffusione del virus ma meno controllabile. Messaggi che rimbalzano di chat in chat e che molti credono affidabili perché inoltrati da persone fidate. In realtà, ascoltando gli audio e leggendo i messaggi è facile capire quando si tratta di bufale. Si tratta in quasi tutti i casi di messaggi che citano fonti non verificabili (“mi ha detto mio fratello”, “ho il cugino che lavora all’ospedale”) e che riescono a mixare in modo quasi perfetto l’allarmismo e la serietà citando dati di dubbia provenienza e casi inventati di sana pianta.
Mentre il virus si diffonde a macchia d’olio al nord Italia, una nuova epidemia sta contagiando ancora più persone in tutta Italia. Il contagio da fake news rischia, ogni giorno di più, di far più danni del contagio da coronavirus. Se è encomiabile lo sforzo fatto dalle varie piattaforme per ridurre al minimo la diffusione di notizie false risulta però evidente come sia impossibile fermare completamente l’epidemia da bufale. Un’epidemia che porta paura e diffidenza nella popolazione. Che genera tensioni e può sfociare, come già avvenuto in diversi casi, in vere e proprie aggressioni fisiche o verbali. Un’epidemia che corre silenziosa sui social e si nasconde tra le pagine del web sfruttando l’incapacità di molti nel distinguere notizie vere da notizie false. Forse è ignoranza, forse ingenuità. Se per chi le riceve e le diffonde si può cercare una flebile giustificazione, nulla si può dire su chi le mette in circolazione consapevole che molti sono disposti a credere che il virus sia stato creato il laboratorio per distruggere l’umanità. D’altronde lo aveva già profetizzato Koontz nel 1981, e poco importa se la versione originale non era così:
“Wuhan-400 è un arma perfetta e colpisce solo gli uomini.”
Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero
con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione.
La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure
-Costituzione Italiana, articolo 21-
La libertà di stampa è sotto attacco. I giornalisti, nel mondo, sono sempre più bersaglio di campagne d’odio fomentate da politici, imprenditori ed altre personalità. Campagne d’odio che, sempre più spesso, sfociano in vere e proprie aggressioni, verbali ma anche fisiche, ai danni di chi racconta il presente. L’ascesa di leader autoritari, come Jair Bolsonaro in Brasile o Donald Trump in America, e situazioni di tensione o guerra rendono la libertà di stampa un diritto sempre meno tutelato mettendo in pericolo la vita dei giornalisti. Una situazione spesso creata e fagocitata dagli stessi politici.
World Press Freedom Index – l’indice calcolato dalla organizzazione ‘Reporters without borders’ analizza ogni anno il livello di libertà di stampa in 180 paesi al mondo. La ricerca fornisce un’istantanea della situazione della libertà dei media basandosi su una valutazione del pluralismo, dell’indipendenza dei media, della qualità del quadro legislativo e della sicurezza dei giornalisti in ciascun paese. Per la realizzazione dell’indice, l’organizzazione adotta un duplice strumento di raccolta dei dati: da una parte un questionario, tradotto in 20 lingue e distribuito ai giornalisti dei 180 paesi oggetto della ricerca; dall’altra l’utilizzo di team di specialisti che compilino un report sugli abusi ai danni dei reporter nelle diverse aree geografiche. Il quadro che emerge dall’analisi per il 2019 è ben poco rassicurante però. Dal 2002, primo anno di pubblicazione dell’indice, quella di quest’anno è la situazione più grave mai registrata a livello mondiale. L’indicatore globale è peggiorato del 13 per cento dal 2013 e in questo lasso di tempo il numero di paesi in cui la situazione per i giornalisti è ritenuta buona è diminuito del 40 per cento. Al primo posto dell’indice, come accade oramai da tre anni consecutivi vi è la Norvegia dove la costituzione, all’articolo 100, tutela largamente i giornalisti e stabilisce che “la stampa è libera. Nessuno può essere punito per qualsiasi scritto pubblicato o stampato, qualunque ne sia il contenuto”. Una situazione simile si ha anche negli altri paesi scandinavi con Finlandia e Svezia che occupano rispettivamente il secondo e terzo posto e fanno registrare un clima disteso e sereno dove giornalisti e media possono operare senza incorrere in rischi eccessivi. Il trend negativo rispetto al passato è confermato dal fatto che solo il 24% dei 180 paesi è classificato come “buono” o “abbastanza buono”, rispetto al 26% dell’anno scorso mentre il 40% dei paesi risulta essere in una situazione “difficile” o “molto grave”.
La politica – Un ruolo centrale e determinante per la condizione dei giornalisti è svolto dai leader politici dei diversi paesi che con i loro attacchi possono indirizzare l’opinione pubblica e dunque creare un clima ostile ai media. È il caso ad esempio degli Stati Uniti, passati dalla 45° alla 48° posizione. Se Thomas Jefferson, terzo presidente degli Stati Uniti, sosteneva che sarebbe stato meglio “vivere in un paese che ha dei giornali e nessun governo piuttosto che in un paese che ha un governo e nessun giornale”, lo stesso non si può dire 230 anni dopo di Donald Trump. Il Presidente americano, a un anno dalla fine del suo mandato, non ha mai smesso di attaccare i giornalisti definendoli “nemici del popolo americano” e, nella sua prima uscita da presidente, “le persone più disoneste della terra”. Nel mirino di Trump in questi anni sono finiti tutti i principali quotidiani e broadcast del paese, dal New York Times alla Nbc, accusandoli di “fabbricare fake news” per polarizzare il dibattito politico. Se i giornalisti rifiutano di farsi imbavagliare e continuano a raccontare le loro verità l’opinione pubblica si divide tra chi sostiene il loro operato e gli elettori di Trump che seguono il leader repubblicano nei suoi attacchi. Sono proprio questi ultimi a rappresentare una criticità nel panorama americano attraverso attacchi ai giornalisti e il rifiuto di credere a ciò che dicono e scrivono cavalcando le dichiarazioni secondo cui sarebbero produttori di false informazioni. Ma la situazione è peggiore in altri paesi. Nelle filippine il presidente Duterte subito dopo la sua elezione, avvenuta nel 2016, aveva dichiarato che “non è perché siete giornalisti che siete esentati dall’essere assassinati, se siete dei figli di puttana”. Una legittimazione della violenza nei confronti dei media estremamente preoccupante, tanto più in un paese che dal 1992 ad oggi ha visto quasi 80 reporter uccisi. Una situazione sempre più difficile si registra anche in America Latina dove le elezioni in Messico (144°), Brasile (105°), Venezuela (148°), Paraguay (99°), Colombia (129°), El Salvador (81°) e Cuba (169°) hanno portato ad un aumento degli attacchi ai media e un conseguente abbassamento complessivo dell’indice per la regione. Una situazione di insicurezza che porta spesso i giornalisti dell’area a forme di autocensura con pesanti ricadute per la qualità dell’informazione. Le critiche e le pressioni politiche sui giornalisti contribuiscono dunque a creare un clima di tensione e di insicurezza per i reporter alimentando malumori che spesso si trasformano in violenti attacchi.
Pericoli – Minacce, insulti e attacchi fanno ormai parte dei rischi del mestiere di cui deve tener conto un giornalista. Un clima d’odio testimoniato dai numeri: 30 i giornalisti uccisi dall’inizio del 2019 ad oggi. Un vero e proprio bollettino di guerra che vede in testa alla macabra classifica il Messico che con 10 giornalisti uccisi quest’anno si conferma il paese in cui chi fa questo mestiere rischia maggiormente la vita. Da Rafael Murua Manríquez, ucciso il 10 gennaio scorso, fino a Nevith Condés Jaramillo, vittima di un agguato il 24 agosto, dieci vittime che rendono il Messico un paese in cui la libertà di stampa rischia di scomparire. Problema principale dello stato centroamericano è la presenza massiccia e pericolosa dei narcos e di un sistema corruttivo esteso che porta a pesanti commistioni tra mondo politico-imprenditoriale e mondo criminale. Un quadro complesso e pericoloso che provoca più morti tra i reporter di zone di guerra come Siria (1 morto nel 2019) e Afghanistan (3 morti) e rende vulnerabile l’intera categoria. Violenze e omicidi contribuiscono a generare un clima di paura tra i giornalisti che hanno reagito con il silenzio e l’autocensura creando così zone di silenzio che garantiscono un cono d’ombra mediatico sul sistema criminale-corruttivo.
Arresti – A zittire i giornalisti, spesso, ci pensa lo stesso stato. Censure e arresti sono diventate strumenti sempre più utilizzati dai regimi per fermare giornalisti reputati scomodi. Secondo i dati di Reporters Without Borders nel 2019 sono 237 i giornalisti imprigionati di cui 70 nella sola Cina di Xi Jinping. Una situazione difficile anche in Egitto dove 27 giornalisti si trovano agli arresti, 5 fermati solo a settembre, con l’accusa di aver documentato manifestazioni anti-regime o aver condotto inchieste sul presidente Abdel Fattah al-Sisi. Una stretta sull’informazione confermata dal blocco di diversi social e siti di informazione stranieri durante le proteste iniziate il 16 settembre per chiedere le dimissioni di al-Sisi. Una situazione non troppo diversa da quella turca dove sono 28 i reporter in carcere, tutti arrestati negli ultimi due anni dopo la stretta di Erdogan sull’informazione a seguito del fallito golpe del 15 luglio 2016 che portò all’arresto di massa di diversi oppositori politici tra cui 20 giornalisti.
Italia – Nel nostro paese, invece, la situazione sembra segnare una tendenza parzialmente positiva. Nell’indice stilato da Reporters Without Borders, l’Italia ha guadagnato 3 posizioni e risulta essere al 43° posto per libertà di stampa. Un risultato importante ma che disegna un quadro costellato da diverse difficoltà. Primo profilo critico sottolineato dall’organizzazione è la presenza di minacce da parte di diverse organizzazioni criminali. Mafia e gruppi estremisti rappresentano infatti un pericolo reale e tangibile per l’intera categoria tanto che si evidenzia come “il livello di violenza contro i giornalisti è allarmante e continua a crescere, soprattutto in Campania, Calabria, Puglia e Sicilia, nonché a Roma e nella regione circostante”. I giornalisti, però, non si lasciano quasi mai spaventare da intimidazioni e minacce e portano avanti con coraggio e determinazione le loro inchieste garantendo così una qualità dell’informazione elevata e un effettivo dibattito democratico. Determinazione e coraggio dati, senza dubbio, anche dalla presenza di agenti di scorta che proteggono e tutelano circa una ventina di giornalisti permettendogli di svolgere più serenamente il loro lavoro. Ma proprio le scorte rischiano di diventare un pericolo per la qualità dell’informazione, non certo per il loro lavoro, ma per la presenza di politici che “minacciano il ritiro della protezione a seguito di notizie o opinioni espresse”. Un profilo che sarebbe già di per sé problematico ma lo diventa ancor di più nel caso in cui a lanciare certe minacce sia un Ministro dell’Interno nell’esercizio delle sue funzioni, come recentemente accaduto. In un mondo in cui la libertà di stampa è sempre più minacciata c’è anche chi va controcorrente. L’Etiopia, dopo che per anni si è ritrovata in fondo a questa classifica, ha avuto un miglioramento di ben 40 posizioni e si trova al 110° posto. Dall’elezione di Abiy Ahmed Ali si è assistito ad un’inversione di tendenza significativa: è stato ripristinato l’accesso ai siti di informazione stranieri, tutti i reporter detenuti sono stati rilasciati ed è stata istituita una commissione indipendente per revisionare una legge del 2009 sul terrorismo spesso utilizzata per colpire i media. Una nuova era per l’Etiopia promossa e difesa del suo primo ministro che, non a caso, quest’anno ha ricevuto il Nobel per la pace. Il mondo, questa volta, dovrebbe guardare all’Africa. Non per commuoversi o aiutarla ma per prendere nota ed imparare. Perché l’esempio dell’Etiopia possa contagiare tutti e possa rendere, finalmente, la libertà di stampa un diritto granitico e garantito a tutti. Perché una stampa indipendente è il presupposto inalienabile per una società più libera e democratica.