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I tentacoli dei clan sul Foggia Calcio tra estorsioni e pressioni su società e allenatori

Dai recenti processi alla criminalità organizzata foggiana è emerso come i clan avessero allungato i propri tentacoli anche sul calcio tra estorsioni e ricatti alla proprietà e all’allenatore del Foggia Calcio.

Da sempre il mondo del calcio è stato terreno fertile per gli affari delle mafie. Le organizzazioni criminali, italiane e non solo, da decenni hanno allungato i propri tentacoli sullo sport più amato degli italiani alla ricerca di profitto, potere e consenso sociale. Per questo non sorprende che anche la “quarta mafia” foggiana, dimostrando di aver imparato dalle altre organizzazioni criminali italiane, abbia tentato di condizionare la gestione del Foggia Calcio.

I recenti processi “Decima Azione” e “Decimabis” hanno infatti portato alla luce gli interessi della criminalità organizzata foggiana per la società militante in Serie C. I giudici hanno sottolineato come “i membri della Società Foggiana hanno imposto alla società sportiva Foggia Calcio la stipulazione di contratti di ingaggio nei confronti di soggetti vicini all’associazione di cui all’art. 416 bis c.p., pur non disponendo di qualità sportive significative. Al riguardo, si osserva che i dirigenti (Di Bari Giuseppe, direttore sportivo) ed allenatori (De Zerbi Roberto) del Foggia Calcio lungi dal denunciare l’accaduto — come dovrebbe fare ogni vittima di estorsione, affidandosi alla forza dello Stato per sradicare fenomeni di mantenimento parassitario come quello attuato e realizzato dagli odierni imputati — hanno preferito in maniera pavida accettare supinamente le richieste formulate, abiurando anche a quei valori di lealtà e correttezza sportiva che dovrebbe ispirare la loro condotta”. 

Esponenti della criminalità foggiana, dunque, avrebbero fatto pressioni sulla società affinché ingaggiasse giovani affiliati ai clan senza alcun merito sportivo. Pressioni che, in qualche caso, avrebbero effettivamente portato rampolli delle famiglie criminali foggiane ad allenarsi con la squadra rossonera. Come sottolineato dai giudici nella sentenza, infatti, le sempre più insistenti richieste di Francesco “u’ sgarr” Pesante avrebbero fatto crollare l’allora presidente Sannella costringendolo ad assicurare un contratto a Luca Pompilio, cognato di Ciro Spinelli detenuto per omicidio, nonostante fosse completamente privo dei requisiti atletici e tecnici per giocare in una squadra professionistica. Per il giudice “è di meridiana evidenza, dunque, che in disparte ogni facile ironia sulla palese inadeguatezza calcistica del Pompilio, il contratto venne stipulato unicamente per le pressioni esercitate dal Pesante, che aveva anche manifestato la sua determinazione al Sannella, al Di Bari Giuseppe ed allo stesso allenatore De Zerbi Roberto, rappresentando loro di avere libero accesso agli spogliatoi, dove li avrebbe raggiunti con intenzioni non certo amichevoli”. Ma quello di Pompilio, smentito con forza dalla società e dall’allenatore, non sarebbe l’unico caso essendo emerso dalle indagini anche il tentativo di far ingaggiare anche il figlio del boss Rodolfo Bruno, ucciso il 15 novembre 2018 in una faida tra clan.

Arrivare ai vertici del Foggia Calcio, d’altronde, per la criminalità organizzata non è stato difficile. Dalle indagini è emerso come nella lista delle imprese costrette a pagare il pizzo alla mafia foggiana ci fosse anche la “Tamma – Industrie alimentari srl” di proprietà proprio di Franco e Fedele Sannella, i due imprenditori che di lì a poco avrebbero ceduto il Foggia Calcio perché sommersi dai debiti. I due fratelli sarebbero stati costretti dai clan ad un pagamento di tremila euro ogni mese da destinare alla “cassa comune”, una sorta di salvadanaio mafioso utilizzato per mantenere le famiglie dei clan e pagare le spese legali. La disponibilità a pagare senza denunciare da parte dei due imprenditori avrebbe convinto gli uomini dei clan a fare un salto di qualità puntano dritti sul mondo del calcio grazie alla disponibilità dei Sannella.

Nonostante le continue smentite dei fratelli Sannella e degli altri interessati, da De Zerbi a Pompilio, sembra dunque certo il tentativo della “quarta mafia” di seguire le orme delle altre organizzazioni criminali italiane sfruttando le opportunità offerte dal mondo del calcio. L’ingaggio di giovani rampolli dei clan nella squadra simbolo della città avrebbe infatti permesso un rafforzamento significativo di quel consenso sociale di cui le mafie si nutrono aprendo per la mafia foggiana nuovi ulteriori canali da sfruttare all’interno della società. 


Vuoi sapere di più sugli interessi della criminalità organizzata nel mondo del calcio?

Corri a rileggere il nostro speciale “Pallone Criminale”, quattro articoli che ti porteranno alla scoperta della presenza mafiosa nello sport più seguito dagli italiani. Un viaggio nel tempo e nello spazio che dalle serie minori arriva fino alla Serie A dei giorni nostri.
Tutti gli articoli li trovi qui: https://pocketpress.news/pallone-criminale/

Come si ottiene la cittadinanza se non sei Luis Suarez

“Non siamo troppo neri, siamo solamente troppo poveri”


Da ora chiamatelo Luigi. Perché a sei anni dal clamoroso morso con cui stese Chiellini ai mondiali brasiliani, in quell’ormai celebre Italia – Uruguay che ci condannò all’eliminazione in uno dei più brutti mondiali della nostra storia, Luis Suarez ha passato il test linguistico per ottenere la cittadinanza italiana. L’ottenimento del passaporto, ormai a un passo per il calciatore del Barcellona, con tempistiche così brevi ha però scatenato la rabbia di chi pur vivendo in Italia da anni non si vede riconoscere la cittadinanza italiana.

La situazione – Tutto è iniziato nelle ultime settimane di agosto. Dopo i capricci di Messi, che per mesi ha chiesto il trasferimento salvo poi decidere di rimanere in Catalogna, a Barcellona ha preso il via la telenovela Suarez. Il nuovo allenatore dei blaugrana, l’olandese Ronald Koeman, ha infatti messo fuori squadra l’attaccante uruguaiano dando il via alle inevitabili indiscrezioni sul suo futuro. Nonostante i 33 anni e uno stipendio non indifferente, attualmente 15 milioni l’anno, il centravanti ha ovviamente attirato l’attenzione di diversi club che in queste settimane si stanno muovendo per portare “El pistolero” alla propria corte. Tra i club più interessati ci sarebbero però anche la Juventus e l’Inter, con i bianconeri che sarebbero in vantaggio rispetto alla concorrenza.

Il regolamento del campionato italiano, però, in fatto di giocatori stranieri parla chiaro: si possono tesserare al massimo due extracomunitari ogni stagione. Da questa norma sono nati i problemi per il club di Torino che in questa finestra di calciomercato ha già acquistato il brasiliano Arthur e lo statunitense McKennie esaurendo così gli slot disponibili. Sogno sfumato dunque? Assolutamente no. Il giocatore, infatti, facendo leva sulle lontane origini italiane della moglie Sofia Balbi ha deciso di richiedere la cittadinanza italiana per diventare ufficialmente comunitario e potersi aggregare ai bianconeri entro la fine del mercato prevista per il 5 ottobre. I tempi stringono e così parte la procedura lampo per italianizzare l’uruguagio. Nel giro di qualche settimana vengono risolte le pratiche burocratiche e giovedì Suarez ha sostenuto il test di lingua presso l’Università di Perugia. Risultato? Test superato in mezz’ora e certificato di lingua italiana (livello B1) ottenuto con successo. In meno di un mese, dunque, Luis Suarez è diventato cittadino Italiano ed ora non gli resta che attendere la conferma da parte del Ministero per poter finalmente trattare liberamente e concretamente con la Juventus.

Cittadinanza – Dal punto di vista strettamente legale, l’ottenimento della cittadinanza italiana per Luis Suarez è inattaccabile. La situazione del giocatore infatti rientra nelle casistiche per cui può essere concesso il passaporto italiano ad un cittadino straniero. Sulla base del decreto sicurezza, per la concessione della cittadinanza per matrimonio è necessario risiedere legalmente in Italia da almeno 12 mesi, in presenza di figli nati o adottati dai coniugi; o risiedere da almeno 24 mesi con il cittadino italiano. In caso di residenza all’estero, e questo è il caso di Suarez che è sposato con Sofia Balbi da 11 anni, si può inviare la pratica solo dopo 18 mesi in presenza di figli o dopo 36 mesi dalla data del matrimonio. Se si rispettano questi requisiti e si dimostra, attraverso un apposto esame sostenibile in 3 università per stranieri (Roma Tre, Perugia e Siena), di avere una buona conoscenza della lingua è possibile dunque ottenere la cittadinanza italiana.

Diversamente, come specificato sul sito del Ministero dell’Interno, la cittadinanza italiana può essere ottenuta “iure sanguinis” ovvero se si nasce o si viene adottati da cittadini italiani. Ma se i genitori sono stranieri o se si arriva in Italia per altri motivi la questione cambia visibilmente. Per i cittadini stranieri residenti in modo regolare nel nostro paese è infatti richiesta oltre ad una permanenza continuativa di almeno 10 anni anche il rispetto di determinati requisiti: “In particolare” si legge sul sito del Ministero “il richiedente deve dimostrare di avere redditi sufficienti al sostentamento, di non avere precedenti penali, di non essere in possesso di motivi ostativi per la sicurezza della Repubblica.” Paradossalmente invece va peggio a chi nasce in Italia da cittadini stranieri. A loro infatti la cittadinanza italiana può essere riconosciuta solamente al compimento del diciottesimo anno di età. 18 anni per ottenere la cittadinanza del luogo in cui sono nati.

E sono proprio le tempistiche con cui Suarez ha ottenuto la cittadinanza ad aver scatenato le polemiche. Perché se da un lato si può chiudere un occhio sul superamento di un test di lingua che in mezzora ha attestato un livello di conoscenza dell’idioma straordinario e una capacità di comunicazione sostanzialmente perfetta, dall’altro è inevitabile chiedersi come sia possibile che nel giro di un mese si sia svolto completamente l’iter per l’ottenimento della cittadinanza. Pur non essendo prevista per legge una durata minima del processo di ottenimento del passaporto italiano questa rapidità non si è mai vista in nessun altro caso. In un paese dominato dalla burocrazia, infatti, l’ottenimento della cittadinanza si può prolungare per tempi sostanzialmente infiniti. Se prima del decreto sicurezza si prevedeva che la conclusione del procedimento di rilascio dovesse avvenire entro 2 anni dal momento della presentazione della domanda, con la nuova normativa introdotta dal governo gialloverde questo termine massimo è stato spostato a 48 mesi: quattro lunghissimi anni di attesa prima di diventare cittadino italiano.

Quattro anni se si è un comune mortale. Se si è un giocatore che guadagna 15milioni l’anno per segnare 21 gol a stagione, le regole non valgono. O meglio, se una delle principali società italiane ha bisogno che quel calciatore ottenga la cittadinanza in tempi brevi le regole non valgono. Non è Luis Suarez il problema. Non è l’avere i soldi che gli ha permesso di ottenere la cittadinanza. Il problema è un sistema in cui non conta il colore della pelle, non conta il conto in banca né conta se arrivi in Italia a bordo del tuo aereo privato: contano potere e utilità. Il problema è un sistema in cui se la principale squadra di calcio italiana ha bisogno di un giocatore si è pronti a tutto per farlo arrivare. Perché se al posto di Luis Suarez ci fosse stato un qualunque extracomunitario e al posto della Juventus ci fosse stata una squadra di serie C, in un mese la pratica per la cittadinanza non sarebbe nemmeno stata aperta.

Un calcio al razzismo: tra immobilismo e indignazione a metà

“Mi scusi Presidente
ma ho in mente il fanatismo
delle camicie nere
al tempo del fascismo.
Da cui un bel giorno nacque
questa democrazia
che a farle i complimenti
ci vuole fantasia.”
– Giorgio Gaber –
Verona, 3 novembre 2019. Nel secondo tempo dalla curva dell’Hellas Verona partono ululati razzisti verso l’attaccante bresciano Mario Balotelli. Il giocatore non ci sta. Raccoglie la palla e la scaglia in tribuna costringendo l’arbitro ad interrompere la partita per diversi minuti. La reazione di Balotelli, da molti considerata spropositata, è il grido disperato di un campione che non può più tollerare certi episodi. Un gesto che ha riacceso i riflettori su uno dei problemi più taciuti del calcio italiano e non solo: il razzismo negli stadi.
Italia – In Italia, nel calcio e non solo, è emergenza razzismo. Lo ha evidenziato a inizio campionato anche il presidente della FIFA Gianni Infantino sottolineando come “in Italia la situazione del razzismo non è migliorata e questo è grave”. Si tratta di un problema reale e sempre più preoccupante perché ormai diffuso in ogni categoria, anche quelle in cui il calcio dovrebbe essere divertimento e veicolo di valori positivi. Come tra i “pulcini”, classe 2009, che a 10 anni già corrono dietro un pallone con un tifo spesso troppo estremo da parte dei genitori in tribuna. Così a Desio, provincia di Milano, durante la partita tra la Aurora Desio e la Sovicese dagli spalti una mamma ha iniziato a rivolgere insulti razzisti nei confronti di un bambino. “Negro di merda”. Proprio così. Senza se e senza ma. Senza pudore. Senza senso. E se sono le madri le prime pronte ad insultare dei bambini discriminando con parole d’odio, è evidente che esita un problema culturale che va combattuto con l’educazione e l’istruzione. Il caso di domenica scorsa non è dunque che la punta di un iceberg gigantesco, il caso diventato emblematico di un problema che torna a galla sono in relazione ad episodi estremi. Parole di condanna si susseguono da più parti ad ogni nuovo ululato che interrompe le partite. Parole a cui, troppo spesso, non seguono fatti.
Ne è esempio plastico l’Hellas verona. Non è la prima volta che la società finisce al centro delle polemiche: il 15 settembre durante Verona Milan il Bentegodi copre di fischi l’ivoriano Kessie e il campano Donnarumma. Il giorno dopo piovono comunicati di condanna, squadre, giocatori, esperti e federazione sono tutti concordi nel definire inaccettabili i fischi. Tutti tranne la società veronese che, tramite il suo account Twitter, minimizza la faccenda: “I ‘buuu’ a Kessie? I fischi a Donnarumma? Forse qualcuno è rimasto frastornato dai decibel del nostro tifo”. E ancora condanne e richieste di scuse, mai arrivate, alla società gialloblù. Ma a quell’episodio non sono seguiti provvedimenti e, nel giro di qualche settimana, è calato il silenzio sul razzismo al Bentegodi. Fino ad una settimana fa. Fino a quel gesto di Balotelli che ha spezzato la solita catena fatta di ululati, condanne, minimizzazione e poi silenzio. Un elemento preoccupante, però, è dato dalle dichiarazioni post partita con cui ancora una volta il Verona ha minimizzato i fatti: “Non facciamo un caso dove non c’è.” ha detto l’allenatore Juric “non ci sono stati cori ai suoi danni”. Ma il gesto di Balotelli ha interrotto, come si è detto, quel circolo a cui eravamo soliti assistere. Il clamore mediatico della vicenda ha portato il Verona all’inevitabile decisione di punire con il divieto di entrare allo stadio fino al 2030 Luca Castellini. Leader della formazione veneta di Forza Nuova e della curva gialloblù, Castellini aveva commentato la vicenda rincarando la dose ed affermando che “anche se ha la cittadinanza, Balotelli non sarà mai del tutto italiano”. Una decisione che, seppur inevitabile visto il tenore delle dichiarazioni e la copertura mediatica che hanno avuto, è un piccolo passo avanti nel panorama calcistico italiano. Un enorme passo avanti, però, per il contesto veronese.
Regolamento – In Italia appare dunque sempre più evidente come in assenza di casi eclatanti nulla si muova. Basti pensare che l’attuale regolamento federale che disciplina i casi di razzismo è stato perfezionato solo sull’onda degli ululati razzisti rivolti dalla curva interista ai danni del giocatore del Napoli Koulibaly nella partita del 26 dicembre scorso. In un ambiente già teso per gli scontri che nel prepartita avevano portato alla morte dell’ultras Daniele Belardinelli, la tifoseria organizzata nerazzurra aveva ripetutamente intonato il verso della scimmia nei confronti del giocatore senegalese. L’ennesimo episodio, in un campionato già costellato di fischi e ululati indirizzati a giocatori di colore, convinse la federazione ad operare una serie di modifiche al regolamento per snellire le procedure da seguire in caso di situazioni simili. Le norme del campionato italiano, in linea con i protocolli internazionali, prevedono che in caso di cori discriminatori l’arbitro possa sospendere la partita per qualche minuto e successivamente interromperla, se i cori dovessero continuare. Nessuna importanza ricopre, ai fini della sospensione, il numero di tifosi coinvolti ma solo se il coro è udibile in modo distinto dal direttore di gara o dal responsabile dell’ordine pubblico. Una volta fermata la partita è l’arbitro a gestire in maniera insindacabile la fase sospensiva decidendo se far rientrare o meno i giocatori negli spogliatoi e se e quando far riprendere la partita. Superati i 45’ di sospensione, però, il direttore di gara ha l’obbligo di dichiarare definitivamente sospesa la partita ed avvisare gli organi di Giustizia Sportiva. Ma è proprio la giustizia sportiva a rappresentare l’anello debole del meccanismo pensato dalla FIGC. Gli organi preposti possono infatti intervenire su segnalazione dell’arbitro e delle autorità in caso di cori discriminatori durante la gara o in caso di sospensione ma solo contro soggetti tesserati. Non vi è dunque la possibilità di colpire direttamente i singoli tifosi responsabili, lasciata in capo alla giustizia penale ed alle singole società. Il giudice si rifà dunque sul club o sull’intero settore con multe o chiusure totali o parziali dello stadio per le partite successive.
La giustizia ordinaria è dunque l’unico ambito in cui le discriminazioni vengono punite adeguatamente e nello specifico: caso per caso, spettatore per spettatore. Chi viene identificato incorre in una denuncia corredata dal cosiddetto DASPO, il divieto di accedere alle manifestazioni sportive. Ma nulla può contro le condotte incivili e aggressive, o per i casi di razzismo meno evidenti e più controversi, insomma tutto quello che non costituisce reato può essere trattato soltanto dai club. E in Italia, raramente i club prendono posizioni così nette e, purtroppo, impopolari tra i tifosi. Punire i responsabili vorrebbe dire allontanare i propri “tifosi” dallo stadio, magari inimicandosi quell’oscuro e turbolento mondo del tifo organizzato.
Mondo Ultras – Sono proprio i gruppi organizzati a far riecheggiare, il più delle volte, nel loro settore fischi ululati e cori discriminatori. Forti di un radicamento decennale, i gruppi ultras comandano interi settori che nel tempo sono diventate vere e proprie zone franche dentro lo stadio in cui i capi delle tifoserie organizzate dettano legge. La loro forza e sicurezza è tale da tenere letteralmente in scacco le società. Accade, ad esempio, a Torino dove i tifosi della Juventus, come accertato dall’inchiesta “Alto Piemonte”, utilizzano i cori discriminatori come arma di ricatto per avanzare pretese sui biglietti omaggio. Con uno schema molto semplice, i principali gruppi ultras pretendono dalla dirigenza un certo numero di biglietti gratuiti che alimentano il business del bagarinaggio gestito dalle cosche calabresi infiltrate nella curva bianconera. In caso di risposta negativa partono i cori razzisti con un unico obiettivo: far squalificare il campo e giocare la partita successiva a porte chiuse provocando un danno economico non indifferente alla società.
Ma le curve italiane hanno un altro grosso problema: la politica. Molte tifoserie organizzate sono legate a doppio filo a formazioni politiche di estrema destra. Dall’Hellas all’Inter passando per la Lazio, ogni domenica militanti dell’ultradestra italiana svestono i panni politici e indossano quelli da ultras. Un cambio di abiti che però non può cancellare l’indole di questi soggetti che riempiono d’odio le curve di mezza Italia arrivando a schierarsi contro i propri giocatori pur di non ammettere l’insensatezza di certi comportamenti. È accaduto di recente, con la curva dell’Inter che in un comunicato ha difeso i cori razzisti indirizzati dai tifosi del Cagliari all’attaccante nerazzurro Romelu Lukaku definendo gli ululati in occasione del rigore calciato dal belga “una forma di rispetto per il fatto che temono i gol che potresti fargli”.
Il calcio italiano è dunque fragile e sembra non essere pronto ad affrontare concretamente e seriamente il razzismo negli stadi. Eppure basterebbe poco. Basterebbe dare uno sguardo all’estero e prendere esempio dal resto del mondo. Dall’Inghilterra ad esempio, dove durante la partita di FA Cup Haringey Borough-Yeovil Tow due tifosi hanno indirizzato insulti razzisti al portiere camerunense Valery Douglas Pajetat per distrarlo in occasione di un rigore. Nessuna esitazione né da parte dell’arbitro, che dopo il rigore ha sospeso la partita, né da parte delle forze dell’ordine che hanno individuato ed arrestato i due soggetti. Pugno duro senza guanti di velluto. È questa la strategia della federazione inglese che da tempo ormai ha deciso di prendere una posizione netta contro gli episodi di questo genere arrivando addirittura a disporre 6 settimane di carcere l’autore di un tweet a sfondo razzista sul giocatore egiziano del Liverpool Mohamed Salah. Nel nostro paese, dove fino a un decennio fa potevamo vantare il calcio più bello del mondo, i silenzi sul razzismo si stanno trasformando in una sorta di legittimazione. L’immobilismo della federazione lascia troppi varchi per quegli psudo tifosi che allo stadio si sentono gli invincibili padroni di un territorio senza regole.
Non tutto però è perduto. Se la federazione resta immobile, iniziano a muoversi i club. Lo ha fatto, ad esempio, la Roma che ha daspato a vita, e segnalato alle autorità, un “tifoso” che su Instagram aveva insultato il difensore brasiliano Juan Jesus per il suo colore della pelle. Lo ha fatto il Pescara con un tweet ha risposto ad un tifoso che ne criticava le posizioni sul razzismo senza mezzi termini. “Basta con questa storia del razzismo” aveva scritto un certo Andrea dell’Amico “vi ho sempre sostenuto ma direi che è ora di finirla voi e quei comunisti del ca**o, state per perdere un tifoso fate voi”. Facciamo noi? Bene, signore e signori Andrea non è più un nostro tifoso” la risposta del club con tanto di emoticon festeggianti. Forse non sarà una svolta epocale, ma certo da speranza. In un mondo immobile e cieco, qualcosa si muove. Intanto, però, restiamo attoniti ad indignarci stancamente per qualche giorno ogni qualvolta uno pseudo tifoso decide di riempire d’odio gli stadi del Bel Paese che, come, direbbe il signor G:
ha tante pretese
Ma nel nostro mondo occidentale
È la periferia