Monthly Archives: novembre 2020

L’Italia franò: i dati del dissesto idrogeologico nel Bel Paese

Tutte le cose sono create buone da Dio, tutte degenerano tra le mani dell’uomo.”
– Jean Jacques Rousseau –


Tre morti e almeno quattro dispersi. Un inferno di acqua e fango che si è abbattuto su Bitti, a 40km da Nuoro in Sardegna. Il fiume Cedrino, ingrossato dagli affluenti, rompe gli argini ed esonda in più punti riversando a valle milioni di cobi d’acqua con tutta la ferocia di cui sa essere capace la natura. È l’ennesima tragedia causata dal maltempo in un’Italia in cui ogni volta che il bollino del meteo diventa rosso riscopre tutte le sue fragilità. Ma se troppo a lungo si è cercato di attribuire la colpa di questi drammi solamente all’estremità di certi fenomeni atmosferici di carattere eccezionale, è innegabile che ad alimentare la portata di questi fenomeni vi siano problemi più profondi.

Territorio – La conformazione del nostro paese unita al consumo del suolo e ai cambiamenti climatici che rendono sempre più frequenti fenomeni atmosferici estremi rendono l’Italia un paese fragile per quel che riguarda il dissesto idrogeologico. Basti pensare che il progetto “Inventario dei Fenomeni Franosi in Italia” (IFFI) ha rilevato dal 2018 ad oggi 620.808 frane nel nostro paese che hanno interessato tutto il territorio nazionale, isole comprese.

I dati dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (ISPRA) ci restituiscono una fotografia dell’Italia alquanto preoccupante evidenziando come tra fenomeni franosi ed alluvioni cittadini, imprese e beni di interesse culturale siano sistematicamente esposti a rischi altissimi. Secondo i dati riportati sul portale IdroGEO, infatti, l’8,4% dell’intero territorio italiano rientra nelle due classi a maggior pericolosità (elevata e molto elevata) per quanto riguarda il rischio frane. Una fetta di territorio vastissima che espone 1.281.980 abitanti ad un’alta probabilità di essere travolti da fenomeni del genere in situazioni di maltempo con rischi concreti per quasi 12mila imprese. Dati ancora peggiori se si considera il rischio legato alle alluvioni: il 10% della popolazione italiana (6.183.364 di abitanti) è esposto ad un significativo rischio idrico. L’Italia, insomma, è come se fosse in bilico. Un paese che rischia di vivere l’ennesima tragedia ogniqualvolta fenomeni atmosferici particolarmente violenti colpiscano il nostro paese.

Così non sorprende se nel solo 2017, secondo i dati dell’ultimo monitoraggio ISPRA del 2018, si sono registrate 172 frane importanti che hanno causato in totale 5 vittime, 31 feriti e danni importanti alla rete stradale e alle infrastrutture. Fenomeni con cui l’Italia ha quasi imparato a convivere, facendo quasi l’abitudine a disastri sempre più frequenti e drammatici. Negli ultimi settant’anni il nostro paese ha vissuto continue tragedie legate all’instabilità idrogeologica del nostro paese: dall’alluvione del Polesine che nel 1951 causò quasi cento vittime e oltre 180.000 sfollati a quella del 2000 a Soverato passando per i tremendi danni al patrimonio artistico dell’alluvione che colpì Firenze nel 1966. E poi Genova, le Cinque Terre, Olbia, Massa Carrara, il Tanaro e una serie infinita di episodi simili che hanno portato nel nostro paese morte e distruzione.

Uomo – Ma se per troppo tempo si è attribuita la colpa di questi drammi a precipitazioni intense dovute a fenomeni atmosferici sempre più intensi, emerge sempre di più una responsabilità diretta dell’uomo nell’aumentare il rischio idrogeologico in molte aree del nostro paese. Per troppi anni, infatti, sono state fatte scelte urbanistiche scorrette disattendendo le valutazioni tecniche e ignorando le caratteristiche del territorio. Scelte urbanistiche che non solo hanno portato il nostro paese ad essere tra i peggiori per quel che riguarda il consumo del suolo, che si attesta intorno all’8% a livello nazionale con picchi in alcune regioni ben oltre al 10%, ma hanno anche logorato il territorio rendendolo più fragile e più esposto a rischi idrogeologici. Per anni, insomma, si è deturpato il territorio derogando a regole e buonsenso nel nome di un progresso sociale ed economico. Deroghe che oggi vengono sempre meno accettate socialmente ed istituzionalmente e che portano le recenti scelte in tema di pianificazione urbana e regionale ad essere sempre più attente alla sostenibilità ambientale e al tema del consumo del suolo. Un’inversione di rotta che certo è utile per non peggiorare ulteriormente una situazione già grave e quasi compromessa ma che da sola non può portare ad un concreto miglioramento.

Interventi – Secondo la ricerca “Natural disaster in Italy: evolution and economic impact”, condotta da Prometeia, il nostro paese ha speso negli anni circa 160 miliardi di euro per le ricostruzioni post calamità. Risulta dunque evidente come sia necessaria un’opera di prevenzione struttura ed efficiente che a fronte di investimenti ingenti possa mettere il nostro paese al riparo da altri fenomeni come quelli vissuti negli ultimi anni.

Ma se l’opera di prevenzione dovrebbe nascere principalmente dalla politica, la politica sembra interessarsene solo in piccolissima parte. Nel 2019 il Governo ha lanciato la cabina di regia “Strategia Italia”, finalizzata a verificare lo stato di attuazione di una serie di interventi a rilevante rischio per il territorio incluso il dissesto idrogeologico, ma il nuovo organismo non è mai risultato particolarmente incisivo. All’istituzione della cabina di regia centralizzata, infatti, non è seguito un cambio del modello lasciando la programmazione e l’attuazione delle opere di prevenzione agli enti locali per i quali è stato stanziato per il triennio 2019-2021 un fondo di 10,9 miliardi di euro. Uno stanziamento sicuramente importante ma che rischia di essere inefficace in assenza di un piano nazionale pluriennale che detti la linea sugli interventi da attuare. Per quanto utile, un fondo del genere rischia di portare ad una frammentazione pericolosa con interventi disorganici e incapaci di risolvere un problema che andrebbe reso prioritario nel nostro paese.

Oltre a questo, e forse in maniera più urgente, serve un cambio culturale nel nostro paese. È necessario per riuscire a risolvere almeno parzialmente il problema un cambio di mentalità che ci porti a percepire l’ambiente che ci circonda non come un insieme di risorse da sfruttare il più possibile ma come un qualcosa da tutelare e utilizzare in modo sostenibile. Sarà decisivo, anche in questo ambito, un deciso cambio di rotta in tema di tutela ambientale con interventi sempre meno invasivi e uno sfruttamento sempre più ridotto del territorio in cui viviamo. Investimenti, maggior sensibilità ambientale e un programma politico strutturato e centralizzato forse non porteranno ad azzerare i rischi e a risolvere un problema che dura da decenni ma sicuramente possono rappresentare un primo passo per un’Italia che possa smettere di avere paura ogni volta che il meteo mette pioggia.

Dalla concorrenza all’ambiente: i lati oscuri del Black Friday

La pubblicità ha spinto questa gente ad affannarsi per automobili e vestiti di cui non hanno bisogno.
Intere generazioni hanno svolto lavori che detestavano solo per

comperare cose di cui non hanno veramente bisogno
-Fight Club-


Il quarto venerdì di novembre, quello successivo al giorno del ringraziamento americano, scatta l’ora X dello shopping. Anche quest’anno, nonostante la pandemia, il 27 novembre torna il “Black Friday” il giorno che tradizionalmente negli Stati Uniti dà il via alle spese natalizie. E proprio per dare il via nel migliore dei modi alle compere natalizie negozi fisici ed online propongono per quel giorno promozioni e offerte irresistibili. Un fenomeno sempre più diffuso tanto che lo scorso anno negli Stati Uniti si sono registrati dati da record: 168 dollari di spesa media, in crescita di circa il 6%, e vendite che nel complesso hanno registrato 6,22 miliardi di dollari di incassi, con un aumento del 23,6% rispetto al Black Friday del 2018. Quest’anno, però, complice la pandemia il “Black Friday” rischia di trasformarsi in un vero e proprio venerdì nero del commercio e non solo.

E-commerce – La grande protagonista di questo giorno è da ormai alcuni anni Amazon, la piattaforma di e-commerce più utilizzata al mondo. Lo scorso anno durante la sola giornata del Black Friday nel nostro paese sono stati effettuati in media 37 acquisti al secondo su Amazon, una cifra da record che rispecchia una tendenza complessiva che vede una crescita esponenziale dell’e-commerce rispetto ai negozi fisici. Una crescita che quest’anno potrebbe essere ancora maggiore considerando che a causa dell’emergenza sanitaria e delle restrizioni imposte molti negozi non potranno nemmeno alzare le saracinesche perdendo così un’importante occasione di guadagno e di rilancio di attività già piegate dalla crisi.

Per il Codacons saranno 25 milioni gli italiani che approfitteranno di sconti e promozioni del Black Friday per fare almeno un acquisto con un aumento del 47% rispetto allo scorso anno. L’intera settimana genererà nel 2020 un giro d’affari di oltre 2,5 miliardi di euro, con una crescita del +27% rispetto al 2019. Ma questa volta non dobbiamo aspettarci nessuna calca nei negozi di elettronica né code fuori dai principali marchi di abbigliamento: il Black Friday rischia di rimanere solo sul web. Proprio da qui nasce il primo problema legato a questa giornata: la concorrenza. Come evidenziato da Confesercenti, con la chiusura dei negozi fisici “il canale delle vendite web di fatto agisce ed opera in condizioni di monopolio”. Se lo scorso anno si stima che in Italia le vendite nei negozi siano aumentate del 23% durante l’ultima settimana di novembre, quest’anno potrebbe non esserci alcuna crescita con evidenti ricadute su interi settori. Con la chiusura di oltre 190mila attività commerciali nelle regioni in zona rossa e di altre 68mila in zona arancione, secondo le stime saranno circa 700 i milioni che gli italiani spenderanno sul web invece che nei negozi durante la giornata di venerdì. Una cifra significativa a cui vanno aggiunti da qui a Natale “ulteriori 3,5 miliardi di euro di spesa dei consumatori per i regali e per l’acquisto di beni per la casa e la famiglia”. Per molti esercenti le chiusure nel periodo in cui crescono esponenzialmente le spese degli italiani potrebbe rappresentare il colpo di grazia in un anno segnato da una profonda crisi economica.

Per far fronte a questa situazione, in Francia è stato raggiunto un accordo tra le piattaforme digitali, con Amazon in prima fila, e i rappresentanti dei commercianti per rimandare il Black Friday. Per dare la possibilità ai negozianti di aprire le proprie attività dopo le restrizioni e garantire così il rispetto della concorrenza le promozioni verranno rimandate da una settimana. Un modo per sostenere gli esercenti francesi, ha sottolineato l’amministratore delegato di Amazon Francia Frederic Duval, e permettere loro di rialzarsi dopo le pesanti perdite di quest’anno.

Ambiente – Ma se la soluzione francese può essere utile per limitare la crisi dei negozi fisici, l’aumento delle vendite via web comporta un enorme pericolo per l’ambiente difficilmente contrastabile in questo modo. Quello che preoccupa è infatti quanto la corsa agli acquisti produrrà in termini di inquinamento e di emissioni di gas serra. Non solo per la produzione degli oggetti che saranno posti sugli scaffali virtuali dei venditori on line, ma soprattutto per la distribuzione e la consegna degli articoli acquistati. Se già da tempo era stato fatto notare da più parti come l’acquisto di prodotti via web contribuisca in modo significativo all’aumento delle emissioni, ora una ricerca condotta da “Money” in Gran Bretagna da un’idea più precisa di quanto potrebbe accadere.

Gli esperti hanno analizzato la quantità di CO2 che verrà prodotta dalla consegna dei pacchi agli acquirenti britannici prendendo in considerazione le credenziali ambientali delle aziende di consegna, il numero di pacchi che si prevede saranno portati a casa degli acquirenti e le emissioni di anidride carbonica prodotta da ciascuna consegna. Una ricerca che, come sottolineano gli stessi autori, pur essendo stata condotta in Gran Bretagna può essere valida per quasi tutti i paesi occidentali, Italia compresa. I dati che emergono, però, lasciano senza parole: a fronte di un aumento delle vendite on line che dovrebbe aggirarsi, nel solo Regno Unito, attorno ad un + 14% rispetto al 2019, le emissioni di CO2 previste per il Black Friday di quest’anno in Gran Bretagna, saranno superiori alle 429 mila tonnellate. Per vere un’idea di quanto il dato sia pesante, spiegano gli stessi ricercatori inglesi, è la quantità di emissioni che si avrebbe con 435 voli di andata e ritorno dall’Unione Europea a New York. A peggiorare le cose, poi, c’è l’aspettativa dei clienti di avere le consegne nel minor tempo possibile: quelle in giornata, ad esempio, imporranno alle aziende di trasporto di incrementare la flotta dei veicoli in circolazione, sia pure temporaneamente, con un sensibile aumento delle emissioni di anidride carbonica.

Secondo una ricerca pubblicata nel 2017 da Brian & Company, l’e-commerce risulta essere maggiormente dannoso per l’ambiente per tre motivi: la tendenza degli acquirenti ad ordinare piccole quantità per volta; effettuare ordini multipli di merce che richiedono più viaggi a causa della localizzazione dei fornitori o dei clienti; aumento di imballaggi aggiuntivi e non riciclabili. In Italia, per esempio, l’e-commerce consuma mediamente il 35% di tutta la plastica prodotta nel nostro Paese.

Se dunque per rilanciare i piccoli negozi può essere utile spostare il Black Friday dopo le chiusure, per l’ambiente è necessaria una maggior sensibilità da parte degli acquirenti. Gli sforzi fatti dalle principali piattaforme di e-commerce per limitare le emissioni sono infatti vicini allo zero e anche la recente istituzione di un fondo da 10 miliardi che il fondatore di Amazon Jeff Bezos intende destinare ad associazioni e organizzazioni che combattono il cambiamento climatico sembra essere più un tentativo di “greenwashing” che una reale presa di coscienza del problema. Ancora una volta la risposta a questo problema sembra arrivare dalla Francia dove associazioni e commercianti hanno lanciato la campagna #NoelSansAmazon (Natale senza Amazon) chiedendo ai francesi di acquistare i propri regali nei negozi e non sul web. La comodità di acquistare dalle piattaforme di e-commerce è senza dubbio evidente ma i costi collaterali, come visto, sono altissimi e li paghiamo tutti. Viene dunque da chiedersi: vale davvero la pena pagare così tanto per un briciolo di comodità in più?

Come Trump sta ostacolando la transizione pacifica verso una nuova presidenza

Oltre a non aver ammesso la vittoria dell’avversario, Trump sta in tutti i modi cercando di ostacolare il percorso di Biden verso la Casa Bianca. Fino a quando il nuovo presidente non sarà riconosciuto non potrà collaborare con l’amministrazione uscente con gravi ricadute sul futuro e sulla stabilità degli USA.

Il concession speech non è una legge ma una tradizione tutta americana. Il momento in cui lo sconfitto ammette di aver perso e ferma gli uomini che lo sostengono, avviando la transizione del potere. Una tradizione nata più di 120 anni fa quando William Jennings Bryant inviò un cortese telegramma al neo-presidente William McKinley, due giorni dopo le presidenziali del 1896: “Il senatore Jones mi ha appena informato che il risultato indica la Sua elezione e mi affretto a porgervi le mie congratulazioni. Abbiamo sottoposto la cosa al popolo americano e il suo volere è legge”. Quella tradizione, però, quest’anno non è stata rispettata.

Dopo la vittoria di Biden, infatti Trump non ha mai fatto un passo indietro insistendo sulla teoria delle elezioni truccate e vinte dal suo sfidante solo grazie brogli elettorali. La cosa più vicina ad un concession speech è stata un tweet in cui affermava che Biden “ha vinto perché il voto è stato truccato” salvo poi puntualizzare con un secondo post in cui ha voluto ribadire la sua posizione: “ha vinto solo per i media delle Fake News. Non concederò nulla. Abbiamo una lunga strada davanti. Questa è stata un’elezione truccata. Noi vinceremo!”. Ma l’ostinazione con cui Trump, sempre più isolato, sta portando avanti la sua verità non si riflette solo in uscite pubbliche in cui grida alla frode. Dal giorno in cui Biden è stato eletto, infatti, il presidente uscente ha iniziato a muoversi per intralciare il suo insediamento e mettere in difficoltà il proprio successore.

In questi giorni Donald Trump non solo sta facendo piazza pulita rimuovendo funzionari scomodi come il capo del Pentagono Mark Esper o il responsabile della sicurezza informatica Chris Krebs, ma si sta rifiutando di collaborare con Biden per garantire una transizione il più possibile pacifica. Da tradizione americana, infatti, durante le 9 settimane che separano il voto dal giorno dell’insediamento (storicamente il 20 gennaio) l’amministrazione uscente collabora con il nuovo presidente aggiornandolo sullo stato della nazione e sulle principali sfide che dovrà ereditare. Una tradizione tutta americana, come il concession speech, necessaria affinché il nuovo leader possa preparare al meglio il suo insediamento ed essere subito in grado di affrontare i problemi degli Stati Uniti. Nel 2016, ad esempio, il neoeletto Trump organizzò un team composto da 328 persone che collaborarono con 42 agenzie federali. Obama nel 2008 ne assunse 349 per avere contezza del lavoro di 62 agenzie. Anche su questo fronte, però, nessuna apertura è arrivata da Donald Trump che ha anzi impedito a Biden di organizzare persino i consueti incontri con l’apparato amministrativo e con l’intelligence. Nessun aggiornamento sulla diffusione del coronavirus, nessun invito a partecipare ai briefing governativi anti covid-19 né a quelli sulla sicurezza nazionale, nessuna possibilità per lo staff di Biden di collaborare con agenzie governative.

La chiusura totale di Trump sta costringendo il prossimo presidente degli Stati Uniti a correre ai ripari organizzando soluzioni “fai da te”. Martedì si è riunito con una task force di esperti, scelti appositamente tra chi non ha alcun legame con la Casa Bianca, formata appositamente per analizzare la situazione attuale e studiare le risposte da mettere in campo dal 20 gennaio in poi. Una task force che, per quanto composta da esperti nei vari settori, può avere uno sguardo solamente parziale non avendo accesso a molte delle informazioni di cui dispone la Casa Bianca. Si pensi ad esempio alle informazioni riservate relative alla sicurezza nazionale o alle proiezioni sullo sviluppo pandemico o su un eventuale vaccino. Tutto ciò che non è pubblico e conosciuto Biden potrà scoprirlo solo il 20 gennaio al momento del giuramento. Per quel che riguarda il covid-19 e la possibile diffusione di un vaccino, poi, la mancata condivisione di informazioni potrebbe avere effetti catastrofici. Ad oggi Biden e il suo staff non hanno idea di come sotto l’amministrazione Trump il Dipartimento della Salute e il Pentagono stiano lavorando per la diffusione del vaccino ed ereditare una situazione già avviata senza conoscerla potrebbe portare a ritardi o blocchi con effetti devastanti. A testimoniare la pericolosità della situazione, i vertici dell’American Hospital Association, dell’American Medical Association e dell’American Nurses Association hanno rilasciato martedì una dichiarazione congiunta esortando l’amministrazione Trump a condividere “tutte le informazioni critiche relative a COVID-19” con Biden.

Oltre agli evidenti disagi che ciò comporta per l’insediamento di Biden, il Center for Presidential Transition ha evidenziato come ciò inciderà in maniera pesante sulle nomine che il neopresidente sarà chiamato a fare una volta alla Casa Bianca. L’ente indipendente incaricato di vigilare sulle transizioni presidenziali ha infatti sottolineato come il mancato riconoscimento di Biden come vincitore e la conseguente totale mancanza di collaborazione allungherà i tempi di nomine strategiche “indebolendo così la capacità del governo di proteggere la nazione e gestire la diffusione del vaccino”. Se Biden ha infatti già indicato i nomi a cui intende affidare alcuni incarichi sensibili, fino a quando non ci sarà un riconoscimento ufficiale non potranno essere compiute le procedure di verifica sull’idoneità della nomina. Mentre i suoi predecessori sono riusciti a nominare gli oltre 1.200 funzionari entro i primi 100 giorni di governo, per Biden sarà un’impresa pressoché impossibile che rischia di lasciare a lungo scoperte alcune posizioni particolarmente sensibili allungando i tempi per una piena attivazione della macchina amministrativa americana ed esponendo il paese a rischi maggiori in una situazione già complicata.

Fino a quando la General Services Administration, guidata da fedelissimi di Trump, non certificherà la vittoria di Biden non ci sarà dunque alcuna collaborazione tra i funzionari dell’amministrazione attuale e il team del prossimo presidente statunitense. Ma mentre molti repubblicani iniziano a schierarsi contro il presidente che grida al complotto, Trump continua a non voler ammettere la sconfitta rilanciando la teoria dei brogli elettorali in quella che appare come la transizione più tesa della storia americana.

Scacco alla mafia Foggiana: 40 arresti nella notte e L’Antimafia invoca lo scioglimento del comune.

Nella notte è scattata l’operazione “Decimabis” con l’arresto di 40 appartenenti ai tre principali clan della “Società Foggiana”. Tra gli arrestati anche dipendenti del comune di Foggia il cui coinvolgimento ha gettato ombre inquietanti su una possibile infiltrazione più profonda della criminalità nell’amministrazione pubblica.

A Foggia e provincia va in scena una “generalizzata, pervasiva e sistematica pressione estorsiva nei confronti di imprenditori e commercianti”. In sostanza, secondo quanto rivelato dagli investigatori, non c’è settore economico che la mafia foggiana abbia risparmiato. Per questo motivo questa mattina centinaia di agenti di polizia e carabinieri hanno eseguito un provvedimento cautelare nei confronti di 40 indagati ritenuti appartenenti o contigui all’organizzazione mafiosa e responsabili, a vario titolo, di associazione di tipo mafioso, concorso esterno in associazione mafiosa, estorsione, tentata estorsione, usura, turbativa d’asta e traffico di sostanze stupefacenti, tutti aggravati dal metodo mafioso. In manette sono finiti tra gli altri anche due esponenti apicali della società foggiana: i boss, appartenenti ai clan omonimi, Federico Trisciuoglio e Pasquale Moretti. L’indagine, denominata “Decimabis”, è scaturita dagli attentati di inizio anno ed è la prosecuzione dell’operazione “Decima Azione” conclusasi nel novembre 2018 con 30 arresti.

Con questa operazione le forze dell’ordine hanno colpito i tre clan più influenti del foggiano in grado negli ultimi mesi di imporre il proprio potere sul territorio: i clan Sinesi-Francavilla, Moretti-Pellegrino-Lanza e Trisciuoglio-Tolonese-Prencipe. Le tre famiglie secondo gli inquirenti avrebbero siglato una sorta di patto di non belligeranza per calmare le acque dopo gli arresti del 2018 spartendosi il territorio per massimizzare i profitti senza generare clamore. In questo modo avrebbero di fatto tenuto sotto scacco l’intera provincia foggiana imponendo il pizzo a imprenditori e commercianti senza risparmiare nessuno. Dalla ristorazione all’edilizia passando addirittura per il mercato settimanale di Foggia, tutte le attività economiche del territorio sarebbero costrette a sottostare alle estorsioni dei clan per non subire conseguenze. E chi si ribellava rifiutandosi di pagare vedeva la propria attività danneggiata come testimoniano le bombe esplose a ripetizione a inizio anno in tutta la provincia. “È emersa” si legge inoltre nell’ordinanza “l’esistenza di una lista contenente i nominativi degli imprenditori sottoposti ad estorsione, circostanza sintomatica di una vera e propria cappa di sopraffazioni e abusi in danno dei settori produttivi operanti nella città di Foggia”.

Pur se contrapposte da sempre per una questione di leadership interna, dunque, le tre “batterie” si sarebbero ritrovate unite nella condivisione degli interessi economico-criminali, gestiti secondo schemi di tipo consociativo. Fondamentale per la ricostruzione delle attività e dei ruoli all’interno della società foggiana è stato il ruolo di tre collaboratori di giustizia che hanno spiegato agli inquirenti il funzionamento della mafia che, secondo le parole di Cafiero de Raho, è attualmente “il nemico numero uno dello stato”. Tra i collaboratori di giustizia, oltre ad Alfonso Capotosto e Carlo Verderosa che da ormai diverso tempo sono noti per le loro rivelazioni, è emerso per la prima volta il nome di Giuseppe Folliero la cui collaborazione dura da due anni ma è sempre stata tenuta nascosta proprio per garantire il buon esito di questa operazione. Proprio grazie alle rivelazioni dei collaboratori di giustizia gli inquirenti hanno potuto accertare l’infiltrazione della criminalità organizzata anche nell’amministrazione pubblica. In manette è infatti finito anche un dipendente del comune di foggia, in servizio all’Ufficio ‘Dichiarazione Morte Stato Civile’ e indagato per concorso esterno in associazione mafiosa, che avrebbe fornito ad esponenti della batteria Sinesi-Francavilla, i nomi delle persone decedute, funzionali al compimento di attività estorsive nei confronti delle agenzie funerarie. Un altro dipendente pubblico, poi, avrebbe fornito ai clan informazioni su bandi e appalti pubblici per favorire l’accesso dei clan ad importanti opere nel settore dell’edilizia.

Proprio il coinvolgimento di dipendenti pubblici collegati, in modo più o meno diretto, alla società foggiana ha portato il presidente della Commissione Parlamentare Antimafia a prendere una posizione dura. Nicola Morra, infatti, ha chiesto l’istituzione di una commissione d’accesso al Comune di Foggia come strumento di verifica per accertare fino a che punto la presenza criminale sia permeata negli uffici pubblici e verificare se vi siano i presupposti per lo scioglimento del comune per infiltrazioni mafiose. “Per dissipare qualsiasi ombra sul Comune di Foggia” ha detto Morra “chiedo che la ministra Lamorgese si attivi immediatamente così da poter dare risposte concrete ai cittadini foggiani che devono potersi fidare dello Stato cominciando dal proprio organo di amministrazione comunale”.


I nomi di tutti gli arrestati nell’operazione di oggi:

Federico Trisciuoglio nato a Foggia il 20.10.1953
Felice Direse nato a Foggia il 20.11. 1969
Gioacchino Frascolla nato a Foggia il 20.04.1985
Antonio Riccardo Augusto Frascolla detto ‘Antonello’ nato Foggia il 17.02.1990
Raffaele Palumbo nato a Foggia il 23.01.1984
Antonio Verderosa detto ‘Sciallett’ nato a Foggia il 26.05.1968
Marco Gelormini nato a Foggia il 10.04.1986
Ivan Narciso nato a Foggia il 08.06.1990
Michele Carosiello nato a Cerignola il 30.08.1980
Giusepep Perdonò nato a Foggia il 01.02.1988
Massimiliano Russo nato a Foggia il 11.06.1975
Michele Cannone nato a Foggia il 22.09.1970
Marco Salvatore Consalvo nato a Foggia il 16.08.1975
Michele Morelli detto ‘Pace e cui’ nato a Foggia il 08.06.1989
Savino Ariostini detto ‘Nino55’ nato a Foggia il 01.04.1969
Alessandro Aprile ‘Schiattamorti’ nato a Foggia il 27/02/1984
Francesco Tizzano nato a Foggia il 20.01.197
Antonio Salvatore detto ‘Lascia Lascia’ nato a Foggia il 26/02/1991
Francesco Pesante nato a Foggia il 04/01/1988
Ivan Emilio D’Amato nato a Foggia il 11/07/1973
Massimo Perdonò nato a ·Foggia il 11/09/1977
Ernesto Gatta nato a Foggia il 02.06.1974
Giusepep De Stefano nato a Foggia il 01.03.1982
Antonio Vincenzo Pellegrino detto ‘Capantica’ nato a Foggia il  13.06.1952
Antonio Miranda nato a Foggia il 05.09.195
Tommaso Alessandro D’Angelo nato a Foggia il 18.08.1985
Domenico Valentini nato a Foggia il 15.08.1972
Rocco Moretti nato a Foggia il 29.05.1997
Nicola Valletta nato a Cerignola il 03.07.1986
Leonardo Gesualdo detto il ‘Vavoso’ nato a Foggia il 28.06.1986
Pietro Stramacchio nato a Foggia il 06.09.1976
Pasquael Moretti nato a Foggia il 11.05.1977
Benito Palumbo nato a Foggia il 05.08.1987
Mario Clemente nato a Foggia il 12.08.1980
Adelio Pio Nardella nato a Foggia il 29.02.1966
Sergio Ragno nato a Foggia il 29.05.1977
Ciro Stanchi nato a Foggia il 14.12.1973
Giovanni Rollo nato a Foggia il 18.08.1987
Alessandro Alessandro nato a Foggia il 13.01.1979
Marco D’Adduzio nato a Foggia il 21.09.1968 (agli arresti domiciliari)

1400 femminicidi all’anno e il disinteresse della politica: così nasce la rivoluzione femminista messicana

Sono femminista nel senso di voler ridare alle donne la dignità umana
-Rita Levi Montalcini-


Nelle scorse settimane i media di tutta Europa hanno mostrato le immagini delle donne polacche intente a difendere i loro diritti. Ma mentre il mondo guardava alla portata rivoluzionaria della protesta femminista contro il presidente Andrzej Duda, in un altro paese la rivolta femminista è scoppiata in modo dirompente senza lasciar traccia nelle cronache internazionali. In Messico, infatti, le donne sono tornate in piazza per protestare contro una situazione sempre più drammatica che ha visto il tasso di femminicidi nel paese crescere del 245% negli ultimi cinque anni.

Femminicidi – Per molti l’elezione di Andres Manuel Lopez Obrador a presidente del Messico, avvenuta nel 2018 con il 53% dei voti, avrebbe dovuto rappresentare un momento di rottura in grado di riportare il paese ad una condizione civile. Le speranze sul nuovo leader salito al potere con una coalizione di sinistra erano molte e molte donne messicane speravano in una stretta del nuovo governo per fermare l’escalation di violenza di genere che negli anni precedenti aveva insanguinato il paese. Tra il 2015 e il 2017, infatti, i numeri dei femminicidi in Messico erano cresciuti in modo costante ed esponenziale passando da 426 ai 765 registrati nell’anno precedente alle elezioni. Un paese macchiato del sangue delle proprie donne aveva così scelto Obrador per tentare di porre fine ad una strage continua.

Le speranze delle donne messicane, però, sono state deluse. Negli ultimi anni la violenza di genere non si è mai fermata raggiungendo anzi livelli mai visti prima. Già dal primo anno di presidenza di AMLO, come viene chiamato dai suoi sostenitori il presidente, è risultato evidente come il problema dei femminicidi non fosse tra le priorità del nuovo governo. Nel 2018 i femminicidi nel paese sono cresciuti di quasi il 20% con 912 donne uccise per questioni di genere. Un incremento costante che non si è arrestato nemmeno l’anno successivo quando per la prima volta si sono addirittura superate le mille vittime in dodici mesi con 1006 donne uccise tra il gennaio e il dicembre 2019. Ma se quelli degli scorsi anni possono sembrare dati spaventosi, quello di quest’anno è ancor più inquietante. Si stima che nei primi 10 mesi del 2020 in Messico siano state quasi tremila le donne uccise di cui almeno 1472 vittime di femminicidio.

Un aumento rispetto all’anno precedente di circa il 46% dovuto in gran parte alle restrizioni dovute all’emergenza sanitaria. Durante il lockdown disposto dal governo ad aprile, infatti, si sono moltiplicati gli episodi di violenza domestica che spesso sono sfociati in tragici epiloghi. Nel solo mese di aprile sono state oltre 21 mila le chiamate ai numeri di emergenza per violenze contro le donne e in molti casi l’intervento delle forze dell’ordine è risultato tardivo.

AMLO – E mentre il paese sprofonda in una spirale di violenze contro le donne, la speranza delle femministe messicane in un intervento di Obrador è definitivamente sparita. Il presidente ha infatti deluso ogni aspettativa su questo tema ignorandolo di fatto per i primi due anni del suo mandato e bollandolo come non urgente in questo 2020. Nei mesi scorsi, infatti, diverse uscite pubbliche di AMLO hanno fatto infuriare le attiviste messicane che hanno riscontrato un totale disinteresse sul tema anche da parte di un governo che si dichiara di sinistra e che le aveva illuse di poter portare un cambiamento. A marzo, dopo che quattro femminicidi in pochi giorni avevano di nuovo portato il problema al centro delle cronache, Obrador aveva bollato lo sciopero nazionale indetto dai gruppi femministi per il 9 marzo come un “complotto dei conservatori contro il mio governo” per distogliere l’attenzione dai problemi più importanti. In altre dichiarazioni, poi, ha sempre minimizzato il problema dando la colpa dell’impennata di femminicidi alle “politiche neoliberiste dei governi precedenti”. Secondo il presidente, infatti, i movimenti femministi “si oppongono alla rinascita morale che stiamo promuovendo. Rispetto le loro opinioni ma non le condivido.” Sempre a marzo si era addirittura lamentato pubblicamente del fatto che le proteste femministe stessero mettendo in secondo piano la sua decisione di vendere l’aereo presidenziale per viaggiare su voli commerciali per risparmiare risorse pubbliche.

Proteste – Ed è proprio la cecità del governo di AMLO ad aver scatenato in questi giorni l’ennesima ondata di proteste. Dopo la “primavera femminista” che ha visto milioni di donne in tutto il paese scendere in piazza tra marzo ed aprile, le mobilitazioni sono ricominciate a settembre e da allora non si sono più fermate. Tra il 2 e il 6 settembre è andata in scena una delle proteste simbolicamente più potenti degli ultimi anni. Silvia Castillo e Marcela Aleman si sono recate negli uffici della Commissione per i diritti umani per chiedere giustizia per i loro casi: L’ assassinio del figlio per la prima, l’aggressione della figlia di quattro anni per la seconda. Al rifiuto delle autorità di ascoltarle le due donne hanno deciso di non andarsene ma di stare su una sedia ferme in attesa di una risposta. Da quel momento decine di donne e attiviste le hanno raggiunte con l’obiettivo di raccontare le loro vicende, appoggiare e sostenere le rivendicazioni delle altre madri ed esigere, in modo collettivo, che le loro denunce portino alla risoluzione dei tanti casi di violenza. Domenica 6 settembre, le organizzazioni femministe hanno annunciato di non aver ricevuto risposte né soluzioni ai reclami presentati, e da quel giorno hanno deciso occupare la sede della Commissione cambiando il nome dell’edificio in “Okupa Casa Refugio Ni Una Menos México”.

Ancora una volta, però, la loro azione simbolica non è servita a portare al centro dell’agenda politica il problema dei femminicidi e della violenza di genere. “Capisco la loro rabbia e penso sia una giusta rivendicazione” ha commentato Obrador “ma resto convinto che sia fomentata dall’opposizione conservatrice”. All’ennesima dimostrazione di disinteresse e cecità istituzionale le femministe messicane si sono mobilitate in tutto il paese occupando le sedi della stessa istituzione pubblica in Chiapas, Guerrero, Sinaloa, Chihuahua, e nello Stato di México da dove sono state sgomberate con la violenza l’11 settembre scorso. Una mobilitazione che però ancora non ha minato la convinzione di Obrador di essere nel giusto.

E mentre AMLO continua a sminuire il problema la scorsa settimana il corpo della ventenne Bianca “Alexis” Lorenzana è stato ritrovato, pochi giorni dopo la sua scomparsa, senza vita e fatto a pezzi. L’ennesimo femminicidio senza alcuna risposta istituzionale ha alimentato la rabbia e l’esasperazione delle femministe messicane che hanno indetto cortei e marce in tutto il paese. A Cancun migliaia di donne sono scese in piazza pacificamente gridando il loro dolore e la loro rabbia per l’inazione di Obrador. Il corteo si è snodato per le strade della città e una volta giunto davanti al municipio un centinaio di attiviste hanno cercato di forzare il cordone di polizia per irrompere nel palazzo. La reazione delle forze dell’ordine è stata feroce. Nel tentativo di respingere l’assalto e disperdere i manifestanti la polizia ha sparato diversi colpi sulla folla ferendo diverse manifestanti e almeno 4 giornalisti.

Eppure, nemmeno i colpi sparati a Cancun sono riusciti a fermare le donne messicane. Senza più pazienza ne paura la lotta femminista contro la scia di sangue che attraversa il paese continua. La battaglia intrapresa è ormai troppo grande per essere abbandonata. Perché non si può tollerare un paese in cui oltre 1400 donne muoiono ogni anno per il solo fatto di essere donne.

Il dramma della sanità calabrese

La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo
e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti

– Costituzione, art. 32 –


Quella che si è appena conclusa è stata una settimana da incubo per la sanità calabrese. Tra le discussioni sul “decreto Calabria”, con cui il governo intende prolungare il commissariamento della sanità regionale, le polemiche relative alla zona rossa e lo scandalo relativo al commissario Cotticelli la regione sta attraversando un momento a dir poco burrascoso.

Commissario – L’ultimo durissimo colpo è arrivato per mezzo della trasmissione “Quinto Titolo”, andata in onda su Rai 3. Quello che doveva essere un servizio sulle difficoltà del sistema calabrese in questa seconda ondata e sull’inserimento della regione tra quelle più a rischio si è trasformato in uno tsunami che ha letteralmente travolto il commissario straordinario. Sono bastati pochi minuti di intervista perché Saverio Cotticelli, ex generale dei carabinieri e vicino al M5S e dal 2018 a capo della sanità calabrese, mostrasse al mondo tutta la sua impreparazione. Al giornalista che gli chiede cosa abbia fatto quando a giugno si è reso conto che la regione non aveva un “piano covid” risponde sicuro e quasi polemico: “Ho chiesto al ministero chi dovesse redigerlo e loro mi hanno risposto con un parere”. Quando prende in mano quel parere però cala il gelo. “Cosa le dicono? Chi deve farlo il piano?” lo incalza il giornalista. Qualche istante di silenzio poi la risposta sommessa: “Dovevo farlo io”.

Come uno studente che arriva impreparato all’interrogazione prova a giustificarsi, ad arrampicarsi sugli specchi. “Il piano lo sto preparando e la settimana prossima è pronto” dice. Ma da quel momento l’intervista precipita. Non c’è traccia del bando che il commissario Arcuri ha chiesto alla Calabria per portare a 280 i posti in terapia intensiva e che avrebbe dovuto essere pubblicato entro il 3 novembre: “Adesso stiamo verificando che siano fatti” risponde Cotticelli. Ma è sui numeri delle terapie intensive che crolla definitivamente. Prima dice di aver raddoppiato i posti rispetto ai 107 che aveva qualche mese fa poi chiede conferma alla sua sub commissario Maria Crocco che prima lo gela, “tu quando vai di là devi essere preparato”, poi gli risponde nel merito: “Non ne hai attivati di nuovi, li hai solo previsti nel piano”.

Una dimostrazione di incompetenza che ha costretto l’ex generale alle dimissioni, presentate ieri nelle mani del ministro della Salute Roberto Speranza e del responsabile dell’Economia Roberto Gualtieri. “Dopo 2 anni di lavoro” ha commentato “non ci sto a diventare il capro espiatorio di situazioni a me non addebitali, adesso basta, siamo arrivati al punto di non ritorno. Ci sono attacchi nei confronti della struttura commissariale intollerabili e frutto di menti raffinate”.

Commissariamento – Che la sanità in Calabria avesse delle gravi mancanze non lo si scopre certo oggi. A partire dal 2007, infatti, il tema della sanità calabrese ha assunto una rilevanza sempre maggiore e già nel 2010 si sono insediati i primi commissari incaricati di risolvere una situazione drammatica. La principale criticità era, ed è tutt’oggi, quella relativa ai bilanci in cui si è per anni accumulato un debito divenuto ormai milionario anche a causa del disinteresse da parte delle giunte che si sono succeduto fino al commissariamento. Fino al 2007, insomma, le giunte regionali hanno di fatto deciso di non occuparsi del problema facendolo in questo modo crescere giorno dopo giorno fino a che la situazione è diventata insostenibile. Con le casse della sanità calabrese in rosso, infatti, si è determinata un’elevatissima precarietà nell’erogazione dei servizi e ripetuti e frequenti episodi di malasanità. Si è registrata insomma una “riconosciuta inidoneità del Servizio sanitario regionale ad assicurare i livelli essenziali di assistenza alla popolazione”.

Così, ne 2007 con un’ordinanza del Presidente del Consiglio si decise di commissariare la sanità calabrese affidando all’assessore alla salute Spaziente il compito di risolvere i gravi problemi che affliggevano il settore. Un intervento che non si è però dimostrato risolutivo ed ha costretto il governo a ricorrere a misure più drastiche optando, a partire dal 2010, per la gestione affidata a commissari nominati dal governo. Da 10 anni, dunque, la sanità calabrese è commissariata nel tentativo di risolvere una situazione quantomai critica. Un tentativo quantomai vano che non sta certo portando i risultati sperati e che anzi sta portando il sistema sanitario regionale al collasso. Perché non solo in oltre 10 anni di commissariamento non c’è stato un miglioramento in un bilancio che continua a contare centinaia di milioni di disavanzo (320 per la precisione), ma questa continua e infinita crisi sta portando conseguenze gravi sull’efficienza del sistema. Si registra ormai da anni una cronica insufficienza del personale medico, paramedico e tecnico che compromette in tal modo l’assistenza ai pazienti generando gravi episodi di malasanità. La medicina territoriale è pressoché inesistente e in molti dei 405 comuni della regione la popolazione ha difficoltà ad accedere alle cure mediche. Strutture e macchinari, spesso insufficienti o obsoleti, causano difficoltà nell’assistere i pazienti. Due aziende territoriali (l’Asp di Reggio Calabria e quella di Catanzaro) sono state sciolte per infiltrazione/condizionamento mafioso, ed entrambe “fantasiosamente” dichiarate in dissesto. Insomma, in Calabria, tra sprechi vergognosi e incapacità, si registra una inefficienza da scandalizzare chiunque. Basterebbe pensare che da queste parti vengono ancora tollerate aziende sanitarie territoriali senza bilancio da anni, altre sciolte per ‘ndrangheta, aziende ospedaliere che, pare, non esercitino il pronto soccorso e chiudano nei week-end. Tutto questo nonostante dieci anni di commissariamento ad acta

Proteste – E proprio in questo senso vanno viste le proteste che da giovedì infiammano le principali città calabresi. Mentre in altre zone d’Italia si manifesta contro una fantomatica “dittatura sanitaria” e contro l’imposizione di misure più severe da parte del governo, in Calabria le proteste hanno un significato diverso. In una regione troppo spesso descritta come silente migliaia di persone hanno deciso di scendere in piazza non per dimostrare contrarietà alla zona rossa ma per esprimere il loro disappunto verso una politica regionale che non è in grado di garantire il diritto alla salute ai propri cittadini. Dalle principali città all’entroterra e fino alle coste migliaia di calabresi hanno scandito slogan contro una sanità più che mai malata e incapace di dare sicurezza in un momento storico come questo. Da Reggio a Castrovilllari, da Lamezia a Gioia Tauro passando per Crotone, Catanzaro e quella Cosenza che è diventata il fulcro della sanità pubblica e dove la classe politica locale ha consegnato le chiavi della sanità ai proprietari delle cliniche private come i Morrone, i Greco, i Parente, i cui cognomi sono stati indicati nei cartelli di protesta e urlati dai megafoni.

E mentre chi dovrebbe ripianare la situazione ripete da 10 anni che serve tempo per tornare alla normalità, la Calabria assiste attonita alla morte del proprio servizio sanitario. Speranza cercasi in Calabria: la speranza immateriale di una sanità degna di un paese civile, e il materialissimo Ministro della Salute che ci si augura possa intervenire in una situazione che pare sempre più drammatica.