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27 luglio 1993: La notte in cui la mafia attaccò lo Stato

La notte tra il 27 e il 28 luglio 1993 resterà nella storia come il momento più buio della storia recente della Repubblica. A un anno da Capaci e via d’Amelio Cosa nostra colpisce con tre bombe a Milano e Roma facendo temere il colpo di stato.

Milano, 27 luglio 1993.

Alle ore 22.55 circa, una coppia di passanti ferma una pattuglia di Vigili urbani che percorre via Palestro. “Correte, esce del fumo da una macchina”. Gli agenti Alessandro Ferrari e Catia Cucchi scendono dall’auto e controllano la Fiat Uno targata MI7P2498 parcheggiata davanti al padiglione d’Arte Contemporanea. C’è molto fumo ma nessuna fiamma.

Alle 23.05, dopo la chiamata alla centrale da parte dei due vigili, arriva sul posto una squadra di vigili del fuoco. Il fumo continua ad uscire, ma di fiamme nemmeno l’ombra. I pompieri aprono il cofano e notano una scatola chiusa con dello scotch e dei fili che fuoriescono. Non ci sono dubbi. È una bomba.

Alle 23.14, mentre gli artificieri sono in arrivo, l’ordigno esplode. Perdono la vita il vigile urbano Alessandro Ferrari, i Vigili del Fuoco Carlo La Catena, Sergio Pasotto e Stefano Picerno e Moussafir Driss, cittadino marocchino che si trovava su una panchina nel parco di fronte.

A Milano quella notte è l’inferno. L’esplosione è così potente che rompe le tubature del gas facendole bruciare per tutta la notte mentre la facciata del Padiglione d’Arte Contemporanea collassa su sé stessa. I vigili del fuoco lavorano tutta la notte per spegnere le fiamme mentre le forze dell’ordine faticano a tenere la folla accorsa per vedere cosa stava accadendo. Passano pochi minuti e altre due bombe esplodono a Roma (vicino alle chiese di San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro) senza fortunatamente causare vittime. È l’attacco di Cosa nostra allo stato. A Palazzo Chigi saltano le linee telefoniche e, per la prima volta nella storia, il Presidente del Consiglio rimane isolato. Un blackout totale delle comunicazioni durante il quale Ciampi non poté comunicare in alcun modo con i suoi collaboratori o con gli apparati di sicurezza. “Non ho paura a dirlo” dirà Ciampi successivamente “ebbi la sensazione che fossimo a un passo da un colpo di Stato.”

Non sappiamo cosa successe esattamente quella notte a Palazzo Chigi, e non sappiamo se quel colpo di stato fallì o non era previsto. Oggi, a 27 anni da quella notte, sappiamo però che la responsabilità di quelle bombe fu di Cosa nostra. Quei tre ordigni erano parte della strategia ordita dai clan corleonesi che a partire dal 1992 avevano alzato il tiro contro lo stato. Prima le stragi di Capaci e via d’Amelio, poi il fallito attentato a Maurizio Costanzo e le bombe di Firenze, Milano e Roma. Un vero e proprio attacco frontale allo Stato con l’obiettivo di colpire uomini e luoghi simbolo del paese per provare a piegare le istituzioni ed indurle a quella che verrà ricordata come “Trattativa Stato-Mafia”. Il Servizio Centrale Operativo (SCO) il 9 agosto 1993 trametterà una nota inequivocabile alla Commissione Antimafia: “l’obiettivo della strategia delle bombe” si legge “sarebbe quello di giungere ad una sorta di trattativa con lo Stato per la soluzione dei principali problemi che attualmente affliggono l’organizzazione: il carcerario ed il pentitismo”. Una trattativa cercata ed alimentata a suon di esplosioni che ebbe come primo risultato la decisione del Ministro della Giustizia Giovanni Conso di non rinnovare 373 provvedimenti di 41 bis revocando così il carcere duro per altrettanti mafiosi.

Inquinamento: il Mediterraneo verso il punto di non ritorno

Così stanno bruciando il mare
Così stanno uccidendo il mare
Così stanno umiliando il mare
Così stanno piegando il mare
-Lucio Dalla-


Come ogni estate migliaia di italiani si riverseranno sulle spiagge del mediterraneo per godersi qualche giorno di vacanza dopo un anno di lavoro. Comportamenti irresponsabili e una scarsa attenzione verso l’ambiente potrebbero portare a complicare ulteriormente una situazione già grave. Il mediterraneo, infatti, è in forte sofferenza con sfruttamento umano e inquinamento che stanno danneggiando il principale mare Europeo a livelli mai visti prima.

Il rapporto – Secondo l’Agenzia Europea dell’Ambiente, che ha pubblicato il rapporto “Marine Messages II” sullo stato del Mediterraneo, la situazione sarebbe vicina ad un punto di non ritorno. Secondo l’ente europeo, infatti, sono stati falliti tutti gli obiettivi previsti fino ad ora e risulta estremamente improbabile il raggiungimento di quelli fissati per questo 2020. Secondo una direttiva quadro del 2017, infatti, gli stati membri dell’Unione Europea avrebbero dovuto impegnarsi per raggiungere un “buono stato ecologico delle acque marine dell’UE entro il 2020”. Se per “buono stato ecologico” si intende, come specificato nella direttiva, uno “sfruttamento sostenibile” ed il mantenimento degli “ecosistemi e della biodiversità” è evidente come sia ben lontano dalla sua attuazione.

Nell’intero mediterraneo, che vanta uno degli ecosistemi più vari del mondo con oltre 17mila specie, solo il 6,1% degli stock ittici è pescato in modo sostenibile e solo il 12,7% della sua area non riscontra problemi di inquinamento. Se alcune misure mirate alla salvaguardia di singoli habitat hanno portato a buoni risultati, risulta evidente come la biodiversità nel mediterraneo non sia salvaguardata e sia invece costantemente minacciata dall’attività umana. Molte specie animali, dagli uccelli marini agli stock ittici passando per i grandi mammiferi, hanno visto un grave deterioramento del loro habitat naturale negli ultimi anni con pesanti ripercussioni sulla loro sopravvivenza. Ma oltre alla crisi climatica in corso, che sta provocando un sensibile innalzamento delle temperature delle acque, a provocare questi sconvolgimenti nel mediterraneo è anche la mano umana. Sarebbe infatti in corso, secondo il rapporto dell’Agenzia Europea dell’Ambiente una vera e propria corsa allo sfruttamento delle risorse marine. Pesca, estrazione di combustibili fossili, produzione di energie rinnovabili ed ogni attività collegata ad uno sfruttamento del mediterraneo risulta essere in crescita negli ultimi anni ed avrebbe comportato una forte erosione della condizione del mare.

Plastica – Dalla mano umana dipende anche un altro grande problema del “Mare Nostrum”: L’inquinamento da plastica. Come denunciato da diverse associazioni ambientaliste, pur rappresentando solamente l’1% delle acque mondiali, il Mediterraneo raccoglie al suo interno il 7% delle plastiche presenti nei mari di tutto il mondo. Lenze, reti da pesca, sacchetti, bottiglie, flaconi e molto altro finisce ogni giorno nei nostri mari minacciando la salute della fauna marina e anche la nostra. Sui fondali marini del Mare Nostrum sono stati rilevati livelli di microplastiche più elevati mai registrati, fino a 1,9 milioni di frammenti su una superficie di un solo metro quadrato. I primi a farne le spese sono senza dubbio gli animali che sempre più spesso muoiono dopo aver ingerito rifiuti plastici. Come è successo la scorsa estate a Porto Cervo quando una balena di 8 metri, in cinta del suo cucciolo, è stata ritrovata morta sulle spiagge con circa 23 kg di rifiuti plastici nello stomaco. Ma a rischio c’è anche la nostra salute. Il pesce che consumiamo sulle nostre tavole, infatti, ingerisce quasi quotidianamente micro e nano plastiche: si stima che un consumatore medio di pesce ingerisca in media cinque grammi di plastica a settimana, l’equivalente di una carta di credito, e non si conoscono ancora gli esatti risvolti per la nostra salute.

Percezione – Quello che sembra essere un problema grave e irrisolvibile sembra essere però ben noto agli italiani. L’indagine “Gli italiani e la tutela del mare e dell’ambiente” promossa dall’Istituto nazionale di oceanografia e di geofisica sperimentale – Ogs e realizzata da Swg ha infatti rivelato come l’84% degli italiani sia convinta che la salute del mare sia “gravemente a rischio”. A minacciarla per l’81% degli intervistati sarebbero soprattutto le plastiche e microplastiche ma anche gli inquinanti chimici (78%) e gli effetti dei cambiamenti climatici (60%); meno considerati, la presenza di specie aliene (31%) e il rumore provocato dall’uomo (25%).

Emerge poi dall’opinione pubblica italiana una forte convinzione dell’urgenza di salvaguardare il mare: su una scala di importanza da 1 a 10, per il 46% degli intervistati il bisogno è massimo e la rilevanza media data al tema è 8,7. Il 50% del campione ritiene inoltre che la salvaguardia del mare sia necessaria per mantenere gli equilibri del Pianeta. Da questi dati, da cui sembra emergere una forte sensibilità degli italiani per questo tema, risulta difficile capire perché i nostri mari siano i più inquinati dell’intera area con circa il 60% dei rifiuti del mediterraneo depositati sui fondali italiani. Forse a pesare c’è l’idea, diffusa nel 71% degli italiani secondo la ricerca, che ad occuparsi della salute dei mari dovrebbe essere un organismo sovrannazionale. Un’idea che sembra far emergere una tendenza a delegare ad altri la soluzione di un problema che non può essere risolto se non partendo da noi. Se è innegabile che sia necessario un intervento nazionale o sovrannazionale lo è altrettanto che senza un cambio di mentalità dei singoli cittadini il mar Mediterraneo continuerà ad essere inquinato e sfruttato.  Se ora siamo “vicini ad un punto di non ritorno” senza un cambio di paradigma rischiamo di raggiungere e superare quel punto. Senza la collaborazione e l’impegno di tutti, non ci sarà nessun “Green Deal” in grado di salvare i nostri mari.

Come l’Europa sta disboscando l’Amazzonia

Non possiamo rimanere in silenzio di fronte a tanta ingiustizia
-Chico Mendes-


A parole, l’ambiente è il tema centrale su cui si sta concentrando l’Unione Europea. Da mesi ormai le istituzioni europee parlano del “Green New Deal”, il pacchetto di provvedimenti e incentivi per azzerare le emissioni entro il 2050 e rendere più sostenibile la crescita economica, come assoluta priorità sottolineando la necessità di agire il prima possibile per salvare il pianeta. “Nessuno deve essere lasciato indietro” si legge sul sito “nessuna persona e nessun luogo possono essere trascurati”. Ma la grande sfida europea fallisce ogni giorno a 10.000 km da Bruxelles, nel cuore della Foresta Amazzonica.

Disboscamento – Quello che era il polmone verde del mondo, una lussureggiante foresta pluviale con un ecosistema unico, si sta trasformando a ritmi da record in un’arida savana. Secondo i dati ufficiali, diffusi dall’Istituto nazionale per le ricerche spaziali del Brasile, tra gennaio e aprile 2020 sono stati disboscati 1.200 km quadrati di foresta, il 55% in più rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Negli ultimi 12 mesi (aprile 2019 – aprile 2020) sono stati in totale 9.320 i km quadrati di foresta distrutti, il dato più alto mai registrato dall’inizio del monitoraggio nel 2007.

Non è certo un caso che la deforestazione abbia subito un’impennata nell’ultimo anno. Nel gennaio scorso infatti si è insediato come presidente del Brasile, paese che ospita la maggior parte della Foresta Amazzonica, Jair Bolsonaro. Dopo una campagna elettorale basata, anche, sulla promessa di uno sfruttamento massiccio di quell’area per rilanciare l’economia del paese, il presidente ha mantenuto le promesse smantellando di fatto le politiche a tutela della foresta e tagliando drasticamente i fondi destinati al controllo sulle attività illecite nell’area. Non sorprende dunque che al suo fianco abbia un ministro dell’Ambiente, Riccardo Salles, che ha definito la crisi climatica “una questione secondaria” o un ministro degli esteri secondo cui sarebbe solo un “complotto marxista”. In un anno di governo Bolsonaro ha sostituito o licenziato tutti i dirigenti dei principali enti preposti alla difesa della foresta, da Ricardo Galvao a Lubia Vinhas, creando così un esercito di collaboratori pronti a sostenere la sua strategia politica basata sullo sfruttamento indiscriminato dell’area per coltivazioni, allevamenti e miniere. Così si sono moltiplicati i roghi appiccati dai proprietari terrieri per far largo alle proprie attività e le azioni dei taglialegna illegali che abbattono intere aree di foresta per sfruttare il suolo.

Ma un fenomeno così complesso non può essere ridotto a questo. Dietro agli incendi e alla deforestazione dell’Amazzonia non c’è solo la volontà politica di una leadership poco sensibile ai temi ambientali. C’è un sistema di produzione e di consumo alimentare che ha in quelle aree del Brasile uno dei propri baricentri. È un sistema dove gran parte della popolazione mondiale fonda la propria dieta sul consumo di proteine animali. E se aumenta il consumo di carne, aumentano gli animali da allevare, e aumenta la necessità di produrre materie prime agricole per i loro mangimi. Diventa così indispensabile la presenza di vaste aree da destinare alla produzione intensiva di cereali e soia da destinare al nutrimento degli allevamenti di tutto il mondo. Secondo un recente studio del canadese Tony Weiss, un terzo delle aree coltivate nel mondo non è destinato al consumo da parte degli uomini ma alla produzione di prodotti per la zootecnica. È proprio a questo che sono destinate le aree disboscate in amazzonia. Abbattere gli alberi permette da un lato di ampliare la superfice coltivabile a soia, principale alimento per gli allevamenti, e dall’altro di creare aree in cui allevare in modo intensivo bovini.

Europa – Ma cosa c’entra in questo contesto l’Unione Europea? Il Brasile, maggior produttore di soia al mondo, è il principale partner commerciale dei paesi europei per quel che riguarda l’importazione di soia e cereali. Secondo un recente studio della rivista “Science”, circa un quinto della soia prodotta in zone disboscate della regione amazzonica è destinata al mercato europeo. Solamente pochi giorni fa nel porto di Amsterdam ha attraccato la nave mercantile “Pacific South” proveniente dal Brasile e carica di oltre 100.000 tonnellate di soia per la cui coltivazione sono stati necessari secondo le stime circa 40.000 ettari di terreno. L’arrivo della “Pacific South” non è però che l’ultima dimostrazione di un rapporto commerciale consolidato e sempre più stabile tra l’UE e il Brasile.

Lo scorso anno, tra le polemiche di alcuni europarlamentari e il silenzio della stampa italiana, l’UE ha stretto un patto politico e commerciale con il cosiddetto “Blocco Mercasur” composto da Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay. L’accordo, presentato da Junker come “un momento storico per l’Europa”, oltre a favorire le esportazioni dall’UE verso quei paesi riducendo dazi e alleggerendo la burocrazia rende anche più semplice l’importazione in Europa di prodotti agroalimentari dall’area “Mercasur”. È evidente dunque come l’Europa, attraverso il fitto commercio con il paese sudamericano, sia almeno in parte responsabile di quel disboscamento che pubblicamente condanna e contrasta. Sulla spinta di una domanda che non accenna a diminuire, e anzi aumenta sempre più, la frontiera agricola brasiliana si muove verso nord ad un ritmo impressionante rosicchiando senza sosta km di foresta per destinarli al soddisfacimento del fabbisogno mondiale, e soprattutto Europeo, di soia e cereali.

E se l’Europa, mentre rilancia politiche green, alimenta un disboscamento incontrollato della foresta pluviale brasiliana il nostro paese non può dirsi estraneo a questo fenomeno. Anche per l’Italia, infatti, il Brasile si conferma principale partner commerciale per quel che riguarda l’importazione di soia e cereali e gli accordi tra i due paesi non sono mai stati messi in discussione. Tra il gennaio e il luglio 2019, secondo le statistiche ufficiali, abbiamo importato più di 130 milioni di dollari di prodotto non lavorato (tra semi e macinato) dal paese sudamericano. Come l’Europa, però, anche il nostro paese fa finta di non sapere da dove provengano i cargo carichi di soia. Fingiamo di non sapere che per produrla ogni giorno una fetta di Amazzonia scompare per sempre. E mentre alimentiamo tutto questo continuiamo imperterriti a ripeterci che il nostro obiettivo deve essere la salvaguardia dell’ambiente. Perché non esiste un pianeta di riserva.

Sconti su iscrizione e tasse per i fuorisede che tornano al sud: ma servono davvero?

Gli atenei del sud, nel tentativo di contrastare il calo delle immatricolazioni post coronavirus, offrono sconti sulle rette a tutti coloro che decidono di tornare dopo aver iniziato altrove gli studi. Ma possono bastare queste misure per frenare la fuga degli studenti dal sud Italia?

Nella corsa alle immatricolazioni per il prossimo anno sono iniziati anche i saldi di fine stagione. Con la crisi economica post emergenza sanitaria molte Università italiane vedranno un drastico calo delle iscrizioni per il prossimo anno accademico. Un fenomeno che potrebbe pesare maggiormente sugli atenei del sud Italia che già da diverso tempo soffrono di uno spopolamento cronico dovuto alla fuga di migliaia di ragazzi verso le facoltà del nord. Ed è proprio su quei fuorisede che sembrano indirizzati gli incentivi proposti da diversi rettori del mezzogiorno che vorrebbero convincere chi ha iniziato gli studi fuori regione a tornare e incentivare chi ancora deve iniziarli a non lasciare la propria città. Una vera e propria “guerra” tra nord e sud che sta accendendo il dibattito sulle immatricolazioni al prossimo anno.

A lanciare la sfida è stata pochi giorni fa la Regione Sicilia che nella nuova Legge di Stabilità ha previsto un bonus di 1.200 euro per tutti coloro che decidono di tornare sull’isola per proseguire gli studi iniziati fuori regione. Una proposta già di per sé allettante su cui l’Università di Palermo ha addirittura deciso di giocare al rialzo aggiungendo l’iscrizione gratuita, solo per quest’anno, per tutti gli studenti che decidono di tornare. Scelte simili sono state prese in Puglia, dove l’iscrizione sarà gratuita per chi era immatricolato altrove, e in Basilicata, dove gli atenei garantiscono uno sconto del 50% sulle tasse universitarie per chi torna in regione. Insomma, le porte del sud, per chi vuole tornare, sembrano essere spalancate e l’appello a tornare a casa sembra essere molto attraente. Oltre agli sconti su iscrizioni e tasse, infatti, a far gola ai fuorisede travolti dalla crisi economica potrebbe essere il minor costo della vita. Affitti, bollette, spese, spostamenti e chi più ne ha più ne metta in un periodo di grande crisi economica potrebbero diventare un lusso non sostenibile per molti fuorisede che potrebbero così decidere di tornare a casa per non dover spendere un patrimonio, o gravare sulle proprie famiglie, per continuare gli studi.

È bastato l’annuncio di questi incentivi a scatenare le proteste di rettori e amministratori locali del nord che temono una fuga di massa degli studenti da città in cui il costo della vita per i fuorisede è sempre più alto. Critico verso queste misure anche il ministro dell’Università e della Ricerca Gaetano Manfredi che ha sottolineato la sua netta contrarietà ad ogni iniziativa su base territoriale che crea “diseguaglianze inaccettabili”. Il ministro ha sottolineato in particolare come sarebbe più saggio e utile lavorare tutti insieme “per fare in modo che ci siano opportunità identiche per tutti gli studenti, lasciando solo a loro ovviamente la libertà di scelta”. Incentivi del genere, che siano proposti dalla Lombardia o dalla Sicilia, portano infatti gli studenti a scegliere un Ateneo piuttosto che un altro non in base a quello che ritengono più giusto per loro e per il loro percorso ma in base a quello che ritengono più abbordabile dal punto di vista economico. Una dinamica che rischia di innescare un circolo vizioso pericoloso e in grado di minare il diritto allo studio di molti ragazzi.

Ma quello che sembra mancare in questo piano di rilancio delle Università del sud Italia è una visione d’insieme. Da anni ormai sono in crescita gli studenti fuorisede (+2,7% annuo secondo le stime dell’osservatorio “Talents Venture”) con una grande fetta degli studenti che si allontanano dal sud per vivere e studiare negli atenei del nord. A fronte di una media di iscritti all’Università superiore rispetto alla media nazionale, con il 16% dei giovani iscritti ad un corso di laurea contro il 15% della media nazionale, le regioni del sud devono infatti fare i conti con quella che è una vera e propria fuga verso altre regioni. Quasi il 35% dei giovani meridionali, infatti, sceglie di trasferirsi per i propri studi lontano da casa ed in particolare verso Lombardia, Emilia-Romagna e Lazio che da sole accolgono oltre il 50% dei fuorisede italiani. Ma l’aspetto che sembrano sottovalutare le recenti misure pensate per riportare a casa gli studenti fuorisede è il motivo che spinge molti ad andarsene. Non si tratta solo di una sfida personale o della voglia di scoprire nuove realtà ma anche e soprattutto una questione di opportunità future. Chi dal sud si muove verso il nord lo fa perché sa che una volta terminata l’università sarà più semplice impostare la propria vita in regioni diverse da quelle da cui è costretto a scappare. I dati mostrano come i laureati negli atenei del sud presentino un tasso di occupazione del 61% contro al 74% dei colleghi del nord e al 70% di quelli del centro. Chi sta al sud, insomma, fa più fatica a trovare lavoro dopo la laurea e, ad un anno dal titolo, guadagna in media tra i 100 e i 200 euro medo degli omologhi del centro-nord.*

Dunque, se da un lato sono sicuramente apprezzabili gli sforzi fatti dalle Università per tenere gli studenti al sud, non si può trascurare il quadro generale che costringe migliaia di giovani ad abbandonare, il più delle volte a malincuore, la propria terra per studiare in una regione diversa. Incentivi e sgravi fiscali da soli non bastano per risolvere un problema che è in realtà più ampio e complesso e che si collega all’annosa questione dello sviluppo delle regioni meridionali. Incentivare gli studenti a studiare al sud senza garantire servizi adeguati durante il percorso di studi, dalla mobilità ai campus, o prospettive lavorative post-laurea sembra essere un controsenso. È necessario una visione più ampia che punti a richiamare gli studenti non per i prezzi più bassi, come se l’istruzione fosse una merce esposta al mercato, ma per la qualità dell’insegnamento e della vita. Un’offerta formativa di qualità maggiore porterebbe inevitabilmente un maggior numero di studenti a preferire quell’ateneo piuttosto che un altro, formerebbe studenti più qualificati e di conseguenza più cercati dal mercato del lavoro innescando un circolo in grado di ripopolare gli atenei del sud senza bisogno di fare ulteriori saldi.

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*Fonte dati:
Bianchi P.; Laddomada P.; Valdes C., Il fenomeno degli studenti fuorisede, Osservatorio Talents Venture, 2019