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Gli Stati Uniti e il rischio concreto di una nuova Guerra Civile

Il blitz dell’FBI di settimana scorsa è tornato ad infiammare gli animi dei sostenitori estremisti di Trump, vittima secondo loro di un uso politico della giustizia, facendo di nuovo temere per una crisi sociale e politica che potrebbe sfociare in qualcosa di più grave.

Sono bastati pochi minuti. È bastato che Donald Trump mettesse in rete la notizia della perquisizione della sua residenza a Mar-a-Lago da parte dell’FBI e immediatamente il popolo dei suoi supporter si è mobilitato. Una folla di irriducibili trumpiani si è radunata a Palm Beach davanti alla casa dell’ex presidente, che in quel momento però si trovava a New York, per proteggerlo da quello che a loro modo di vedere è l’ennesimo sopruso. Una valanga di post e commenti hanno invaso i social network: “Questo è un attacco politico orchestrato da Biden”, “Non avremo mai più elezioni libere” o ancora “io ho già comprato le munizioni”. Proprio così, perché bastano pochi minuti perché tra i temrini più cercati su Google finiscano “guerra civile” e “lock and load”, termine utilizzato nel gergo militare per indicare un’arma da fuoco carica e pronta per essere usata. D’altronde è dall’assalto al congresso del 6 gennaio scorso che gli Stati Uniti d’America, la più grande democrazia occidentale, temono quello che sulla carta sembra impensabile ma che nella realtà sembra sempre meno impossibile: una nuova guerra civile.

Se questa volta, dopo la notizia delle perquisizioni a casa di The Donald, la violenza è stata solo minacciata con centinaia di post su social e forum di estrema destra, la sensazione è che la rabbia sociale seminata da Trump dopo la sconfitta elettorale stia continuando a dare i suoi frutti. La sua narrazione di uomo vittima di un uso politico della giustizia volto a toglierlo di mezzo per permettere al solito establishment di governare sta continuando ad infiammare gli animi con la conseguenza che parte dell’opinione pubblica americana prende per vere le parole dell’ex presidente condividendone il rancore verso chi governa. Si è venuta così a creare una crisi di legittimità senza precedenti per cui ogni decisione politica o giudiziaria diversa da quelle auspicate da dai sostenitori dell’ex presidente devono essere considerate come prese per fermare Trump e dunque per scardinare la democrazia a favore dei soliti potenti. E di conseguenza, ogni decisione invisa ai trumpiani potrebbe scatenare ondate di violenza e ribellione come accaduto il 6 gennaio con l’assalto al campidoglio e come ha rischiato di avvenire settimana scorsa dopo le perquisizioni a casa di Trump.

Nel libro “How Civil Wars start” la politologa Barbara F. Walter sostiene che a scatenare le guerre civili tendono ad essere gruppi sociali precedentemente dominanti non più soddisfatti dello stato delle cose che, per ritornare allo status quo precedente, fomentano disordini e violenze istigando gli altri a fare lo stesso. Una definizione che sembra calzare a pennello per tutti quei movimenti estremisti legittimati da Donald Trump durante il suo mandato ed ora ritornati ai margini della società democratica. Le milizie paramilitari di estrema destra, infatti, dopo aver vissuto anni di centralità grazie alla presidenza di The Donald ora sono relegati a un ruolo marginale, osteggiati da istituzioni e forze dell’ordine. Il loro legame con l’ex presidente, che per tutto il suo mandato li ha coccolati e alimentati, sembra indissolubile e gruppi come gli “Oath Keepers” o i “Proud Boy” sembrano adesso disposti a tutto per sostenere la sua causa. La loro causa.

A ciò si aggiunge la stagione caotica in cui si trovano gli Stati Uniti stretti tra vendette incrociate, scollamento tra gli stati con quelli a guida repubblicana che rivendicano il diritto di disubbidire alle disposizioni federali o, addirittura, minacciano la secessione, come hanno appena fatto 13 deputati trumpiani del New Hampshire. Una situazione la cui gravità è stata sottolineata anche in una recente intervista da Noam Chomsky, linguista e più importanti attivista politico statunitense, secondo cui i repubblicani fedeli a Trump avrebbero sfruttato le spaccature sociali e culturali per alimentare una guerra alla democrazia che possa permettere al partito Repubblicano di controllare le prossime elezioni. Si tratta della teoria dello “Slow Motion Coup”, letteralmente “colpo di stato al rallentatore”, sempre più diffusa tra studiosi e intellettuali americani e che sostiene che Trump e i suoi sostenitori stiano già lavorando nell’ombra per tornare al potere nel 2024. Le prove a sostegno di questa tesi sono molte: diversi candidati repubblicani, che ancora negano la sconfitta elettorale di Trump, sono ora in corsa per aggiudicarsi posizioni chiave dalle quali inclinare a proprio piacere l’ago della bilancia nelle prossime elezioni. Non solo: nell’ultimo anno sono stati almeno 19 gli Stati americani a guida repubblicana a varare provvedimenti restrittivi volti a limitare il diritto di voto: ad esempio riducendo le tempistiche per richiedere il voto per corrispondenza o rendendo più complicato l’accesso ai seggi. A fare le spese, sebbene nessun provvedimento legislativo citi direttamente alcuna categoria, sono sicuramente le minoranze razziali, i poveri e gli anziani, così come denunciato dallo stesso presidente Biden.

Gli stati uniti sembrano dunque sempre più sull’orlo di una crisi sociale e politica che potrebbe tramutarsi, nello scenario peggiore, in una vera e propria guerra civile armata fomentata dalle milizie paramilitari di estrema destra. Milizie che ad oggi sarebbero già pronte all’azione, come dimostra la rapida mobilitazione a sostegno di Trump la settimana scorsa, ma che fino ad ora sembrano essersi trattenute in attesa forse di un segnale. Visto come andò con l’assalto al campidoglio il 6 gennaio 2021, però, la domanda sorge spontanea: Cosa accadrebbe se fosse lo stesso Trump a chiedere di iniziare a combattere?

Come Trump sta ostacolando la transizione pacifica verso una nuova presidenza

Oltre a non aver ammesso la vittoria dell’avversario, Trump sta in tutti i modi cercando di ostacolare il percorso di Biden verso la Casa Bianca. Fino a quando il nuovo presidente non sarà riconosciuto non potrà collaborare con l’amministrazione uscente con gravi ricadute sul futuro e sulla stabilità degli USA.

Il concession speech non è una legge ma una tradizione tutta americana. Il momento in cui lo sconfitto ammette di aver perso e ferma gli uomini che lo sostengono, avviando la transizione del potere. Una tradizione nata più di 120 anni fa quando William Jennings Bryant inviò un cortese telegramma al neo-presidente William McKinley, due giorni dopo le presidenziali del 1896: “Il senatore Jones mi ha appena informato che il risultato indica la Sua elezione e mi affretto a porgervi le mie congratulazioni. Abbiamo sottoposto la cosa al popolo americano e il suo volere è legge”. Quella tradizione, però, quest’anno non è stata rispettata.

Dopo la vittoria di Biden, infatti Trump non ha mai fatto un passo indietro insistendo sulla teoria delle elezioni truccate e vinte dal suo sfidante solo grazie brogli elettorali. La cosa più vicina ad un concession speech è stata un tweet in cui affermava che Biden “ha vinto perché il voto è stato truccato” salvo poi puntualizzare con un secondo post in cui ha voluto ribadire la sua posizione: “ha vinto solo per i media delle Fake News. Non concederò nulla. Abbiamo una lunga strada davanti. Questa è stata un’elezione truccata. Noi vinceremo!”. Ma l’ostinazione con cui Trump, sempre più isolato, sta portando avanti la sua verità non si riflette solo in uscite pubbliche in cui grida alla frode. Dal giorno in cui Biden è stato eletto, infatti, il presidente uscente ha iniziato a muoversi per intralciare il suo insediamento e mettere in difficoltà il proprio successore.

In questi giorni Donald Trump non solo sta facendo piazza pulita rimuovendo funzionari scomodi come il capo del Pentagono Mark Esper o il responsabile della sicurezza informatica Chris Krebs, ma si sta rifiutando di collaborare con Biden per garantire una transizione il più possibile pacifica. Da tradizione americana, infatti, durante le 9 settimane che separano il voto dal giorno dell’insediamento (storicamente il 20 gennaio) l’amministrazione uscente collabora con il nuovo presidente aggiornandolo sullo stato della nazione e sulle principali sfide che dovrà ereditare. Una tradizione tutta americana, come il concession speech, necessaria affinché il nuovo leader possa preparare al meglio il suo insediamento ed essere subito in grado di affrontare i problemi degli Stati Uniti. Nel 2016, ad esempio, il neoeletto Trump organizzò un team composto da 328 persone che collaborarono con 42 agenzie federali. Obama nel 2008 ne assunse 349 per avere contezza del lavoro di 62 agenzie. Anche su questo fronte, però, nessuna apertura è arrivata da Donald Trump che ha anzi impedito a Biden di organizzare persino i consueti incontri con l’apparato amministrativo e con l’intelligence. Nessun aggiornamento sulla diffusione del coronavirus, nessun invito a partecipare ai briefing governativi anti covid-19 né a quelli sulla sicurezza nazionale, nessuna possibilità per lo staff di Biden di collaborare con agenzie governative.

La chiusura totale di Trump sta costringendo il prossimo presidente degli Stati Uniti a correre ai ripari organizzando soluzioni “fai da te”. Martedì si è riunito con una task force di esperti, scelti appositamente tra chi non ha alcun legame con la Casa Bianca, formata appositamente per analizzare la situazione attuale e studiare le risposte da mettere in campo dal 20 gennaio in poi. Una task force che, per quanto composta da esperti nei vari settori, può avere uno sguardo solamente parziale non avendo accesso a molte delle informazioni di cui dispone la Casa Bianca. Si pensi ad esempio alle informazioni riservate relative alla sicurezza nazionale o alle proiezioni sullo sviluppo pandemico o su un eventuale vaccino. Tutto ciò che non è pubblico e conosciuto Biden potrà scoprirlo solo il 20 gennaio al momento del giuramento. Per quel che riguarda il covid-19 e la possibile diffusione di un vaccino, poi, la mancata condivisione di informazioni potrebbe avere effetti catastrofici. Ad oggi Biden e il suo staff non hanno idea di come sotto l’amministrazione Trump il Dipartimento della Salute e il Pentagono stiano lavorando per la diffusione del vaccino ed ereditare una situazione già avviata senza conoscerla potrebbe portare a ritardi o blocchi con effetti devastanti. A testimoniare la pericolosità della situazione, i vertici dell’American Hospital Association, dell’American Medical Association e dell’American Nurses Association hanno rilasciato martedì una dichiarazione congiunta esortando l’amministrazione Trump a condividere “tutte le informazioni critiche relative a COVID-19” con Biden.

Oltre agli evidenti disagi che ciò comporta per l’insediamento di Biden, il Center for Presidential Transition ha evidenziato come ciò inciderà in maniera pesante sulle nomine che il neopresidente sarà chiamato a fare una volta alla Casa Bianca. L’ente indipendente incaricato di vigilare sulle transizioni presidenziali ha infatti sottolineato come il mancato riconoscimento di Biden come vincitore e la conseguente totale mancanza di collaborazione allungherà i tempi di nomine strategiche “indebolendo così la capacità del governo di proteggere la nazione e gestire la diffusione del vaccino”. Se Biden ha infatti già indicato i nomi a cui intende affidare alcuni incarichi sensibili, fino a quando non ci sarà un riconoscimento ufficiale non potranno essere compiute le procedure di verifica sull’idoneità della nomina. Mentre i suoi predecessori sono riusciti a nominare gli oltre 1.200 funzionari entro i primi 100 giorni di governo, per Biden sarà un’impresa pressoché impossibile che rischia di lasciare a lungo scoperte alcune posizioni particolarmente sensibili allungando i tempi per una piena attivazione della macchina amministrativa americana ed esponendo il paese a rischi maggiori in una situazione già complicata.

Fino a quando la General Services Administration, guidata da fedelissimi di Trump, non certificherà la vittoria di Biden non ci sarà dunque alcuna collaborazione tra i funzionari dell’amministrazione attuale e il team del prossimo presidente statunitense. Ma mentre molti repubblicani iniziano a schierarsi contro il presidente che grida al complotto, Trump continua a non voler ammettere la sconfitta rilanciando la teoria dei brogli elettorali in quella che appare come la transizione più tesa della storia americana.

Gli scenari possibili dopo la positività di Donald Trump

Che voto mi darei per la gestione del coronavirus da zero a dieci? Dieci
-Donald Trump-


Come una meteora il covid-19 ha fatto il suo ingresso, dirompente e inaspettato, nella campagna elettorale americana a un mese esatto dal voto del 4 novembre. Come in un crudele contrappasso il virus ha colpito chi più di tutti in questi mesi ha cercato di sminuirlo e negarne l’esistenza rifiutandosi categoricamente di indossare la mascherina e rispettare le linee guida dell’OMS. Ora, con Trump risultato positivo al coronavirus, un clima di incertezza e timori aleggia sulla Casa Bianca e sulle prossime elezioni presidenziali.

La situazione – La positività di Donald Trump e della moglie Melania è stata scoperta e resa nota nella giornata di venerdì. I coniugi sarebbero stati contagiati da Hope Hicks, 31enne ex modella e tra le più strette collaboratrici del Presidente risultata positiva mercoledì, che ha accompagnato Trump e la moglie a Cleveland per il faccia a faccia con Joe Biden. Dopo una manciata di ore in cui la Casa Bianca ha cercato di rassicurare circa le condizioni di salute del presidente, che è stato isolato ma definito “stabile e in buone condizioni”, la situazione si sarebbe aggravata con l’acuirsi di sintomi tra cui tosse, febbre e affaticamento. Da qui la decisione di un ricovero precauzionale e il trasferimento di Trump al Walter Reed National Military Medical Center.

Trump ha 74 anni, è in sovrappeso, ha problemi di colesterolo e ha avuto in passato problemi cardiaci: è dunque un soggetto estremamente a rischio in caso di aggravarsi delle sue condizioni. Una situazione che, ad un mese esatto dalle elezioni, apre il campo a una serie di scenari fino a qualche giorno fa inimmaginabili.

Scenario I: Presidente pro tempore – Attualmente Donald Trump non ha rinunciato ai propri incarichi presidenziali. Nonostante la presenza di sintomi, infatti, il Presidente riesce ancora a svolgere le sue funzioni e non ha intenzione di delegare la guida del paese. Ricoverato nella suite presidenziale dell’ospedale militare, Trump avrà a disposizione un ufficio personale ed una serie di uffici per i suoi collaboratori per garantirgli la possibilità di continuare a governare anche durante il ricovero. Ma se le condizioni dovessero aggravarsi “The Donald” potrebbe essere costretto a cedere lo scettro al suo vicepresidente Mike Pence. In base al XXV emendamento alla costituzione degli Stati Uniti, infatti, “in caso di destituzione del Presidente, o in caso di decesso, o dimissioni, o di impedimento ad adempiere alle funzioni e ai doveri inerenti la sua carica, questa sarà affidata al Vicepresidente”. Un’ipotesi che, fino ad ora, si è verificato solamente in altre tre occasioni: il 13 luglio del 1985, quando Ronald Reagan subì un’operazione per rimuovere il principio di un tumore, e due volte durante la presidenza di George W. Bush, quando l’allora presidente si sottopose ad altrettanti esami di colonscopia subendo un’anestesia. Dopo Mike Pence, qualora anche lui dovesse essere impossibilitato, sulla linea di successione si trovano la speaker della camera Nancy Pelosi e lo speaker del senato Chuck Grassley. Mai però fino ad oggi la carica di presidente pro tempore è stata ricoperta da un soggetto diverso dal vicepresidente.

Il passaggio dei poteri può avvenire tramite una lettera formale firmata dallo stesso presidente in cui afferma di non essere in grado di svolgere il proprio ruolo e di volerlo per questo cedere per il tempo necessario a ristabilirsi. In caso di problema improvviso che impedisca al presidente di siglare la lettera, come può essere un aggravarsi delle condizioni di salute di Trump, il congresso ha la facoltà di destituire momentaneamente il presidente e conferire l’incarico al suo vice o al primo sulla linea di successione in grado di governare. Per quanto molto difficile, quello descritto è tutt’altro che uno scenario improbabile. Con le condizioni di Trump un aggravarsi del suo stato di salute non è infatti così impensabile ed un eventuale peggioramento potrebbe convincerlo a lasciare momentaneamente la presidenza. Proprio per questo motivo Pence, la Pelosi e Grassley sarebbero già stati allertati e, per proteggerli da un eventuale contagio, sarebbe anche stato chiesto a tutti e tre di evitare ogni tipo di contatto con lo staff del presidente.

Scenario II: cambio candidato – Ma se un momentaneo cambio alla guida del paese non è da escludere più difficile sembra l’ipotesi di un cambio di candidato da parte del Partito repubblicano in vista delle elezioni presidenziali. Secondo il regolamento del partito, infatti, il candidato può essere sostituito in caso di morte o di grave impedimento attraverso un processo identico a quello che ne aveva portato alla nomina. Qualora decidesse di cambiare il proprio candidato, insomma, il partito sarebbe chiamato ad organizzare una nuova convention nelle prossime settimane. Una convention che, se si rendesse necessaria, si svolgerebbe a distanza e che si risolverebbe molto probabilmente con una decisione unanime dei dirigenti del partito per candidare l’attuale vicepresidente, e ricandidato allo stesso ruolo, Mike Pence.

Ovviamente un eventuale cambio di nomination avrebbe ripercussioni pesanti sul partito repubblicano e per questo rimarrebbe l’ultima spiaggia da adottare solamente in casi estremi.

Scenario III: rinvio – Più probabile di un cambio in corsa, ma comunque meno probabile del regolare svolgimento della tornata elettorale, sembra essere la possibilità di rinviare di qualche tempo le elezioni per permettere a Trump di riprendersi completamente. La decisione in questo caso spetterebbe al congresso che attraverso una legge federale approvata da entrambe le camere e promulgata da Trump potrebbe fissare una nuova data per l’elezione del presidente. Ma le possibilità di uno scenario del genere sembrano essere comunque poche.


Da un lato è difficile che si possa compiere l’iter per l’approvazione della legge, con la doppia approvazione di due camere con maggioranze diverse e la firma del presidente, in meno di un mese. Dall’altro vi sono delle tempistiche stabilite dalla costituzione di cui tener conto: il mandato presidenziale scade tassativamente il 20 gennaio alle ore 12 ed oltre quella data un presidente non può restare in carica. Un congresso, insomma, non può rinviare le elezioni a data da destinarsi ma potrebbe posticiparle al massimo di qualche settimana in modo da permettere ai grandi elettori di riunirsi a dicembre ed ufficializzare il nome del nuovo presidente almeno un mese prima del 20 gennaio. Un altro nodo da sciogliere in caso di rivio delle elezioni sarebbe quello relativo ai voti già espressi. In molti stati, infatti, gli elettori hanno già espresso la loro volontà fisicamente o per posta e in caso di rinvio della tornata elettorale si porrebbe anche il problema di come valutare i voti già espressi e considerare la possibilità di far rivotare anche negli stati in cui le urne sono già aperte.

Scenario IV: tutto normale – Lo scenario più realistico, comunque, rimane quello in cui tutto si svolge come previsto. Senza un significativo aggravarsi significativo delle condizioni di Trump le elezioni si svolgeranno normalmente il 4 novembre prossimo, senza bisogno di rinvii o di nuove nomine. A risentirne sarebbero in quel caso solamente le campagne elettorali mentre rimane altamente improbabile, infatti, è l’ipotesi di rivedere un faccia a faccia dal vivo tra Biden e Trump prima del voto. Il prossimo dibattito si sarebbe infatti dovuto tenere il 15 ottobre prossimo quando Trump sarà nel migliore dei casi, ancora in quarantena anche in assenza di sintomi. Spetterà al comitato indipendente che gestisce i confronti decidere si annullarlo rimandarlo o trasformarlo in uno scontro tra candidati vicepresidenti. Intanto, in segno di rispetto, Biden ha fatto ritirare tutti gli spot elettorali in cui si attaccava Trump mantenendo solamente quelli in cui viene promosso il programma del candidato democratico. Un favore che lo staff di Trump ha deciso di non ricambiare rifiutandosi di ritirare gli spot anti-Biden.

Scenario extra: il complotto – Immancabile ed attesissima con la notizia della positività di Donald Trump è arrivata anche l’ennesima teoria del complotto. Ma quale Covid-19, Trump starebbe benissimo e avrebbe deciso di fingersi malato approfittando della positività della sua collaboratrice. Dopo il confronto con Biden, in cui ha faticato e perso voti, il presidente avrebbe infatti pensato di fingersi malato per evitare i prossimi dibattiti che avrebbero potuto consacrare il suo sfidante. Tra due settimane, poi, a ridosso dalle elezioni, ricomparirà davanti agli americani completamente guarito e potrà utilizzare la sua malattia per rilanciare la sua campagna e distogliere l’attenzione dallo scoop del NY Times sulle tasse non pagate. Dalla guarigione alle elezioni, poi, spiegherà a tutti gli americani di come il loro presidente sia stato salvato proprio grazie a quell’idroxiclorochina che da tempo spaccia per cura efficacie contro il virus a dispetto dell’intera comunità scientifica. Statunitensi in visibilio, credibilità di nuovo alle stelle e rielezione sicura. Ma si tratta di fantascienza. Anche se con Trump tutto sembra possibile.

The Room Where It Happened: Il libro che fa tremare Trump

L’ex Consigliere alla Sicurezza Nazionale John Bolton è pronto a rivelare con il suo libro alcuni dei retroscena più gravi ed imbarazzanti dei 17 mesi passati al fianco di Donald Trump. La casa Bianca si affretta per provare a bloccarne la pubblicazione ma diversi passaggi sono già trapelati.

577 pagine di rivelazioni esplosive. Il primo “j’accuse” a Trump da parte di un alto esponente dell’amministrazione americana. Parole che pesano come pietre a 5 mesi dalle elezioni presidenziali. John Bolton sarebbe pronto a pubblicare “The Room Where It Happened”, il libro in cui racconta i retroscena vissuti durante i suoi 17 mesi da Consigliere alla sicurezza Nazionale del presidente Donald Trump. La sua uscita in libreria è prevista per martedì prossimo, 23 giugno, ed è già al primo posto nelle classiche sugli ordini di vendita online di Amazon. E mentre monta il clamore per un libro che potrebbe travolgere Trump, la Casa Bianca prova a correre ai ripari. Il Dipartimento della Giustizia sarebbe al lavoro nel tentativo di impedire la pubblicazione ed avrebbe già presentato un’ingiunzione contro la “Simon & Schuster” sostenendo che nel testo siano rivelate informazioni confidenziali e top secret che potrebbero mettere a rischio la sicurezza degli americani. Ma mentre la Casa Bianca corre contro il tempo, i libri sono già arrivati alle librerie in vista di quello che potrebbe diventare “il martedì nero” di Donald Trump. E, come se non bastasse, diversi estratti sono già trapelati.

Cina – La rivelazione più scioccante, tra quelle in possesso della stampa statunitense, riguarda il rapporto tra Donald Trump e il presidente cinese Xi Jinping. Dietro la guerra commerciale tra USA e Cina ci sarebbe infatti ben altro e i fatti sembrano non rispecchiare la linea politica di Trump. Secondo quanto riportato da Bolton, durante il G20 di Osaka di un anno fa il presidente americano avrebbe a lungo discusso con il suo omologo cinese chiedendo aiuto a Xi per aumentare le proprie possibilità di rielezione nel 2020. In particolare Trump avrebbe chiesto al presidente cinese, sulla carta un nemico politico e commerciale, di prevedere un sostanzioso investimento per acquistare prodotti agricoli americani in stati considerati strategici in vista delle presidenziali di novembre. Per tentare di rimanere al potere, il presidente americano, si è mostrato aperto ad ogni genere di distensione dei rapporti con la Cina arrivando a promettere un alleggerimento delle sanzioni alla “ZTE” il colosso delle comunicazioni cinese finito al centro di inchieste federali.

Se da un lato, dalle prime indiscrezioni, non si sa se le affermazioni di Bolton siano fondate e dimostrabili, dall’altro l’analisi di quel che è accaduto dopo quel G20 sembra confermare le sue dichiarazioni. Pochi mesi dopo, in autunno, la guerra commerciale tra le due potenze si è affievolita grazie ad un accordo tra i due governi per l’acquisto da parte della Cina di prodotti agricoli statunitensi per un totale di 40-50 milioni annui. Un accordo che seguì alla decisione del Dipartimento di Giustizia di lasciar cadere le accuse e interrompere il divieto di acquisto di prodotti americani da parte della ZTE in cambio del pagamento di una multa di 1 miliardo di dollari.

Impeachment – Altro tema scottante toccato nel libro è quello relativo al processo al presidente Trump celebrato ad inizio anno in Senato. Bolton sembra infatti offrire prove concrete e dirette del fatto che Trump abbia negato l’elargizione di aiuti all’Ucraina se non in cambio di un’indagine su Biden. Si tratta di fatto del cuore dell’accusa di impeachment mossa dai democratici contro il presidente, assolto poi in Senato. Bolton afferma che lui e il segretario di Stato Mike Pompeo e il segretario alla Difesa Mark T. Esper hanno più e più volte provato a convincere il presidente a sbloccare gli aiuti militari all’Ucraina che ne aveva un disperato bisogno per resistere alla pressione della Russia. Trump, sostenitore di teorie complottiste secondo cui il paese avrebbe tentato di fargli perdere le elezioni del 2016, avrebbe letteralmente detto ai suoi consiglieri di non essere “per un cazzo interessato ad aiutarli” almeno fino a quando “tutti i materiali di indagine della Russia relativi a Clinton e Biden non fossero stati consegnati”.

Accuse pesanti che riportano al centro del dibattito pubblico e politico l’impeachment contro il presidente. Se infatti la tesi di Bolton fosse vera dimostrerebbe che Trump ha di fatto utilizzato i soldi dei contribuenti americani come leva per ottenere aiuti personali da un paese straniero. Verrebbe dunque confermata la tesi sostenuta dalla Camera secondo cui si sarebbe verificato un vero e proprio abuso di potere tanto anche se poi il Senato, a maggioranza repubblicana, ha smontato le accuse.

Ignoranza – Dai tanti episodi trapelati emerge in modo chiaro una profonda e malcelata ignoranza del più potente uomo al mondo. Nel 2018, ad esempio, durante un incontro con l’allora primo ministro britannico Theresa May, Trump si era mostrato sorpreso nell’apprendere che il Regno Unito fosse una potenza nucleare. “Ah voi avete il nucleare?” avrebbe chiesto, in tono “tutt’altro che ironico”, il presidente alla May dimostrando di fatto di non essere a conoscenza del fatto che uno dei principali alleati degli Stati Uniti sia stato il terzo paese al mondo dopo USA e Unione Sovietica a testare dispositivi nucleari nel 1952. Non proprio una gaffe da poco che, probabilmente, si sarebbe potuto evitare facilmente. Come era riuscito per un soffio ad evitare un’altra brutta figura durante un incontro con il presidente Putin ad Helsinki. Secondo quanto riportato nel libro, infatti, poco prima dell’inizio del vertice, Trump avrebbe chiesto ai suoi consiglieri spiegazioni sul ruolo della Finlandia sostenendo che fosse “una sorta di paese satellite della Russia”. La lezione di geografia da parte dei suoi consiglieri, che si sono affrettati a chiarire che si tratta di un paese sovrano pienamente indipendente, ha evitato il peggio.

Consiglieri che hanno evitato, oltre a figuracce, anche scenari ben peggiori. Dopo aver etichettato Maduro come dittatore ed essersi schierato apertamente con Guaidò, Trump avrebbe ventilato l’ipotesi di un operazione militare in Venezuela. Stando a quanto riporta Bolton, il presidente americano durante un vertice alla Casa Bianca avrebbe detto che sarebbe stato “figo invadere il Venezuela” che tanto “è parte degli Stati Uniti d’America”. Oltre all’ennesimo strafalcione geografico, in questo caso, i suoi funzionari hanno dovuto rimediare anche alla semplicità con cui Trump sarebbe voluto entrare in guerra con il paese sudamericano.

Bolton – L’ex Consigliere alla sicurezza Nazionale non solo è una figura di spicco nella storia americana ma è anche spesso al centro di bufere e polemiche. Ex esponente delle amministrazioni Reagan, Bush senior e George W. Bush ha posizioni spesso estreme soprattutto in fatto di politica estera tra cui spicca la sua strenua difesa della guerra in Iraq e le proposte di interventi armati in Iran e Corea del Nord. La recensione del New York Times sul libro non fa sconti a Bolton. Definisce il racconto di Bolton come pieno di dettagli di scarso rilievo, ossessionato da nemici, auto-celebrativo. Nell’insieme a tratti noioso e a tratti con segni di squilibrio. Non per questo, però, appare oggi meno significativo nella battaglia sul futuro della presidenza Trump.