Nell’aula di tribunale di Tecalitlan in cui si celebra il processo ai tre poliziotti accusati della loro “sparizione forzata” emergono dettagli inquietanti sulla fine di Antonio Russo, Raffaele Russo e Vincenzo Cammino, spariti nel nulla il 31 gennaio 2018 e mai ritrovati.
Una poliziotta esce dall’aula di tribunale in cui sta per essere pronunciata una sentenza di condanna a suo carico, sale su una macchina e fugge. È Linda Guadalupe Arroyo, la poliziotta imputata insieme con i colleghi Salomon Adrian Ramos Silva ed Emilio Martines Garcia per la “sparizione forzata” dei tre italiani, di cui si sono perse le tracce in Messico il 31 gennaio 2018. La donna ora è ricercata, visto che la legislazione messicana non prevede la condanna in contumacia, mentre per gli altri due è arrivata la condanna.
È solo l’ultimo di una serie di colpi di scena che hanno fatto emergere quanto accaduto ai tre italiani spariti nel nulla due anni fa. Raffaele Russo, Antonio Russo e Vincenzo Cimmino si trovavano nel paese centroamericano per vendere generatori elettrici di fabbricazione cinese e di scarso valore quando sono spariti nel nulla. Proprio la vendita di quei generatori sarebbe stata all’origine della sparizione ordinata da Jose Guadalupe Rodriguez Castillo, detto “don Lupe”, boss del cartello “Jalisco Nueva Generation”. Sentendosi truffato dai tre italiani, don Lupe avrebbe commissionato ai tre poliziotti il rapimento dei tre italiani dietro un compenso di 43 euro a testa. Fingendo un fermo di polizia Arroyo, Silva e Garcia avrebbero così fatto Raffaele Russo mentre si trovava in auto per raggiungere un appuntamento di lavoro e qualche ora dopo Antonio Russo e Vincenzo Cimmino che, insospettiti dall’assenza di notizie, avevano iniziato a cercarlo. Consegnati al cartello di Jalisco, uno dei cartelli di narcotrafficanti più potenti del Messico, i tre sarebbero stati uccisi su ordine di don Lupe e i loro corpi fatti sparire per non essere mai più ritrovati.
Si giunge così ad una prima, parziale, verità su quanto accadde ad inizio 2018 in Messico. Oltre ai due agenti condannati nei giorni scorsi, le cui pene saranno rese note a breve, e alla donna fuggita ed in attesa di giudizio per l’impossibilità di una condanna in contumacia, per la sparizione forzata dei tre italiani era stato arrestato un quarto agente che è però deceduto in carcere in circostanze da chiarire pochi mesi prima dell’inizio del processo. Incriminati, ma mai arrestati perché avevano già fatto perdere le proprie tracce, altri tre agenti in servizio quel giorno tra cui il capo della stazione di polizia di Jalisco. Proprio li, infatti, secondo le prime ricostruzioni, sarebbero stati portati i tre dopo il loro finto arresto e in attesa della consegna agli uomini del cartello. Nel frattempo gli uomini del cartello di Jalisco hanno annunciato la morte di don Lupe in uno scontro a fuoco con un cartello rivale. Difficile, però, pensare che sia realmente morto e non si tratti di una strategia per far calare l’attenzione delle forz dell’ordine su di lui.
Sono femminista nel senso di voler ridare alle donne la dignità umana -Rita Levi Montalcini-
Nelle scorse settimane i media di tutta Europa hanno mostrato le immagini delle donne polacche intente a difendere i loro diritti. Ma mentre il mondo guardava alla portata rivoluzionaria della protesta femminista contro il presidente Andrzej Duda, in un altro paese la rivolta femminista è scoppiata in modo dirompente senza lasciar traccia nelle cronache internazionali. In Messico, infatti, le donne sono tornate in piazza per protestare contro una situazione sempre più drammatica che ha visto il tasso di femminicidi nel paese crescere del 245% negli ultimi cinque anni.
Femminicidi – Per molti l’elezione di Andres Manuel Lopez Obrador a presidente del Messico, avvenuta nel 2018 con il 53% dei voti, avrebbe dovuto rappresentare un momento di rottura in grado di riportare il paese ad una condizione civile. Le speranze sul nuovo leader salito al potere con una coalizione di sinistra erano molte e molte donne messicane speravano in una stretta del nuovo governo per fermare l’escalation di violenza di genere che negli anni precedenti aveva insanguinato il paese. Tra il 2015 e il 2017, infatti, i numeri dei femminicidi in Messico erano cresciuti in modo costante ed esponenziale passando da 426 ai 765 registrati nell’anno precedente alle elezioni. Un paese macchiato del sangue delle proprie donne aveva così scelto Obrador per tentare di porre fine ad una strage continua.
Le speranze delle donne messicane, però, sono state deluse. Negli ultimi anni la violenza di genere non si è mai fermata raggiungendo anzi livelli mai visti prima. Già dal primo anno di presidenza di AMLO, come viene chiamato dai suoi sostenitori il presidente, è risultato evidente come il problema dei femminicidi non fosse tra le priorità del nuovo governo. Nel 2018 i femminicidi nel paese sono cresciuti di quasi il 20% con 912 donne uccise per questioni di genere. Un incremento costante che non si è arrestato nemmeno l’anno successivo quando per la prima volta si sono addirittura superate le mille vittime in dodici mesi con 1006 donne uccise tra il gennaio e il dicembre 2019. Ma se quelli degli scorsi anni possono sembrare dati spaventosi, quello di quest’anno è ancor più inquietante. Si stima che nei primi 10 mesi del 2020 in Messico siano state quasi tremila le donne uccise di cui almeno 1472 vittime di femminicidio.
Un aumento rispetto all’anno precedente di circa il 46% dovuto in gran parte alle restrizioni dovute all’emergenza sanitaria. Durante il lockdown disposto dal governo ad aprile, infatti, si sono moltiplicati gli episodi di violenza domestica che spesso sono sfociati in tragici epiloghi. Nel solo mese di aprile sono state oltre 21 mila le chiamate ai numeri di emergenza per violenze contro le donne e in molti casi l’intervento delle forze dell’ordine è risultato tardivo.
AMLO – E mentre il paese sprofonda in una spirale di violenze contro le donne, la speranza delle femministe messicane in un intervento di Obrador è definitivamente sparita. Il presidente ha infatti deluso ogni aspettativa su questo tema ignorandolo di fatto per i primi due anni del suo mandato e bollandolo come non urgente in questo 2020. Nei mesi scorsi, infatti, diverse uscite pubbliche di AMLO hanno fatto infuriare le attiviste messicane che hanno riscontrato un totale disinteresse sul tema anche da parte di un governo che si dichiara di sinistra e che le aveva illuse di poter portare un cambiamento. A marzo, dopo che quattro femminicidi in pochi giorni avevano di nuovo portato il problema al centro delle cronache, Obrador aveva bollato lo sciopero nazionale indetto dai gruppi femministi per il 9 marzo come un “complotto dei conservatori contro il mio governo” per distogliere l’attenzione dai problemi più importanti. In altre dichiarazioni, poi, ha sempre minimizzato il problema dando la colpa dell’impennata di femminicidi alle “politiche neoliberiste dei governi precedenti”. Secondo il presidente, infatti, i movimenti femministi “si oppongono alla rinascita morale che stiamo promuovendo. Rispetto le loro opinioni ma non le condivido.” Sempre a marzo si era addirittura lamentato pubblicamente del fatto che le proteste femministe stessero mettendo in secondo piano la sua decisione di vendere l’aereo presidenziale per viaggiare su voli commerciali per risparmiare risorse pubbliche.
Proteste – Ed è proprio la cecità del governo di AMLO ad aver scatenato in questi giorni l’ennesima ondata di proteste. Dopo la “primavera femminista” che ha visto milioni di donne in tutto il paese scendere in piazza tra marzo ed aprile, le mobilitazioni sono ricominciate a settembre e da allora non si sono più fermate. Tra il 2 e il 6 settembre è andata in scena una delle proteste simbolicamente più potenti degli ultimi anni. Silvia Castillo e Marcela Aleman si sono recate negli uffici della Commissione per i diritti umani per chiedere giustizia per i loro casi: L’ assassinio del figlio per la prima, l’aggressione della figlia di quattro anni per la seconda. Al rifiuto delle autorità di ascoltarle le due donne hanno deciso di non andarsene ma di stare su una sedia ferme in attesa di una risposta. Da quel momento decine di donne e attiviste le hanno raggiunte con l’obiettivo di raccontare le loro vicende, appoggiare e sostenere le rivendicazioni delle altre madri ed esigere, in modo collettivo, che le loro denunce portino alla risoluzione dei tanti casi di violenza. Domenica 6 settembre, le organizzazioni femministe hanno annunciato di non aver ricevuto risposte né soluzioni ai reclami presentati, e da quel giorno hanno deciso occupare la sede della Commissione cambiando il nome dell’edificio in “Okupa Casa Refugio Ni Una Menos México”.
Ancora una volta, però, la loro azione simbolica non è servita a portare al centro dell’agenda politica il problema dei femminicidi e della violenza di genere. “Capisco la loro rabbia e penso sia una giusta rivendicazione” ha commentato Obrador “ma resto convinto che sia fomentata dall’opposizione conservatrice”. All’ennesima dimostrazione di disinteresse e cecità istituzionale le femministe messicane si sono mobilitate in tutto il paese occupando le sedi della stessa istituzione pubblica in Chiapas, Guerrero, Sinaloa, Chihuahua, e nello Stato di México da dove sono state sgomberate con la violenza l’11 settembre scorso. Una mobilitazione che però ancora non ha minato la convinzione di Obrador di essere nel giusto.
E mentre AMLO continua a sminuire il problema la scorsa settimana il corpo della ventenne Bianca “Alexis” Lorenzana è stato ritrovato, pochi giorni dopo la sua scomparsa, senza vita e fatto a pezzi. L’ennesimo femminicidio senza alcuna risposta istituzionale ha alimentato la rabbia e l’esasperazione delle femministe messicane che hanno indetto cortei e marce in tutto il paese. A Cancun migliaia di donne sono scese in piazza pacificamente gridando il loro dolore e la loro rabbia per l’inazione di Obrador. Il corteo si è snodato per le strade della città e una volta giunto davanti al municipio un centinaio di attiviste hanno cercato di forzare il cordone di polizia per irrompere nel palazzo. La reazione delle forze dell’ordine è stata feroce. Nel tentativo di respingere l’assalto e disperdere i manifestanti la polizia ha sparato diversi colpi sulla folla ferendo diverse manifestanti e almeno 4 giornalisti.
Eppure, nemmeno i colpi sparati a Cancun sono riusciti a fermare le donne messicane. Senza più pazienza ne paura la lotta femminista contro la scia di sangue che attraversa il paese continua. La battaglia intrapresa è ormai troppo grande per essere abbandonata. Perché non si può tollerare un paese in cui oltre 1400 donne muoiono ogni anno per il solo fatto di essere donne.
“Messico e nuvole la faccia triste dell’America il vento insiste con l’armonica, che voglia di piangere ho” – Enzo Jannacci-
Il Messico si appresta a vivere i momenti più drammatici dall’inizio dell’emergenza sanitaria. Con oltre 10.000 contagi, di cui oltre mille nella sola giornata di ieri, e quasi 1.000 vittime il paese sta infatti entrando nel pieno della crisi con prospettive di certo non rosee. “La diffusione del virus” ha detto nei giorni scorsi il ministro della salute Lopez “può essere così veloce da non consentire l’adattamento del sistema sanitario anche se stiamo attraversando il processo di riconversione”. Il governo centrale ha imposto, seguendo l’esempio del resto del mondo, condizioni severe disponendo la quarantena per i propri cittadini e sospendendo le attività non essenziali. Ma mentre l’intero paese si chiude in casa, c’è chi proprio ora esce allo scoperto: la criminalità organizzata.
Background – Il potere dei gruppi criminali messicani è cresciuto in maniera vertiginosa negli ultimi decenni del Novecento in modo parallelo alla crisi dei cartelli colombiani. Il declino dei principali concorrenti sulle rotte del narcotraffico ha infatti portato la criminalità messicana ad assumere un controllo quasi monopolistico dei flussi di cocaina verso gli Stati Uniti che ha generato un aumento non solo dei profitti ma anche e soprattutto del loro ruolo a livello internazionale. Se nei rapporti con l’esterno, questo potere ha portato a veri e propri accordi ed alleanze con i principali gruppi mafiosi sudamericani ed internazionali, ‘ndrangheta e Cosa nostra soprattutto, all’interno dei confini messicani ha prodotto profondi rapporti con la politica, l’economia, la società e la cultura messicana. Una penetrazione totale che ha interessato ogni ambito del tessuto sociale messicano tanto da indurre molti a reputare il Messico come un narco-stato.
Se fino agli anni ’90 si poteva individuare in messico la presenza di un solo gruppo criminale prevalente, il cartello di Gadalajara, negli ultimi 30 anni si è assistito ad un processo di frammentazione. Attualmente nel paese operano almeno 9 cartelli principali ma si contano almeno un centinaio di gruppi criminali minori legati in vario modo ai principali gruppi di narcos. La frammentazione ha inevitabilmente portato ad un graduale aumento del conflitto tra i vari cartelli con un sempre più frequente uso della violenza per affermare il proprio potere sul territorio.
Violenza – Ed è proprio il carattere violento di queste organizzazioni ad emergere con dirompente chiarezza in questo periodo di crisi. Il governo federale e i funzionari statali stanno infatti concentrando i propri sforzi e le proprie risorse nella lotta al coronavirus lasciando di fatto ampio argine di manovra ai gruppi criminali che si trovano ad operare in un cono d’ombra mediatico-istituzionale che gli permette di agire con maggior libertà. Una maggior libertà che si è trasformata ben presto in un riacutizzarsi dello scontro tra i cartelli nel tentativo di ridisegnare gli equilibri e la geografia criminale aggredendo, spesso militarmente, i gruppi rivali. Una strategia frutto della brusca interruzione dei traffici di droga, in forte calo a causa delle restrizioni, che ha portato i cartelli a concentrarsi maggiormente su obiettivi “politici” provocando nel solo mese di marzo 2.585 omicidi, il numero più alto dall’inizio della raccolta dei dati nel 1997.
Caso emblematico è quanto accaduto nello stato di Guanajuato dove, a metà mese, si sono verificati violenti scontri tra il cartello locale di Santa Rosa de Lima, indebolito dalla repressione statale, e il rivale Jalisco New Generation. L’intervento statale in contrasto ai furti di carburante dagli oleodotti che attraversano lo stato del Messico centrale ha infatti indebolito in maniera significativa il cartello di Santa Rosa spingendo il gruppo rivale ad approfittare dell’emergenza sanitaria per provare a infliggergli il colpo di grazia e mettere le mani su un territorio particolarmente ambito proprio per la presenza di importanti attività criminali legate al carburante. Un episodio che rappresenta solo la punta di un iceberg molto più profondo fato di scontri e faide che stanno insanguinando l’intero paese.
Ma l’aumento della violenza non si sta manifestando solo negli scontri tra cartelli. Nel computo degli omicidi rientrano anche, purtroppo, vittime innocenti. Da Isaac Medardo Herrara Avilés, storico rappresentante legale di alcune comunità dello stato di Morelos ucciso nella piazza principale di Jiutepec, alla giornalista Maria Elena Ferral, raggiunta da otto colpi di arma da fuoco a Papantla. Un messaggio chiaro e determinato da parte dei cartelli: chi lotta e denuncia violenza, corruzione e forme di antistato, oggi, deve guardarsi da un doppio nemico. Il virus e i cartelli.
Aiuti – Il carattere di anti stato, o di potere parallelo a quello ufficiale, sta in questo periodo di crisi diventando sempre più evidente. Sfruttando la disperazione della gente e l’incapacità del governo di fornire assistenza e aiuti alle fasce più deboli della popolazione, i gruppi criminali stanno correndo in soccorso dei più poveri nelle periferie messicane. Distribuiscono cibo, portano aiuti sanitari, fanno la spesa e garantiscono aiuti economici al posto di uno stato colpevolmente assente. A Ciudad de Victoria, nello stato di Tamaulipas, il cartello del Golfo ha inviato i suoi uomini a bordo di lussuosi camion e pickup per distribuire cibo e aiuti. Le foto, pubblicate sui social come forma di propaganda, mostrano persone felici e sollevate con scatole di cartone piene di cibo e la scritta “il Cartello del Golfo a sostegno di Ciudad di Victoria”. Una dimostrazione di solidarietà e vicinanza, come se ne stanno vedendo a centinaia in tutto il paese, con cui i cartelli puntano a rafforzare il loro potere e radicamento sul territorio. Distribuendo aiuti i gruppi criminali puntano ad ottenere la riconoscenza della popolazione e di conseguenza una lealtà diffusa ed un appoggio totale. Così, alla fine della pandemia, i cittadini di Citta di Victoria e tutti quelli aiutati dai cartelli, saranno pienamente disponibili ad aiutare, coprire o difendere quel potere che si è dimostrato così disponibile ad alleviare le loro sofferenze nel momento più buio.
L’assenza dello stato, dunque, nelle aree più colpite dalla crisi economica sono colmate dai cartelli e dalla loro praticamente infinita disponibilità di capitali. Solo tra la metà di marzo e l’inizio di aprile, si stima che in Messico sono stati persi 346.000 posti di lavoro a cui si aggiunge oltre mezzo milione di lavoratori in nero che non compariranno mai nelle statistiche. Una desolazione economica diffusa che permette ai cartelli di agire su una fetta di popolazione abbandonata dallo stato e che non ha alternative se non accettare gli aiuti criminali. “Sappiamo chi sono e di cosa sono capaci” ha commentato un cittadino di Guadalajara dopo aver ritirato un pacco di alimento consegnato dalla famiglia del “Chapo” Guzman “ma non abbiamo alternative. Sono la soluzione meno negativa”. Una frase che racchiude il senso della situazione messicana. I gruppi criminali sono il meno peggio. Con uno stato che non riesce ad aiutare gli ultimi, a farlo è la criminalità organizzata con conseguenze che potrebbero essere devastanti. Tra qualche mese, quando la crisi sarà finita e il Messico tornerà alla normalità lo Stato avrà perso la fiducia dei propri cittadini, più disposti ad assecondare le richieste di quei criminali che sono corsi in loro soccorso che di un governo che li ha abbandonati. E allora sarà dura pensare di iniziare a combattere sul serio i cartelli. Sarà dura pensare di riaffermare il potere statale dove ora c’è un vuoto disarmante che solo i narcos riescono a colmare.