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La lotta alla delocalizzazione: dai lavoratori in trincea a un governo immobile

“Con uno sciopero cerchi di scuotere il capo
che in effetti cosa fa se non scuotere il capo?”
-Caparezza-


Sono passati 70 giorni da quando GKN in una notte, con una mail, ha licenziato 422 lavoratori a Campi Bisenzio. Il motivo? La proprietà, facente capo al fondo inglese Melrose, vuole delocalizzare la produzione nell’Est Europa per risparmiare sui costi. Quello dei lavoratori della GKN, scesi in corteo ieri con lo slogan “insorgiamo”, è però solo l’ultimo caso di una tendenza sempre più consolidata nel nostro paese a spostare la produzione all’estero e licenziare i lavoratori.

Delocalizzazioni – La lotta dei lavoratori della GKN è diventata così il simbolo di una lotta che coinvolge migliaia di lavoratori. Perché, spiegano i lavoratori, si tratta di una delocalizzazione “pura”. Una delocalizzazione che non arriva come reazione ad un periodo di crisi ma è giustificata solo dalla volontà di massimizzare i profitti da parte della proprietà. Perché alla GKN non c’è stato alcun segno di crisi prima dell’annuncio dei licenziamenti e le perdite del 2020 sembravano riparate con il +7% nei bilanci del primo trimestre 2021 e un +14% nel bilancio di previsione. Una modalità che sembra però essere sempre più diffusa per quelle realtà gestite da fondi speculativi che antepongono a tutto il profitto. Da ultima è stata la Riello ad annunciare il licenziamento di 71 lavoratori dallo stabilimento di Villanova di Cepa per spostare la produzione verso l’Est Europa alla ricerca di costi più bassi e maggiori profitti. Non a caso in “undici pagine di procedura di licenziamento non si legge mai la parola ‘crisi’. Mai”, ha sottolineato Alessandra Tersignidella della Fiom di Pescara dopo l’annuncio dei licenziamenti. Una crisi che, in effetti, non sembra esserci nemmeno per l’azienda controllata dal colosso statunitense Carrier Group tanto da aver chiuso il 2020 con un utile di 19 milioni di euro.

Situazioni che si aggiungono alle crisi già sedimentate. Dai 400 lavoratori della Embraco ai 110 della Bekaert passando per la vertenza Whirlpool, con 300 dipendenti in lotta da tre anni, e l’agonia di un comparto siderurgico che arranca in tutta Italia da Piombino a Taranto, dove nella ex ILVA ci si prepara alla cassa integrazione per altri 4.000 lavoratori.

Decreto – Una situazione sconcertante che aveva portato addirittura nelle scorse settimane alla mobilitazione di oltre cento sindaci scesi in piazza, con in testa il primo cittadino di Firenze, per chiedere al governo provvedimenti urgenti contro le delocalizzazioni. Da Roma, in realtà, qualcosa si era mosso. A fine agosto sul tavolo del Consiglio dei Ministri era arrivata la bozza di un decreto anti-delocalizzazioni elaborato sull’onda delle proteste dei lavoratori della GKN. Il riferimento giuridico di ispirazione è sembrato essere la Loi Florange, emanata da Hollande in Francia nel 2014 in piene elezioni per il caso di ArcelorMittal, che però ha avuto poco impatto nella volontà di delocalizzare di un’azienda. A ciò si aggiungono gli emendamenti presentati dai partiti che hanno ammorbidito le misure iniziali fino a rendere il testo quasi inutile. La multa del 2% sul fatturato per chi non vende è sparita dal decreto, così come la creazione di una black list per le imprese che hanno delocalizzato, complici le pressioni di Confindustria. Le parole di Bonomi, che ha tuonato contro il governo che con questa misura vuole “colpire le imprese”, sono state raccolte da tutto il centrodestra che ha così potuto far leva sul parere di Confindustria per chiedere a Draghi di depotenziare il decreto trasformandolo in un semplice decreto-legge da discutere con calma in parlamento. A ciò si aggiunge un elemento ulteriore: il decreto potrebbe non riguardare le crisi già in corso ma solo quelle future. Con buona pace dei lavoratori in lotta da mesi o anni.

Documento – Ad oggi le uniche norme concordate fra ministero del Lavoro e Mise sono il “preavviso di 90 giorni” e un “piano di mitigazione dell’impatto socio economico” da discutere con i sindacati che, se non rispettato dall’azienda, porterebbe ad aumentare il costo dei licenziamenti per l’azienda. Un testo evidentemente indebolito rispetto alle bozze iniziali in cui si prevedevano multe salate per chi decide di delocalizzare. Un testo che, è evidente, non può che far piacere a Confindustria mettendo in un angolo le vertenze dei lavoratori. Per questo motivo lo stesso collettivo della Gkn fin da subito ha chiesto di poter scrivere assieme al governo il provvedimento e, riunendo un gruppo di giuslavoristi in assemblea, ha elaborato un piano in otto punti che possa servire come base per una legge. Il testo “Fermiamo le delocalizzazioni” prevede la cessione dell’azienda solamente come ultima ratio e, in ogni caso, chiede che in questo caso si preveda “un diritto di prelazione da parte dello Stato e di cooperative di lavoratori impiegati presso l’azienda anche con il supporto economico, incentivi ed agevolazioni da parte dello Stato e delle istituzioni locali”. Prima di arrivare a tanto, però, i lavoratori della GKN chedono che lo stato verifichi l’esistenza di condizioni economiche oggettive tali da giustificare la chiusura dello stabilimento e si attivi per l’individuazione di una soluzione alternativa da definire “in un Piano che garantisca la continuità dell’attività produttiva e dell’occupazione di tutti i lavoratori coinvolti presso quell’azienda, compresi i lavoratori eventualmente occupati nell’indotto e nelle attività esternalizzate”.

I lavoratori della GKN, insomma, sembrano avere le idee chiare su come si possa combattere un fenomeno che coinvolge ogni anno migliaia di lavoratori. Il governo, invece, rimane in attesa mentre un decreto che dovrebbe essere tra le misure prioritarie si è fermato per le pressioni degli imprenditori e per i capricci dei partiti.

Con i nomadi digitali l’Italia rischia di sprecare un’occasione d’oro

Entro il 2035 nel mondo ci saranno circa un miliardo di nomadi digitali che, muniti di un computer e una buona connessione, lavoreranno dai posti più disparati spostandosi da un paese all’altro. Mentre nel mondo ci si prepara a favorire questo fenomeno, l’Italia sembra essere un passo indietro.

Con l’evoluzione della tecnologia si è assistito a un costante incremento del numero di professioni che possono essere svolte da remoto, cioè in qualsiasi posto del globo purché si sia in possesso di due requisiti fondamentali: avere un portatile e una buona connessione a Internet. Ne abbiamo avuto una testimonianza diretta nei mesi di lockdown con milioni di italiani che si sono trovati catapultati in un modo totalmente nuovo di lavorare o studiare. Ma quella che per molti è stata solo una breve parentesi dettata dalla necessità, per alcuni è invece la quotidianità. Nel modo si va diffondendo sempre di più il fenomeno dei “nomadi digitali” che, muniti di un computer e di una buona connessione, si spostano da un paese all’altro viaggiando continuamente ma senza mai smettere di lavorare. Si tratta di una vera e propria filosofia di vita basata interamente su flessibilità, indipendenza e mobilità. Una scelta di vita che, secondo le ultime stime, coinvolgerà sempre più persone fino a raggiungere entro il 2035 circa un miliardo di nomadi digitali nel mondo. L’idea alla base di questo fenomeno è molto semplice: se per lavorare mi basta un pc e una connessione a internet perché non farlo da posti belli e stimolanti? Così i nomadi digitali cercano posti che abbiano un buon clima, umano più che meteorologico, un costo della vita basso e che possa garantire allo stesso tempo produttività del lavoro e qualità della vita. E quando ci si stanca di un posto o non lo si trova più stimolante ci si sposta alla ricerca di una nuova meta. Si migra da un posto all’altro alla ricerca di un nuovo nido digitale in cui fermarsi.

I nomadi digitali costituiscono comunità attive e creative in grado di far rifiorire il territorio rilanciandone l’economia e alimentando un ecosistema di imprenditoria e startup. In fuga dalle grandi citta e alla costante ricerca di pace e tranquillità, riescono anche a generare una ripopolazione di piccoli borghi che sembrano destinati a sparire per sempre e che, invece, trovano una nuova vita come borghi digitali. Opportunità che molti paesi europei, dalla Germania al Portogallo passando per Francia e paesi scandinavi, stanno cercando di sfruttare il più possibile. Capofila in Europa per la valorizzazione di queste comunità è l’Estonia che già dal 2014 ha introdotto la “E-Residency”, ovvero una residenza che consente agli imprenditori digitali di aprire e gestire un’azienda all’interno dell’Unione Europea online, avendo accesso a tutti i servizi che lo stato estone prevede per le imprese sul web. Una misura che ha riscosso grande successo attirando oltre 70mila persone e generando introiti per lo stato di circa 41milioni. Un successo tale, da spingere il paese baltico ad un passo ulteriore: dal 1° agosto, infatti, è stata introdotta la “Digital Nomads Visa”, uno speciale visto pensato apposta per i nomadi digitali che permetterà di vivere nel paese per un anno e di circolare liberamente nell’area Schengen.

Piccoli borghi, cultura, buon cibo e paesaggi mozzafiato. Il nostro paese sembra avere tutte le carte in regola per diventare il paradiso dei nomadi digitali e invece si ritrova ad essere un passo indietro rispetto agli altri paesi europei. Nella classifica sulla digitalizzazione dei paesi europei l’Italia è al terzultimo posto e in molti piccoli borghi, che potrebbero rinascere proprio grazie a comunità nomadi, manca addirittura la connessione a internet. A questo si aggiunge il fatto che 1200 comuni hanno difficoltà di ricezione telefonica e cinque milioni di italiani vedono addirittura con grande fatica (o non vedono affatto) i canali Rai. Sono le cosiddette “aree bianche” in cui i gestori hanno poco interesse ad intervenire e che attualmente non sono coperte da una rete internet veloce. Per quelle zone nel 2015 era stato lanciato il “Piano Aree Bianche” (o piano BUL), con l’intento di portare la banda larga a 14,7 milioni di italiani, ma tra ritardi e lockdown la sua attuazione è in ritardo di almeno un anno. Così, solamente le grandi città risultano essere competitive per connettività e informatizzazione ma i costi della vita elevata e il caos che le caratterizza respingono all’istante i nomadi digitali. Ne è un esempio Milano che sta provando ad attirali con una vasta offerta di spazi di coworking e la possibilità di connettersi praticamente ovunque ma tra affitti, stile di vita e divertimenti notturni il capoluogo lombardo si rivela troppo caro e ben poco attraente. Così l’Italia si scopre fragile e impreparata rischiando di perdere un’occasione. Perché al di là della conformazione geografica che rende il nostro paese allettante, sembra mancare tutto quello che serve per attrarre nomadi digitali. Per i lavoratori autonomi le tasse sono quasi insostenibili e gli incentivi sono pochi, la burocrazia lenta e un digital divide ancora consistente fanno il resto. In un paese in cui, secondo un recente rapporto di Legambiente, ci sono oltre 2.500 borghi rurali spopolati e molti altri che si avvicinano ad uno spopolamento totale, i nomadi digitali potrebbero rappresentare un’opportunità da cogliere al volo per valorizzare pezzi di Italia che rischiano di sparire per sempre. Servirebbe un piano più incisivo per rendere i paesi italiani più appetibili per chi si sposta continuamente alla ricerca di stimoli e tranquillità. Invece, ancora una volta, rischiamo di capire troppo tardi l’opportunità che ci si presenta davanti.