Monthly Archives: agosto 2021

Il business milionario degli incendi e l’interesse della criminalità per i roghi

Nell’Italia devastata dagli incendi, come ogni anno ci si affretta a trovare la causa dei roghi. Ma mentre si parla di “cause naturali”, “autocombustione o fatalità troppo spesso si ignora il business criminale che si cela dietro questi fenomeni.

I cieli di mezza Italia si tingono di rosso. Il rosso delle fiamme che divorano decine di migliaia di ettari del Belpaese. Il rosso del sangue di una ferita che puntualmente si riapre ogni estate lacerando un pezzo consistente di paese. L’Italia, ed in particolare il sud, brucia sotto il sole torrido di un’estate senza precedenti. Ma anche questa volta, come spesso accade, non brucia per colpa del caldo. Non solo, per lo meno.

Basta, infatti, sfogliare le ultime statistiche per avere conferma di una grande, quanto triste, verità: boschi e terreni non s’incendiano da soli. Le cause naturali non arrivano al 2% e “sono dovute esclusivamente a fulmini”, ha chiarito negli scorsi giorni Filippo Micillo, capo dell’ufficio pianificazione e coordinamento del servizio antincendio boschivo per i vigili del fuoco. Lo afferma citando le statistiche 2019 dei carabinieri forestali. Statistiche che restituiscono un’immagine ancor più drammatica di quella che può apparire guardando esclusivamente alle fiamme che divorano il sud Italia senza interrogarsi sulle cause. Quasi sei volte su dieci i roghi sono stati intenzionali, anche se la percentuale potrebbe salire ancora, perché poi bisogna fare i conti con un 22,5% di azioni non classificabili. Meno del 14% i blitz colposi, per disattenzione o incuria mentre un altro 4,4% è attribuito a cause indeterminate.

Fornire un identikit di chi appicca gli incendi non è certo facile ma, ancora una volta, i numeri possono aiutare a farsi un’idea. Numeri che indicano come i piromani, intesi come persone con disturbi psichici che li portano a dare fuoco a oggetti o ambienti naturali, sono una minoranza. Numeri che, invece, sembrano indicare la presenza di una strategia criminale vera e propria. I dati relativi allo scorso anno, infatti, indicano come nelle quattro regioni a tradizionale presenza mafiosa si sono registrati il 54,7% dei reati di incendio boschivo, con l’84% della superficie danneggiata. È la mafia dei terreni, pascoli e boschivi. Una criminalità organizzata in preda ad una follia distruttiva dietro cui si cela sempre un interesse più ampio. Interessi confermati anche dalle recenti indagini della Commissione Parlamentare Antimafia che ha alzato la soglia di attenzione sul fenomeno.

Ma perché la criminalità organizzata da fuoco ai territori che controlla? A chi giova? Cosa si nasconde sotto la cenere che rimane a fiamme spente? Una ragione è la pervicacia di cosche e clan nel dimostrare che, di qualunque area, sono in grado di indirizzare destini, fortune e sfortune. Dimostrano ai proprietari che possono fare il bello e il cattivo tempo. A maggior ragione se i boschi e i pascoli incendiati sono assoggettati a vincolo di inedificabilità. Se il proprietario non si piega alle richieste estorsive dei criminali ecco che scatta la furia incendiaria. Un meccanismo che si ripete ogni anno, in modo sostanzialmente identico. Già nel 2001 gli 007 del Sisde insistevano sulla presenza delle mafie nelle ricostruzioni post incendio in ogni angolo del Belpaese. Nelle relazioni della Dia nazionale si ripetono le stesse affermazioni, praticamente da sempre. E poi c’è il business dei rimboschimenti, dove i forestali stagionali assunti fanno da bacino di voti e le mafie coordinano chi organizza le operazioni di appiccamento. Un business enorme, quello dei rimboscamenti, capace di muovere centinaia di milioni di euro ogni anno. Solo in Sicilia si calcola che si spendano 400 milioni di euro all’anno per il rimboschimento, in Campania nel 2017 50 milioni di euro.

Il fuoco che distrugge il nostro paese, insomma, fa gola alla criminalità. “L’autocombustione non esiste” aveva detto qualche anno fa Roberto Pennisi, magistrato della Direzione nazionale antimafia. E mentre ci si convince che la colpa degli incendi sia da ricercare in tragiche fatalità che fanno divampare roghi immensi si ignora cosa davvero alimenti quelle fiamme.

Il Comune di Foggia sciolto per mafia: come i clan condizionavano la politica

Il Comune di Foggia diventa il primo capoluogo pugliese ad essere sciolto per infiltrazioni mafiose. Alla base della decisione del Ministero dell’Interno vi sarebbero diversi episodi di connivenza tra amministrazione comunale e clan locali.

La notizia è passata un po’ in sordina, un po’ perché attesa da tempo, un po’ perché il consiglio comunale di Foggia è già stato sciolto, in via ordinaria, a seguito delle dimissioni rassegnate dall’ex sindaco Franco Landella lo scorso 4 maggio e non revocate nel termine dei 20 giorni dalla loro presentazione. Ma la breve nota con cui il Ministero dell’interno “ha deliberato l’affidamento a una commissione straordinaria della gestione del Comune di Foggia, già sciolto a seguito delle dimissioni del sindaco” ha un peso enorme e un significato profondo. Una frase che sembra non dire nulla ma che racchiude tutto in una sola parola: “Straordinaria”. Commissione straordinaria significa che il comune di Foggia è sciolto ufficialmente per infiltrazione mafiosa ai sensi dell’art. 143 del Testo Unico degli Enti Locali (TUEL).

Era lo scorso 9 marzo quando in Comune si era insediata la Commissione d’accesso agli atti, inviata dal Viminale per verificare la presenza o meno di condizionamenti della criminalità organizzata nell’ente comunale. Il lavoro è durato poco più di quattro mesi, rispetto ai sei previsti, poi la relazione con l’esito degli accertamenti è stata consegnata al prefetto di Foggia, Carmine Esposito che ha redatto il documento finale con le motivazioni alla base dello scioglimento. Ed ora c’è anche il timbro del Governo. A Foggia le istituzioni cittadine erano pesantemente condizionate dalla criminalità organizzata e per questo non possono continuare a governare la città. Ed ora la città non andrà ad elezioni, come sarebbe accaduto se fosse continuato il commissariamento ordinario, ma si prepara ad almeno un anno e mezzo di gestione commissariale con la guida della città che dovrebbe rimanere in mano all’attuale commissaria Marilisa Magno.

Secondo le prime indiscrezioni, il principale tema toccato dalla Commissione di accesso nei quattro mesi di lavoro sarebbe quello relativo alle politiche abitative con alloggi assegnati ad esponenti della criminalità organizzata, dai Moretti ai Sinesi passando per i Francavilla. A loro e ai loro familiari, secondo quanto rilevato dalla Commissione, sarebbero infatti stati concessi alloggi popolari anche in assenza dei requisiti sottraendoli così di fatto a chi ne avrebbe avuto realmente bisogno. A questo si aggiunge la mancata richiesta di certificazioni antimafia da parte del comune ad aziende destinatarie di importanti appalti pubblici in Città, vicenda che vede coinvolto in prima persona l’ex sindaco Landella che per questo motivo rischia l’incandidabilità.

Insomma, l’operato dell’amministrazione comunale negli ultimi anni è stato poco limpido e troppo spesso connivente con settori della criminalità organizzata locale. Una connivenza che ha condizionato l’andamento della politica pubblica costringendo il Governo ad intervenire per ripristinare l’ordine democratico minacciato da una mafia sempre più forte. Perché nel silenzio generale la mafia foggiana sta aumentando il proprio potere e la propria influenza. Proprio per questo serve una risposta istituzionale forte e decisa. Proprio per questo non è tollerabile una politica che faccia affari con la criminalità. 

Guida alla riforma della Giustizia: i motivi dell’urgenza, il contenuto e le critiche

Chi elogia la nostra giustizia, somiglia terribilmente a quella persona
che cercava di consolare una vedova il cui marito era morto per una
grave forma di polmonite, dicendole per tranquillizzarla che forse non era andata poi tanto male.
-Karl Kraus-


A tenere banco durante l’ultima settimana è stata senza dubbio la notizia dell’accordo sulla riforma della giustizia voluta dalla ministra Marta Cartabia. Una riforma che ha suscitato perplessità e critiche sia in Parlamento che fuori con alcuni illustri esponenti della magistratura che hanno espresso la propria posizione contraria al testo. La legge Cartabia, che legge non è trattandosi sostanzialmente di una serie di emendamenti al progetto di revisione attuato dall’ex Ministro Bonafede con lo scopo di alleggerire il carico di processi penali, introdurrebbe un limite alla durata dei procedimenti, che per alcuni potrebbe mettere a rischio l’esito delle cause attualmente in corso.

Urgenza – La necessità di una riforma del sistema giudiziario italiano è cosa nota e da decenni si discute di come intervenire per rendere più veloce ed efficace la giustizia nel nostro paese. L’accelerata degli ultimi mesi, che ha portato all’accordo sul testo proposto dalla ministra Cartabia, è dovuta sostanzialmente alle pressioni arrivate dall’Unione Europea. Nell’ambito del “Next Generation EU”, lo strumento da oltre 800 miliardi messo in campo dall’Unione Europea per fronteggiare la crisi post pandemia, l’Italia ha elaborato l’ormai noto Piano Nazionale Ripresa e Resilienza. All’interno del piano, il cui rispetto è necessario per accedere ai fondi europei per la ripresa, è prevista l’approvazione di due riforme strutturali definite “di contesto” perché in grado di impattare su tutti gli ambiti: la riforma della Pubblica Amministrazione e la riforma, appunto, della Giustizia.

L’inserimento della giustizia negli ambiti da riformare con urgenza è dettato dalla necessità di allinearsi agli altri paesi europei riducendo i tempi per i processi penali e civili come chiesto, sia nel 2019 che nel 2020, dall’Unione Europea al nostro governo. Le lungaggini del sistema italiano risultano infatti evidenti dall’ultimo rapporto dell’UE, relativo al biennio 2016-2018, in cui emerge chiaramente la lentezza della giustizia italiana: la durata media di un processo in Italia è di 3 anni e 9 mesi contro una durata media in Europa di circa un anno; i 527 giorni necessari per arrivare ad un verdetto di primo grado in Italia in Europa sono 233; un processo amministrativo dura da noi più di 5 anni; quello civile oltre 6 anni. Per non parlare del fatto che l’Italia è anche il Paese con la più alta percentuale di processi civili e penali pendenti nel secondo grado di giudizio dopo due anni dall’instaurazione degli stessi (44,8% per i primi e 41,5% per i secondi). Nella maggior parte dei Paesi europei questa percentuale è pari a zero.

Riforma – Da qui la necessità di intervenire sul sistema italiano per provare a rendere più rapidi e certi i processi intervenendo in particolare sulla prescrizione. La riforma della giustizia Cartabia conferma infatti che la prescrizione del reato resta bloccata dopo la sentenza di primo grado, sia di condanna che di assoluzione (art. 14 del DdL), senza modifiche rispetto alla disciplina attuale. Ciò che si vorrebbe cambiare, al contrario, è il decorso successivo alla pronuncia. Viene infatti introdotto un limite di tempo massimo del giudizio d’Appello e di Cassazione, trascorso il quale l’azione penale viene dichiarata improcedibile (art. 14-bis DdL). La nuova disciplina si applica per i reati commessi dopo il 1° gennaio 2020, data di entrata in vigore della “legge Bonafede”. Qualora vengano superati i termini di legge, il giudice della Corte di Appello o della Cassazione dovrà dichiarare il non doversi procedere, chiudendo il processo, ma l’imputato può chiedere espressamente la prosecuzione dello stesso, così come attualmente può rinunciare alla prescrizione.

A causa delle polemiche scatenate dalla presentazione del testo del 23 luglio scorso, il governo è corso ai ripari introducendo alcuni limiti alla nuova normativa sulla prescrizione. Per alcuni gravi reati, ovvero associazione di stampo mafioso, terrorismo, violenza sessuale e associazione criminale finalizzata al traffico di stupefacenti, non ci sarà un limite al numero di proroghe, che vanno però sempre motivate dal giudice sulla base della complessità concreta del processo. Per i reati con aggravante del metodo mafioso, le proroghe sono invece fino al massimo di due (sia in appello che in Cassazione), oltre a quella prevista per tutti i reati.

Alle novità procedurali si aggiunge la creazione di un Comitato tecnico scientifico istituito presso il ministero della Giustizia dovrà riferire ogni anno sull’evoluzione dei dati sullo smaltimento dell’arretrato pendente e sui tempi di definizione dei processi. Il Comitato monitorerà l’andamento dei tempi nelle varie Corti d’appello e riferisce al ministero, per i provvedimenti necessari sul fronte dell’organizzazione e del funzionamento dei servizi. I risultati del monitoraggio saranno trasmessi al Csm, per le valutazioni di competenza.

Reazioni – Nonostante la riforma tocchi diversi punti, tra cui ad esempio i limiti per le indagini preliminari o le regole per i processi in assenza o speciali, le principali critiche riguardano le norme relative alla prescrizione e all’improcedibilità. Tra i primi a bocciare il testo del Governo c’è stato Nicola Gratteri, procuratore capo di Catanzaro e simbolo della lotta alla ‘ndrangheta, che ha dichiarato “con l’improcedibilità prevista dalla riforma Cartabia il 50% dei processi, considerata la gran mole dei reati di mafia e maxi processo che celebriamo, saranno dichiarati improcedibili in appello”. Dichiarazione a cui ha fatto eco il procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo, Federico Cafiero de Raho, che ha aggiunto: “Immaginare che tanti processi vengano dichiarati improcedibili mina la sicurezza del paese”. Parole condivise da gran parte della magistratura e portate ad un livello superiore dal CSM che in settimana ha pubblicato un parere sfavorevole alla riforma.

Le voci favorevoli alla riforma sono, dunque, poche. Oltre a quella della Cartabia, che continua a dofendere il testo a spada tratta, si registra quella del Giudice della Cassazione Angelo Socci: “La riforma Cartabia risponde ai parametri del giusto processo e ai tempi che ci dà la Corte europea dei diritti dell’uomo e alla legge Pinto.”

C’è però un punto di questa riforma che fa ben sperare per il futuro: la riforma della giustizia riparativa. La Cartabia, infatti, ha deciso di introdurre una serie di modifiche che rendano più accessibile il ricorso a pene alternative al carcere che possano restituire attenzione alle dimensioni umane e sociali che investono il crimine per evitare che le pene inflitte scadano in semplici punizioni ma che possano essere motivo di crescita e reale cambiamento per chi commette un crimine. In particolare si prevede la possibilità di accesso ai programmi di giustizia riparativa in ogni fase del procedimento, su base volontaria e con il consenso libero e informato della vittima e dell’autore, oltre che dell’assenso del giudice. Un passo avanti importante anche, e soprattutto, dopo le immagini terribili di Santa Maria Capua Vetere.