Monthly Archives: gennaio 2020

Cosa sappiamo sulla morte di Giulio Regeni

Verità per Giulio Regeni


C’era un cartello giallo con una scritta nera. No, nessun addio a bocca di rosa questa volta, ma un grido disperato di un popolo che chiede verità. Verità per una vita spezzata a 28 anni. Verità sulla morte di un ragazzo che inseguiva i suoi sogni e le sue passioni. Verità sulle indicibili complicità che il 25 gennaio 2016 hanno spento per sempre il sorriso di un giovane dottorando.
Giulio Regeni, da quattro anni non c’è più.
Giulio Regeni, da quattro anni, aspetta la verità sulla sua assurda e orrenda morte.
La aspettano, sostenendosi a vicenda, mamma Paola e papà Claudio.
La aspettiamo tutti.La esigiamo tutti.

I fatti – Giulio era un ragazzo brillante, nato a Trieste il 15 gennaio 1988 e cresciuto a Fiumicello, in provincia di Udine. Ma Fiumicello gli sta stretta e dunque, ancora minorenne, si trasferisce a Montezuma nel New Mexico dove per due anni studia al “Armand Hammer United World College of the American West”. Nel 2012 e nel 2013 grazie alle sue ricerche sul Medio Oriente vince il premio “Europa e Giovani” indetto dall’ Istituto Regionale di Studi Europei del Friuli-Venezia Giulia, un riconoscimento importante che attesta la grande propensione di Giulio per la ricerca e mette in evidenzia le sue doti. Doti che lo portano in breve tempo a collaborazioni importanti come quelle messe in atto con “l’Organizzazione delle Nazioni Unite per lo sviluppo industriale” e “Oxford Analytica”. In Gran Bretagna Giulio è diviso tra Oxford, dove lavora per il centro di ricerche politiche privato, e Cambridge dove ne frattempo inizia il Dottorato e continua la sua attività di ricercatore universitario. L’8 settembre 2015, per completare la sua tesi di dottorato, Giulio Regeni atterra al Cairo ed inizia una spirale di eventi che lo travolge. Una serie di complicità, di segreti, di misteri che hanno portato nel giro di 5 mesi alla morte di un ragazzo di 28 anni.


Sono le 19.41 del 25 gennaio 2016, quinto anniversario della rivoluzione egiziana anti Mubarak, quando dal telefono di Giulio parte l’ultimo messaggio. L’ultimo segnale di vita dal ricercatore italiano. L’ultimo messaggio prima del silenzio. “Sto uscendo” scrisse alla sua ragazza, che si trovava in Ucraina, ma i suoi amici che lo aspettavano in piazza Tahrir non lo vedranno mai arrivare. Provano a contattarlo ma non ci riescono. Alle 19.50 il suo cellulare si collega al wifi della metropolitana nella stazione di El Bohoot prima di spegnersi per sempre. Per 9 lunghissimi giorni di Giulio non si hanno più notizie. Fino a quel drammatico 3 febbraio quando il suo corpo nudo e martoriato viene trovato da un tassista lungo la superstrada che dal Cairo porta ad Alessandria.


I depistaggi – è il 4 febbraio, il giorno dopo il ritrovamento del corpo, quando dalle autorità egiziane arriva la prima ipotesi che già sa di depistaggio: “non c’è alcun sospetto crimine dietro la morte del giovane italiano Giulio Regeni” disse il generale Khaled Shalabi ai media egiziani “le indagini preliminari parlano di un incidente stradale”. Ma che non si possa trattare di incidente stradale appare fin troppo evidente, vuoi per quella coperta dell’esercito trovata poco distante dal corpo, vuoi per il volto sfigurato vuoi per l’assenza di vestiti. Giulio non può essere stato investito, e questo è chiaro a tutti. Ma da quel momento un elemento ben più grave e sconcertante diventa chiaro: le autorità egiziane stanno tentando di insabbiare il caso. Ed in effetti, la teoria dell’incidente stradale, è solo la prima di una lunga serie di bugie, depistaggi e ostacoli alle indagini da parte delle autorità egiziane.

Passano pochi giorni ed al Cairo arrivano gli inquirenti italiani e i genitori di Regeni. Le indagini congiunte tra carabinieri, polizia, interpol e autorità egiziane però non inizia nel modo sperato. Ancora depistaggi, ancora bugie per coprire una morte scomoda. Dal Cairo ignorano sistematicamente le richieste della Procura di Roma e non consegna i video delle telecamere a circuito chiuso delle zone in cui doveva transitare Regeni prima di scomparire e la completa documentazione su autopsia, celle telefoniche e verbali di interrogatori di importanti testimoni. Ma le bugie sono state spazzate via in un attimo dai genitori di Giulio e dalle loro parole di una drammaticità inimmaginabile. “Sul suo viso ho visto tutto il male del mondo” dirà Paola Defendi ai giornalisti dopo aver visto il corpo del figlio “era diventato piccolo, piccolo, piccolo. L’unica cosa che ho veramente ritrovato di lui è stata la punta del suo naso. È dal nazifascismo che non ci troviamo a vedere una situazione di tortura come quella che è successa a Giulio. Ma lui non era in guerra”.


Ma neppure quel corpo martoriato ha convinto l’Egitto a dire la verità. Una collaborazione la si è ottenuta solo forzando la mano nell’anno e mezzo, a partire dall’aprile 2016, in cui l’Italia ha richiamato il proprio ambasciatore. Da quel momento fino alla ripresa dei rapporti diplomatici, nell’agosto 2017, gli investigatori italiani hanno avuto la piena collaborazione degli inquirenti del Cairo portando alla luce “la ragnatela in cui è caduto Giulio”. Ma da quel 14 agosto 2017 ad oggi, per l’ennesima volta, una cortina di fumo ha avvolto il caso. La collaborazione che sembrava poter essere duratura è terminata un’altra volta e le richieste degli inquirenti italiani sono cadute nel vuoto. Domande precise, richieste di nomi, date, certificazioni di ingressi e uscite dal Paese, alle quali le autorità egiziane hanno evitato di dare seguito bloccando un’indagine che appare sempre più complessa.


Le evidenze – Ma qualcosa in quell’anno e mezzo lo si è appreso ed ora è innegabile. È innegabile, ad esempio, che Giulio fu torturato a più riprese per diversi giorni prima che, forse per errore, gli venisse rotto l’osso del collo provocandone la morte. È innegabile la responsabilità nelle torture e nei depistaggi della National Security egiziana, l’apparato di sicurezza statale, che oltre ad aver avuto un ruolo nel rapimento e nella morte era riuscita ad infiltrare 3 agenti nel pool che ha indagato sul caso per sviare le indagini ed informare le autorità sullo stato degli accertamenti. È innegabile, e doloroso, il ruolo svolto da quelli che Giulio considerava amici e che invece lo hanno tradito e spiato: il coinquilino Mohamed El Sayad, che immediatamente prima e durante il sequestro, tra il 22 gennaio e il 2 febbraio 2016, ebbe almeno otto contatti con la Ns; l’amica Noura Wahby, che riferiva ogni conversazione a un informatore della Ns; il sindacalista Mohamed Abdallah, legato al maggiore Magdi Sharif, tra i maggiori indiziati del rapimento.

Resta da capire il movente di un omicidio così brutale. Resta da capire se, con la sua ricerca, Giulio avesse scoperto qualcosa che non doveva essere scoperto in un paese in cui i diritti e libertà non sono esattamente messi al primo posto. Per farlo, però, bisognerebbe smetterla di cedere a compromessi con lo stato nordafricano. Bisognerebbe volere la verità ad ogni costo. Bisognerebbe smetterla di ricordarsi di Giulio solo in occasione degli anniversari. Bisognerebbe smetterla con le passerelle e le dichiarazioni di circostanza. Servirebbe invece un passo più deciso da parte del nostro governo come il nuovo ritiro dell’ambasciatore italiano chiesto dai genitori di Giulio a più riprese.
Servirebbe la volontà di far emergere la verità su un omicidio di stato.

La verità sulla morte di un ragazzo italiano in terra straniero.
La verità sulle torture che ha dovuto subire.
Perché non resti solo un cartello giallo con una scritta nera.
Perché finalmente ci sia Verità per Giulio Regeni.

La “Quarta Mafia” asssalta Foggia

“Sconfiggere le mafie è possibile, oltre a essere unanecessità vitale per l’equilibrio e lo sviluppo del Paese.Pio La Torre ha testimoniato che le mafie possono essere duramentecolpite ogni volta che si realizza una convergenza tra le forze positive della società”
-Sergio Mattarella-


20 mila persone sfidano il freddo per marciare insieme a Foggia. Nella città teatro di un sanguinoso inizio 2020, con un omicidio e 5 attentati, è andata in scena #FoggiaLiberaFoggia, una manifestazione nazionale indetta da Libera per dire basta alla violenza mafiosa in un territorio sempre più assediato. È la “Quarta Mafia” e da ormai diverso tempo ha dichiarato guerra allo stato e vuole affermare il proprio potere nella zona anche, e soprattutto, attraverso omicidi ed intimidazioni.

I fatti – il 9 agosto 2017 la mafia foggiana ha mostrato tutta la sua forza e spietatezza. Un gruppo di fuoco armato di pistola, kalashnikov e fucile a canne mozze ha atteso sulla pedegarganica il presunto boss Mario Luciano Romito e suo cognato, Matteo De Palma. Al passaggio del maggiolone nero con a bordo i due uomini gli aggressori hanno aperto il fuoco contro la vettura uccidendoli entrambi sul colpo prima di inseguire e freddare Luigi e Aurelio Luciani che nulla centravano in quelle dinamiche ma che avevano visto la scena diventando testimoni scomodi. Un delitto, passato alle cronache come strage di San Marco in Lamis, che ha scosso Foggia e l’Intera Italia dimostrando come questa nuova formazione criminale non si faccia scrupoli ad usare la violenza. Una violenza brutale ed eccessiva consumata in pieno giorno a ridosso di una strada provinciale tra le più trafficate della zona. Una violenza che da quel giorno non si è mai fermata.

L’inizio del nuovo anno ha rappresentato in tal senso una conferma di quanto accaduto negli ultimi mesi del 2019. Da Capodanno ad oggi, in soli 11 giorni, tra Foggia e provincia si sono verificati 6 attentati dinamitardi e un omicidio in pieno stile mafioso. Il 31 dicembre un ordigno era esploso a ridosso della mezzanotte ad Apricena, a pochi chilometri da San Severo, devastando un centro estetico. Poche ore più tardi un’altra bomba aveva sventrato un bar a San Giovanni Rotondo mentre a Foggia, quasi in contemporanea, due locali sono stati dati alle fiamme. Poi l’omicidio di Roberto D’Angelo, commerciante d’auto, freddato da due killer in motorino mentre si trovava a bordo della sua 500. Una scia di sangue e paura che ha convinto molti, moltissimi cittadini, a scendere in piazza per dire basta. Basta alla mentalità mafiosa che sta impregnando il territorio, basta alle intimidazioni con cui si prova a far piegare la testa agli onesti, basta con la paura che la mafia vorrebbe coltivare in questa provincia. Quasi 20.000 persone sono scese in piazza in un lungo corteo per riprendersi la città che vivono e che amano. Una città che non può essere lasciata in mano a chi la vorrebbe distruggere.

Ma la grande mobilitazione cittadina non ha fermato i clan. Poche ore dopo la grande marcia, un nuovo attentato ha fatto sprofondare il foggiano nella paura. In quella che sembra essere una risposta alla manifestazione di Libera, nella notte una bomba è stata fatta esplodere davanti ad un negozio a Orta Nova. L’ordigno ha divelto la saracinesca, frantumato la vetrina e rovinato gli arredi interni. L’ennesima intimidazione ai danni di un commerciante e, allo stesso tempo, di una figura politica. Il negozio colpito è infatti di Marianna Borea, 38 anni, sorella di Paolo Borea presidente del Consiglio Comunale a cui, il 21 dicembre scorso, era stata bruciata l’auto nella notte.

Quarta Mafia – a seminare il panico in una provincia che, da sola, è grande quanto il Friuli-Venezia Giulia è la “Quarta Mafia”. Un’organizzazione criminale di cui poco si è sentito parlare ma che, grazie a questo silenzio, ha potuto agire indisturbata e acquisire forza e potere. Una mafia per certi versi ancora “acerba” che, a differenza delle tre organizzazioni storiche, sta cercando di affermare la propria presenza sul territorio a suon di attentati e intimidazioni. Un’organizzazione che, come riportato dalla Direzione Investigativa Antimafia, ha imparato da Camorra, Cosa nostra e ‘ndrangheta riuscendo a “coniugare tradizione e modernità”. Le tre organizzazioni presenti sul territorio foggiano, società foggiana, mafia garganica e malavita cerignolana, stanno sempre più convergendo verso posizioni comuni stringendo accordi che possano favorire tutti gli attori coinvolti in un’ottica di pacificazione che possa permettere di agire in modo meno evidente.

Tra le tre, però, una posizione di assoluta centralità è svolta dalla mafia foggiana, divenuta fulcro della criminalità organizzata del territorio attraverso la progressiva espansione nei territori della provincia e la ricerca di convergenze finalizzate ad una gestione monopolistica delle attività illecite. Nella città di Foggia sono attive tre “batterie”, i clan della quarta mafia, che pur se fortemente ridimensionate dalle attività investigative e giudiziarie, restano particolarmente attive nel traffico degli stupefacenti e nelle estorsioni, riuscendo a specializzarsi anche nel riciclaggio: I Sinesi-Francavilla, i Moretti-Pellegrino-Lanza e i Trisciuoglio-Prencipe-Tolonese. Le batterie sarebbero, secondo gli inquirenti, fortemente basate su legami familistici e ciò le renderebbe in un certo senso molto simili alle famiglie di ‘ndrangheta creando un forte legame di sangue tra i vari membri. Ma se per l’affermazione del potere sembra valere la regola del più forte, che ha spesso portato ad atti di violenza anche eclatanti, non mancano “patti federativi” con cui le tre batterie cercano di trovare sinergie e interessi comuni per gli affari principali. Nell’ultimo rapporto semestrale pubblicato, la DIA parla di “rapporti magmatici e contraddittori” tra le batterie le quali sarebbero in grado di far coesistere i rapporti conflittuali e gli accordi e la conduzione in comune di affari particolarmente rilevanti. In comune vi sarebbe anche la cassa in cui vengono depositati parte dei profitti delle tre batterie e la cosiddetta “lista delle estorsioni”, documento nel quale erano analiticamente registrate le persone sottoposte al racket.

L’area garganica è caratterizzata da una presenza di diversi gruppi criminali con una forte vocazione verticistica, basati essenzialmente su vincoli familiari, gerarchicamente non legati tra loro ma che attraverso una serie di antiche alleanze con le tre batterie foggiane hanno stabilito una sorta di equilibrio anche nel territorio del Gargano. Traffico di stupefacenti, atti predatori, estorsioni e riciclaggio caratterizzano pressoché tutti i gruppi dell’area che sembrano essere particolarmente legati alla società foggiana e dunque non pienamente liberi di agire in modo indipendente. I Li Bergolis, originari di Monte Sant’Angelo, operano in sinergia con altri sodalizi presenti nell’area del promontorio nonché con il clan foggiano Francavilla. Sono in conflitto con il clan Romito-Gentile di Manfredonia-Mattinata, che vanta, invece, rapporti con i clan Moretti e Trisciuoglio della Società foggiana, con la malavita di Cerignola e con gruppi del promontorio garganico, in particolare di Vieste e Monte Sant’Angelo. Proprio in questo contesto è maturata la strage di San Marco in Lamis, per cui sono stati arrestati come esecutori materiali due esponenti del clan Li Bergolis, che aveva dato il via ad una dura contrapposizione tra i due clan nel più ampio contesto della “faida di Vieste” portando ad una luga scia di sangue che aveva interessato tutta l’area nel primo semestre del 2018.

La malavita di Cerignola, invece, sembra essere molto strutturata ed in grado di controllare in modo capillare il proprio territorio. La criminalità cerignolana, rappresentata dai clan Piarulli e Di Tommaso (rinvigorito dalla scarcerazione di alcuni esponenti di peso), mantiene la propria vocazione verso i reati predatori realizzati con forme di pendolarismo. I gruppi di Cerignola sono negli anni anche divenuti punti di riferimento per le altre organizzazioni criminali nazionali sia nel sostegno delle latitanze, sia nelle attività di riciclaggio, grazie alla capacità di schermare efficacemente i profitti illeciti, anche mediante prestanome, in attività di ristorazione, nella filiera agroalimentare e nel commercio di carburante.

Reazione – Una presenza pervasiva e forte che, però, non viene messa all’angolo dai cittadini. Se infatti la grande marcia organizzata da Libera sembra essere stata una forte risposta al potere e alla violenza mafiosa, è anche evidente che fino ad oggi il territorio foggiano è stato in gran parte assoggettato in un clima di omertà diffusa. Nel 2018 è stata la provincia in Italia con il minor numero di denunce: appena 4 esposti all’autorità giudiziaria per usura e soli 179 per estorsione. Di certo numeri che non rispecchiano la realtà di un territorio in cui, tra il 2016 e il 2019, ci sono stati 67 tentati omicidi e 58 omicidi. Ma, questa volta, non si può puntare il dito contro lo Stato. Lo sforzo di istituzioni e forze dell’ordine è evidente e prezioso. Il piano straordinario integrato per la sicurezza pubblica, coordinato dal prefetto di Foggia Massimo Mariani, sta portando ad una stretta sulla criminalità foggiana e all’arresto di diversi esponenti apicali della “Quarta Mafia” che ha subito un duro colpo e sembra ora essere nel pieno di un riassestamento interno.

La marcia di Libera, dunque, deve essere un punto di inizio. Deve essere l’inizio di una presa di coscienza da parte dei cittadini. L’inizio di una resistenza civile alla criminalità che vorrebbe ergersi ad anti stato e governare con intimidazioni e violenza il territorio foggiano. Serve una presenza più attenta dei cittadini, una maggior collaborazione on quelle forze dell’ordine che, anche a fronte di gravi perdite, stanno facendo ogni sforzo possibile per arginare un fenomeno criminale inaccettabile per un paese civile e democratico.

Australia, storia di una catastrofe senza precedenti

With courage let us all combineTo advance Australia fair.
In joyful strains then let us singAdvance Australia fair!
– Advance Australia Fair, Inno nazionale australiano-


La tregua di Natale è durata poco. La speranza degli australiani è finita con la nuova ondata di caldo. Sono ripresi, più impetuosi e devastanti di prima, gli incendi che da quattro mesi stanno mettendo in ginocchio l’intera Australia. Un’area grande quanto il Belgio è andata in fumo, la barriera corallina agonizza, le foreste pluviali sono in fiamme e per la fauna locale cresce un terribile rischio di estinzione. È una catastrofe senza precedenti. Nemmeno il lavoro, instancabile e ininterrotto, di volontari e vigili del fuoco può nulla contro il gigante di fuoco che sta inghiottendo l’intero paese.

La storia – L’Australia è da sempre particolarmente esposta al rischio di incendi a causa del suo clima particolarmente arido. Il più grande della storia del continente fu il 6 febbraio 1851, passato alla storia come “The black Thursday”, quando nello stato di Vittoria le temperature di oltre 40° C e i forti venti alimentarono un muro di fuoco che incenerì in un solo giorno oltre 5 milioni di ettari causando la morte di 12 persone e oltre un milione di animali. Ottant’anni più tardi fu il turno del “Black Friday” con le fiamme che nella giornata del 13 gennaio 1939 distrussero due milioni di ettari uccidendo 71 persone. Più recente il caso del “Black Saturday” che nel 2009 causò la morte di 173 persone con i roghi che, divampati il 7 febbraio, distrussero un’area di circa 450.000 ettari in un mese. Questa volta, però, c’è qualcosa di diverso. Non si tratta di un evento di un giorno o di qualche settimana. Non si tratta di un “Black Friday” o di un “Black Monday”. Questa volta, se si vuole continuare con questa denominazione, si può parlare di “Black Year”

Gli incendi in Australia sono iniziati 121 giorni fa e da 17 settimane ininterrotte stanno divorando l’Australia. Il 6 settembre i primi roghi sono divampati nel Nuovo Galles del Sud, nel sud est del paese, e da lì si sono rapidamente estesi arrivando a toccare a inizio novembre il Wollemi National Park, alle porte di Sidney. Attualmente si contano circa 90 focolai diversi tra Nuovo Galles del Sud, Vittoria e Queensland con un’area di oltre 5 milioni di ettari, quanto Piemonte e Lombardia messi insieme, già distrutta dalle fiamme. Nel sud est del paese, la regione più popolosa, è stato dichiarato lo stato di emergenza e venerdì oltre 100.000 persone sono state evacuate anche via mare con mezzi della marina militare in quella che è la più grande evacuazione della storia. Centinaia di proprietà sono andate distrutte e 24 persone hanno già perso la vita mentre le fiamme, alimentate da un forte vento e da temperature di oltre 40° C, minacciano Sidney. La città più popolosa dell’Australia è circondata dalle fiamme e rischia di rimanere isolata con continue interruzioni di corrente dopo che la rete elettrica è stata danneggiata dagli incendi. Intanto, per far fronte ad un’emergenza senza precedenti, è partita la più grande mobilitazione dal dopoguerra ad oggi con il premier Scott Morrison che ha richiamato oltre 3.000 riservisti da schierare sul territorio per aiutare i vigili del fuoco. Intanto uno dei simboli dell’Australia è andato completamente distrutto: Sull’Isola dei Canguri, al largo di Adelaide nel sud del paese, oltre 10 mila ettari del Flinders Chase National Park, santuario per le specie in via di estinzione, sono andati in fumo.


Conseguenze – È una strage senza precedenti. Il cielo sopra l’Australia è grigio e arancione. Il fumo e la cenere stanno avvolgendo gradualmente l’intero paese causando problemi di respirazione a buona parte della popolazione. Secondo i dati raccolti, Sidney in questi giorni è la città più inquinata sull’intero pianeta. Il fumo e la cenere sono arrivati fino alla in Nuova Zelanda, dove le nevi e i ghiacciai si sono tinti di marrone. L’impatto degli incendi sull’inquinamento è stato fortissimo. Le fiamme, secondo i dati diffusi dalla NASA, avrebbero provocato l’emissione di 250 milioni di tonnellate di CO2, la maggior parte delle quali, circa 195 milioni di tonnellate, generate dai roghi scoppiati nelle antiche foreste del Nuovo Galles del Sud. Si tratta di cifre impressionanti equivalenti a circa la metà delle emissioni annuali medie dell’intero paese (532 milioni di tonnellate di CO2 emesse dall’Australia nel 2018).

Ma se l’inquinamento da fumo è la conseguenza più evidente della catastrofe che sta attraversando l’Australia, ce n’è una più nascosta ma forse più preoccupante. Dall’inizio degli incendi si stima che siano morti quasi 500 milioni di animali. La stima, effettuata dai ricercatori dell’Università di Sidney, si basa su un rapporto del 2007 del World Wild Fund for Nature (Wwf) relativo agli impatti del disboscamento sulla fauna selvatica australiana. Se la gran parte degli animali è morta nei roghi, molti altri hanno perso la vita per intossicazioni da fumo ma ancor più preoccupante è la situazione per tutti quegli animali scampati ai roghi ma che ora si trovano a dover vivere in un habitat diverso dal loro. Colpito duramente dalla catastrofe è anche l’animale simbolo dell’Australia. Circa 8.000 koala hanno infatti perso la vita negli incendi. Si tratta di quasi un terzo della popolazione totale dello stato che, con quasi 28.000 esemplari, era ritenuta la patria naturale di questa specie. I Koala, spiegano gli scienziati, sono particolarmente vulnerabili agli incendi perché vivono sugli alberi, facilmente infiammabili, è perché si spostano molto lentamente con velocità medie di circa 2 Km/h e massime di 20 km/h per gli esemplari più giovani. Se sarà necessario attendere la fine degli incendi per valutarne l’impatto, si può stimare che ad oggi circa il 30% dell’habitat naturale di questi animali sia andato distrutto. I ricchi ecosistemi che caratterizzavano il continente stanno sparendo trasformandosi in aride distese di cenere. L’impatto ambientale rischia dunque di essere devastante sia per la distruzione della flora e della fauna, con diverse specie che potrebbero trovare l’estinzione se i roghi continuassero, sia per l’inquinamento che stanno provocando le fiamme.

Suicidio Climatico – Ma anche per un evento di questa portata, non si può parlare esclusivamente di fatalità. Se temperature elevate e venti caldi non sono contrastabili, se non con un cambio di rotta globale in risposta ai cambiamenti climatici, la situazione poteva certamente essere gestita in maniera migliore. Il premier Scott Morrison, la cui partenza con la famiglia per festeggiare Capodanno aveva provocato un vero e proprio scandalo costringendolo a tornare, è stato duramente contestato durante la sua visita nel Nuovo Galles del Sud. Molti dei volontari impiegati nell’area si sono rifiutati di stringere la mano al premier in segno di protesta per le sue decisioni politiche che, secondo molti, avrebbero favorito il propagarsi delle fiamme. La mancanza di fondi e di mezzi e la sua iniziale contrarietà allo stanziamento di circa 4 milioni per garantire un compenso alle migliaia di volontari impegnati in tutto il paese hanno alimentato parecchie critiche. Le sue posizioni sono sempre più impopolari e le sue recenti dichiarazioni non fanno che alimentare lo scontento di un popolo in ginocchio. “Continuerei a chiedere alle persone di essere pazienti” ha detto in conferenza stampa. “So che puoi avere bambini in macchina e c’è ansia e c’è stress e il traffico non si muove rapidamente ma la cosa migliore da fare è mantenere ordine e calma”.

Dichiarazioni che non migliorano certo la posizione del premier che da diverso tempo è accusato anche politicamente di essere passivo di fronte ai problemi del clima e di essere in combutta con la lobby del carbone. Dalle pagine del New York Times, il giornalista Richard Flanagan ha definito quello che sta avvenendo con il “suicidio climatico dell’Australia” sottolineando la riluttanza da parte dei governi conservatori a rispettare gli impegni internazionali sul clima. Scott Morrison non è altro che la figura apicale di un sistema politico imprenditoriale impegnato da diverso tempo in un’azione di negazionismo climatico. Ne è una prova lo United Australia Party, partito politico creato dal magnate del carbone Clive Palmer con l’unico scopo di togliere voti ai laburisti ed impedirgli di prendere il potere e attuare politiche più green. E se la politica si muove in una direzione senza ritorno, la stampa le dà man forte. Rupert Murdoch, il moloch dei media planetari che nel suo paese controlla il 58%, da anni utilizza i suoi media per diffondere notizie apertamente schierate sul negazionismo climatico. Posizioni certamente funzionali alla difesa del settore più remunerativo dell’Australia, primo esportatore al mondo di gas e carbone, ma altrettanto sicuramente dannose non solo per il paese ma anche, in prospettiva più ampia, per l’intero pianeta.

Ma c’è una nuova speranza che nasce da questi incendi. Gli australiani, nonostante la macchina della propaganda lavori a pieno regime, si stanno accorgendo dell’incompetenza di un premier che non ammette i propri errori e anzi sostiene che gli incendi siano “solamente in minima parte” dovuti alle sue politiche. La rabbia nei confronti di Morrison è esplosa e il consenso nei suoi confronti è in picchiata. Da qui deve ripartire l’Australia. I roghi che stanno devastando il paese possono essere per il popolo australiano un nuovo inizio. Possono essere l’evento scatenante di una presa di coscienza collettiva. L’inizio di un cambiamento profondo che scuota l’intera popolazione a partire dalle cariche di governo. Perché, come si auspica nell’inno nazionale scritto dal britannico Peter Dodds McCormick, la bella Australia possa migliorarsi anche in questa terribile fase storica e i suoi abitanti possano tornare a vivere una vita normale. E possano tornare a cantare, con un po’ più di speranza

In joyful strains then let us singAdvance Australia fair!