Il punto su Hong Kong

Il movimento, nato pacifico, sta diventando sempre più violento e radicale in risposta agli abusi della polizia. Il ritiro della legge sull’estradizione non ha placato le proteste che da ventiquattro settimane scuotono l’ex colonia britannica e gli Hongkongers non sembrano intenzionati a fare passi indietro mentre lo spettro di una nuova Tienanmen incombe.
9 giugno 2019. A tre giorni dalla discussione in parlamento della legge sull’estradizione voluta dalla governatrice Carrie Lam, il ‘Fronte per i diritti umani’ convoca una marcia di 3km per esprimere il proprio disappunto sul provvedimento. La manifestazione è un successo. Oltre un milione di persone si riversa per le strade di Hong Kong sfilando pacificamente da Victoria Park fino al LegCo, il palazzo governativo. È l’inzio di un movimento di protesta che, da quel momento, non si è più fermato arrivando alla 24° settimana consecutiva di proteste. Un movimento nato pacifico, trasversale ed immenso in grado di portare in piazza due milioni di persone (due volte la popolazione totale di Napoli, per intenderci) nel pomeriggio del 16 giugno. Un movimento che, però, con il passare delle settimane è diventato sempre più violento e deciso e di conseguenza meno partecipato e condiviso da chi quella violenza l’ha sempre rifiutata.
Con il passare delle settimane sono cambiate anche le richieste dei manifestanti al governo. L’Extradition Bill, la controversa legge che aveva dato il via alle manifestazioni, è stata prima sospesa e poi ritirata definitivamente dalla governatrice Carrie Lam. Un gesto di debolezza da parte della Chief Eecutive che, oltre ad averne minato in parte la credibilità agli occhi di Pechino, non ha sortito l’effetto sperato. Le proteste infatti non si sono fermate e i manifestanti hanno ribadito con forza lo slogan che li accompagna da ormai 6 mesi: “5 demands, not one less”. Cinque domande. Cinque richieste al governo e nessuna intenzione di rinunciare a nessuna di queste: il ritiro, già ottenuto della legge sull’estradizione; il rilascio di tutti i manifestanti arrestati; le dimissioni di Carrie Lam; il suffragio universale per l’elezione del consiglio legislativo e dello Chief Executive; l’istituzione di una commissione indipendente sulle violenze della polizia.
Proprio la polizia è infatti finita in questi mesi al centro delle polemiche. La repressione messa in atto dalle forze dell’ordine è stata in varie occasioni brutale e spropositata ed ha contribuito a radicalizzare e rendere più violento anche il movimento nato pacificamente. Una spirale di violenza in cui gli abusi della polizia hanno causato gli assalti sempre più duri da parte dei manifestanti innescando un infinito circolo vizioso. Se in questi mesi abbiamo assistito ad episodi estremi da entrambi gli schieramenti (dall’occupazione del LegCo, alle cariche indiscriminate in luoghi chiusi) il culmine lo si è raggiunto lunedì mattina. Alle prime luci dell’alba, infatti, un agente ha colpito con tre colpi di pistola a bruciapelo un manifestante disarmato che ora versa in condizioni critiche in ospedale. La reazione dei manifestanti è stata violentissima. La città è stata messa a ferro e fuoco ed un cittadino cinese, che si era avvicinato per provocarli, è stato cosparso di liquido infiammabile e dato alle fiamme. La rabbia dei manifestanti e gli abusi della polizia hanno contribuito a ridurre la partecipazione che, se inizialmente vedeva la partecipazione di 2/3 della popolazione, ora è limitata a circa 100/200 mila persone. Numeri altissimi, certo, ma non paragonabili alla marea umana che fino a metà luglio riempiva la città ogni weekend.
Ma nonostante i numeri parzialmente ridotti, la città è sotto scacco. Dopo le violenze di lunedì, i manifestanti hanno deciso di rimanere in piazza dando vita a quello che, di fatto, è il più lungo scontro con la polizia dall’inizio delle proteste. Tre giorni ininterrotti di tumulti e guerriglia urbana stanno paralizzando Hong Kong. I manifestanti hanno preso di mira semafori e stazioni della metro paralizzando di fatto il traffico in gran parte della città. Si stima che circa 200 semafori siano stati divelti o danneggiati e gli incroci stradali bloccati con barricate improvvisate mentre gli scontri più violenti si registrano nella zona dell’Università Cinese di Hong Kong. Le forze dell’ordine da lunedì sera sono schierate in tenuta antisommossa intorno al Campus occupato dai manifestanti e hanno ripetutamente tentato di liberarlo con gas lacrimogeni e proiettili di gomma. A nulla è servita la mediazione dei vertici dell’Università che hanno chiesto alle forze dell’ordine di non entrare negli spazi dell’ateneo dove, invece, da giorni va in scena una vera e propria battaglia in cui sono comparsi anche archi e frecce infuocate. Secondo i dati diffusi dalla polizia nella sola giornata di lunedì gli scontri avrebbero interessato 50 aree della città e avrebbero portato all’arresto di 287 persone (e altre 150 nella giornata martedì) e all’utilizzo di 255 candelotti lacrimogeni, 90 granate in spugna e 204 proiettili di gomma. La città è nel caos totale, la polizia fatica a muoversi in città e sedare le proteste per via dei blocchi stradali, gli studenti cinesi sono stati evacuati con una nave militare e il governo condanna le violenze ma non riesce a fermarle. Una situazione ormai fuori controllo che sta evidenziando tutti i limiti di Carrie Lam, sempre più incapace di riportare l’ordine in citta.
Proprio la Chief Executive è stata al centro di diversi rumors circa un piano, smentito da Pechino, per costringerla alle dimissioni e sostituirla a inizio 2020 dopo aver sedato le proteste con la forza. Una serie di decisioni e dichiarazioni controverse e, per certi versi incomprensibili, prese dalla governatrice hanno infatti contribuito ad alimentare le proteste invece di sedarle. Dalla sospensione dell’Extradition Bill al divieto di indossare maschere, dal supporto totale alla violenza delle forze dell’ordine all’accusa di egoismo ai manifestanti che paralizzano la città: Carrie Lam sta gettando benzina sulle fiamme che da 7 mesi bruciano Hong Kong. Un atteggiamento certo non gradito a Pechino che vede nelle proteste una sfida al suo nazionalismo e non può tollerarle ancora a lungo mentre le democrazie di tutto il mondo guardano con soddisfazione l’assalto degli Hongkongers all’autoritarismo del potente vicino.  Una situazione critica in cui la Cina starebbe meditando di agire in prima persona. Se da tempo, infatti, infatti si vocifera di un possibile intervento dell’esercito cinese per ripristinare l’ordine, le nuove violenze potrebbero portare il governo a prendere una decisione drastica e irreversibile. A lanciare l’avvertimento è stato il “Global Times”, giornale cinese vicino al governo, che ha paragonato i manifestanti all’ISIS e ha ricordato come “l’Esercito Popolare Cinese può entrare ad Hong Kong e riportare la calma”.
Mentre Hong Kong brucia ed affronta la prima recessione da 10 anni a causa delle proteste che ne hanno paralizzato l’economia la Cina resta alla finestra. Ma la sensazione è che non tollererà ancora a lungo tutto questo. Ora più che mai, lo spettro di una nuova Tienanmen incombe sull’ex colonia britannica.

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