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Obiettivo: scuole e ospedali

Le forze governative insieme agli alleati russi hanno intensificato gli attacchi a strutture civili colpendo ripetutamente scuole, ospedali, moschee, mercati e strutture residenziali costringendo quasi un milione di persone a fuggire nei primi due mesi del 2020.

“In Siria sta andando in scena la più grande violazione dei diritti umani nel 21° secolo. Assistiamo ad una violenza indiscriminata. Ospedali, scuole, strutture residenziali, moschee, mercati vengono sistematicamente colpiti.” A dirlo è Mark Lowcock, sottosegretario generale dell’ONU per i diritti umani, sottolineando come nell’area nordoccidentale del paese l’esercito siriano e gli altri attori coinvolti nel conflitto colpiscano, spesso volontariamente, strutture e obiettivi civili. Una frase che fotografa il dramma di un paese che da nove anni affronta una guerra che non accenna a placarsi e che ha già costretto oltre 6 milioni di cittadini ad abbandonare le proprie case per chiedere rifugio in altri paesi.

Le forze governative e alleate tra l’aprile 2019 e il febbraio 2020 hanno colpito con attacchi via aria e via terra, spesso con l’utilizzo di armi vietate da convenzioni internazionali, 53 strutture mediche e 95 scuole di cui molte adibite a rifugio per i civili. Tra dicembre e febbraio sono stati 10 gli ospedali colpiti dalle forze siriane e russe tra Idlib ed Aleppo provocando la morte di nove tra medici e personale sanitario e costringendo le strutture a chiudere ed interrompere le attività di assistenza. L’ultimo in ordine di tempo è stato poco prima del cessato il fuoco dichiarato a inizio marzo a causa dell’epidemia da coronavirus. Il 17 febbraio con due diversi attacchi aerei sono stati colpiti due ospedali nella città di Daret Izza, a ovest di Aleppo. Nel giro di una decina di minuti i razzi russi e siriani hanno distrutto prima l’“al-Ferdous Hospital” e poi l’“al-Kinana hospital” provocando ingenti danni ma, fortunatamente nessuna vittima. I testimoni raccontano di aver avuto subito la certezza che fossero proprio gli ospedali l’obiettivo dell’attacco. Un bombardamento mirato che non ha colpito nulla al di fuori delle due strutture sanitarie in un momento della giornata, tra le 11 e mezzogiorno, in cui erano piene di pazienti e personale medico. Solo poche settimane prima, con tre diversi raid aerei, l’aviazione russa aveva colpito l’ospedale di Ariha provocando il crollo di alcuni complessi residenziali e di parte dell’ospedale oltre alla morte di un medico e almeno 10 civili. Attacchi che lasciano paralizzati e increduli i testimoni e che lo stesso dovrebbero fare con il resto del mondo. “Il mio lavoro è aiutare le persone” ha raccontato ad Amnesty International un medico di Ariha “ma sono rimasto impotente e paralizzato davanti a questo. Perché? Assad ci bombarda perché aiutiamo esseri umani?”.

Ancor più evidente è la volontà di colpire i civili quando l’obiettivo dei raid diventano le scuole. Secondo l’Ong siriana Hurras Network (Rete siriana per la protezione dei bambini), nei soli primi due mesi di questo 2020 sono state 28 le strutture scolastiche, sia utilizzate come rifugi sia per scopi educativi, colpite dai bombardamenti russi e siriani. Di quelle 28, 10 sono state colpite con attacchi quasi simultanei nello stesso giorno: il 25 febbraio 2020. “Ho lasciato mio figlio a scuola alle 8.00” racconta una madre ad Amnesty International “e alle 9 ho sentito le esplosioni. Sono corsa a scuola senza sapere cosa fosse successo ed ho visto mio figlio in piedi davanti all’edificio distrutto. Gli insegnanti hanno fatto evacuare i ragazzi ma non sono riusciti a fuggire. Molti erano feriti. Almeno tre erano morti”. Come per gli ospedali, anche i bombardamenti alle scuole non lasciano spazio per i dubbi. Lontane da obiettivi militari o da zone di combattimento, gli edifici scolastici sono diventati obiettivi a tutti gli effetti per le truppe governative che negli ultimi mesi prima del cessate il fuco hanno aumentato la frequenza e l’intensità degli attacchi a obiettivi civili. Non si può più parlare di incidenti.

Si tratta di reiterate e sistematiche violazioni del diritto internazionale secondo il quale gli attori coinvolti in un conflitto devono distinguere tra obiettivi militari e civili e colpire solo ed esclusivamente i primi. Crimini di guerra che stanno costringendo la popolazione siriana al più grande esodo di massa mai registrato. Se dal 2011 al 2019 sono stati circa 6 milioni i cittadini siriani che hanno chiesto asilo in altri paesi, si stima che l’avanzata delle forze governative abbia costretto circa 960.000 civili, di cui circa l’80% donne e bambini, a lasciare le loro case tra il dicembre 2019 e il febbraio 2020. Quasi un milione di sfollati costretti a scappare verso la Turchia o a cercare riparo in moschee o scuole sperando che non vengano colpiti. E se il cessate il fuoco di inizio marzo ha posto un freno ad una situazione che sembrava potesse toccare un punto di non ritorno, non ha alleviato le sofferenze di chi è scappato da casa propria per sfuggire alla morte. Con aiuti umanitari sempre più difficili e condizioni sempre più disumane, i crimini di Assad hanno conseguenze pesantissime anche quando non arrivano le bombe. Lo testimoniano le parole di una bambina in lacrime mentre con la madre cerca l’ennesimo rifugio: “Perché Dio non ci uccide? Nessun posto è più sicuro per noi”.

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Fonte: Amnesty International, Nowhere is safe for us – Unlawful attacks and mass displacement in north-west syria, maggio 2020

Inferno a Saydnaya

“Conoscevamo bene Saydnaya. Sapevamo di essere arrivati all’inferno”. Partendo dalle parole di chi è sopravvissuto ricostruiamo le torture e le violenze portate avanti nel più pericoloso penitenziario siriano dove dal 2011 tutto si svolge in segreto senza che nessuno possa accedervi.

A 25 km a nord di Damasco, vicino all’antico monastero di Saydnaya, dove cristiani e musulmani hanno pregato insieme per secoli, si trova un punto nero sulla mappa dei diritti umani: la prigione di massima sicurezza di Saydnaya. Una struttura a tre braccia, che si staglia in mezzo ad un’area desertica di oltre cento ettari, a cui viene vietato costantemente l’accesso a chiunque ne faccia richiesta. Nessuno, dal 2011 ad oggi è mai potuto entrare nel penitenziario militare dove dall’inizio della rivoluzione sono stati incarcerati, torturati e spesso uccisi centinaia di migliaia di oppositori politici. Diverse testimonianze di ex detenuti raccolte da Amnesty International hanno contribuito a scoprire cosa accade in quella fortezza inespugnabile in cui i militari del regime fanno il bello e il cattivo tempo.

Il primo ricordo di quell’inferno è per tutti il “comitato di benvenuto” che accoglie i nuovi detenuti arrivati al penitenziario. “Hanno iniziato ad insultarci” racconta Jamal Abdou “ci hanno spogliato e fatto inginocchiare con le mani dietro la schiena e gli occhi bendati. Poi hanno iniziato a picchiarci. Volevano vedere quanto ognuno di noi potesse resistere.” È solo l’inizio di un inferno. I detenuti, ammassati a decine in celle di due metri per due progettate per un solo individuo, sono costretti a stare al buio. Senza vedere i propri compagni, senza vedere i propri carcerieri. Samer al-Ahmed ricorda come unico spiraglio di luce una piccola finestrella sulla porta, a 30 cm dal pavimento, dove era costretto a infilare la testa mentre i militari all’esterno la calciavano con forza. E mentre il buio avvolge tutto, l’udito diventa l’unico senso utile per capire cosa accade intorno. “Cerchi di ricostruire quello che ti circonda attraverso l’udito” spiega Salam Othman, anche lui ex detenuto, “Riconosci i militari dal suono dei loro passi. Capisci quando sta per arrivare il cibo dal rumore dei piatti. Se senti urlare qualcuno sai che sono arrivati nuovi prigionieri. Chi è a Saydnaya da tanto tempo non grida più. Chi è a Saydnaya da tanto tempo sa che più gridi, più loro picchiano.”

A Saydnaya non si cercano prove. Non si vogliono strappare confessioni attraverso torture e minacce. Non si vogliono estrapolare i nomi di attivisti o rivoltosi. L’unico obiettivo, nel penitenziario più temuto della Siria, è quello di far crollare i detenuti. Botte, minacce, insulti e abusi. Tutto con il solo obiettivo di far crollare fisicamente e psicologicamente non solo attivisti ed oppositori politici ma anche semplici cittadini. Una sorta di gioco perverso per logorare giorno dopo giorno i detenuti. Svegliati alle 3 del mattino e costretti a rimanere in ginocchio nel buio della cella. Senza poter parlare, senza poter pregare, senza poter bere né mangiare. E per chi non rispetta le regole o si lamenta c’è la tortura. Bastoni, cavi elettrici, scosse, bruciature, catene. “Il senso di paura e impotenza è inimmaginabile” riporta un altro ex detenuto, testimone al processo di Coblenza, “ho sperato più volte di morire”. E sono molti in effetti quelli che da quel penitenziario non sono mai usciti. Torturati a morte, lasciati morire nelle celle senza alcuna assistenza medica o giustiziati. A Saydnaya si muore ogni giorno. E proprio il numero sempre crescente di decessi a partire dall’inizio della rivoluzione del 2011 ha costretto il regime a costruire di fianco alla prigione un forno crematorio. Comparso quasi dal nulla nel 2016 si è reso necessario con l’incremento delle esecuzioni di massa, solitamente tramite impiccagione, che ha reso impossibile la creazione di altre fosse comuni in cui far sparire i cadaveri. Dal 2011 ad oggi, denunciano diversi gruppi per i diritti umani, le esecuzioni sono continuate con ritmi sempre più elevati arrivando a 50 ogni settimana. Si stima che tra il 2011 e il 2016, nei primi cinque anni del conflitto civile, abbiano perso la vita nel penitenziario tra i 10.000 e i 15.000 detenuti i cui corpi non sono mai stati ritrovati.

Ma chi riesce ad uscirne rimane segnato a vita. Sfigurato da un’esperienza che non ha eguali nella storia recente. Un luogo dove si tortura senza uno scopo, senza un motivo. Un luogo dove la violenza gratuita diventa una tremenda normalità. Omran Al-Khatib è rimasto dieci mesi nel penitenziario tra il 2012 e il 2013, quando ne è uscito pesava 32 kg e aveva riportato traumi psicologici pesantissimi curati per anni in Turchia. Ma se dalla sua testimonianza e da quelle di tanti altri sopravvissuti il mondo sta scoprendo l’orrore di Saydnaya, c’è una cosa che ancora non riesce ad accettare: “Perché ora che sapete cosa accade, nessuno fa niente per fermarlo? Questa non è forse complicità?”

Nome in codice: Caesar

Oltre cinquantamila foto di torture, omicidi, documenti segreti ed abusi. “Caesar” ha documentato per due anni quello che accadeva nelle carceri siriani per poi fuggire dal paese temendo per la sua vita. Quelle foto, ora, sono la principale prova delle violenze sistematiche del regime di Assad.

Mentre il mondo guarda all’ISIS, in Siria è il regime di Bashar al-Assad a mietere vittime civili e commettere indicibili reati. Una situazione che si protrae dall’inizio della rivoluzione cominciata nel 2011 e sfociata in un’infinita guerra. Una guerra civile che ha potato il regime di Assad a perpetrare gravi crimini contro i civili trasformando di fatto la Siria in un paese in cui tortura e violenze di stato sono all’ordine del giorno. Per anni la situazione siriana è rimasta taciuta, con i paesi occidentali distratti che non hanno visto, o hanno preferito non vedere. Per anni ci si è trincerati dietro un “io so, ma non ho le prove” di pasoliniana memoria. Fino a quando quelle prove sono arrivate. Come un pugno nello stomaco un dossier infinito di foto, documenti, metadati ha mostrato al mondo le atrocità di cui è capace il regime siriano dando il via ad indagini internazionali sfociate, fino ad ora, nella “Norimberga Siriana” di Coblenza.

“Caesar”. È questo lo pseudonimo utilizzato da un disertore dell’esercito siriano, in servizio tra il 2011 e il 2013, che fuggito dal paese ha deciso di diffondere tutto quello che possedeva. Durante la rivoluzione era stato incaricato, da ufficiali dell’esercito, di documentare fotograficamente quello che accadeva nelle carceri. Quelle foto, però, con l’aiuto di un amico le ha sistematicamente copiate e conservate su una chiavetta usb. Ogni giorno per due anni. Nell’agosto 2013 però, temendo per la sua vita, ha disertato abbandonando l’esercito e scappando dal paese in mezzo ai quasi 11 milioni di profughi che hanno lasciato il paese in questi 9 anni. Ma quelle foto, raccolte scrupolosamente ogni giorno per due anni, rappresentano la più grande prova delle atrocità commesse dal regime di Assad. Oltre 55.000 scatti che ritraggono i corpi senza vita di detenuti torturati, le fosse comuni, documenti riservati e stanze per torture.

Il rapporto sulle fotografie è stato presentato alle Nazioni Unite ed al Congresso americano e, incrociando quelle immagini con le testimonianze di altri rifugiati, è stato ricostruito un quadro completo. Le foto di Caesar hanno documentato la morte di migliaia di detenuti a causa di percosse, denutrizione, sete e almeno 72 tipi diversi di torture inflitte nelle carceri siriane dagli agenti del regime. Appesi per i polsi e presi a bastonate, colpiti con scosse elettriche, violentati sessualmente, picchiati fino a perdere i sensi. Dalle fotografie e dalle testimonianze emerge una lista interminabile di violenze e abusi che rappresentano però solo la punta di un iceberg profondissimo. Perché mentre il rapporto di Caesar copre solo due anni di una guerra civile ancora in corso, il bilancio è in realtà drammaticamente più elevato. Si stima che dal 2011 ad oggi siano stati circa 1,2 milioni i civili arrestati e detenuti in Siria dal regime di Assad e di circa 128.000 di loro non si hanno più notizie, inghiottiti per sempre dalle terribili carceri gestite da esercito e servizi segreti. Secondo un rapporto del “Syrian Network for Human Rights” sarebbero almeno 14.000, di cui circa 200 bambini, le persone morte in carcere durante le torture ma il numero diventa almeno 10 volte più grande se si considerano le morti per fame, disidratazione, percosse o le esecuzioni sommarie. Una vera e propria guerra, non contro ribelli armati ma contro i propri cittadini indifesi e pacifici colpevoli solo di avere idee diverse da quelle di Bashar al-Assad.

Così, mentre le forze armate siriane con i propri alleati russi e iraniani combattono i ribelli armati, i servizi segreti ed i funzionari del regime si occupano della resistenza civile non violenta. Per quanto il governo abbia sempre cercato di negare l’esistenza di abusi sistematici nelle prigioni del paese, la diffusione delle immagini di Caesar e di alcuni memo governativi trafugati e portati all’estero confermano il ruolo centrale del regime. Ad ordinare le torture sono funzionari in diretto contatto con Assad il quale era sempre aggiornato sulla situazione delle carceri e a cui è stato più volte chiesto un intervento per smaltire l’eccessivo numero di cadaveri. E mentre la guerra in Siria rallenta e l’attenzione del mondo sul conflitto cala, non diminuiscono gli arresti. L’anno scorso sono stati oltre cinquemila i civili arrestati, oltre 100 ogni settimana. Costretti a vivere in celle così affollate che si alternano per stare sdraiati a terra a dormire, senza cibo né acqua per giorni, senza alcun tipo di assistenza medica. E mentre si avvicina sempre più la fine del conflitto armato, con la vittoria delle truppe alleate al regime, ricominciano anche le relazioni diplomatiche tra Damasco e diversi stati. Assad, protetto dai propri alleati, si prepara ad una impunità assoluta che gli permetterà di mantenere il potere senza dover rendere conto delle atrocità commesse durante il conflitto.

La Norimberga siriana

È iniziato in Germania il primo processo ad alti funzionari del regime siriano chiamati a rispondere di oltre 4000 torture compiute nelle carceri del paese durante la rivoluzione del 2011. Speranze e timori dietro un processo che potrebbe entrare nella storia.

23 aprile 2020, Tribunale Superiore di Coblenza, Germania. Seduti al banco degli imputati Anwar Raslan e Eyad al-Gharib, 57 e 43 anni, cercano di sfuggire agli obiettivi delle macchine fotografiche mentre un giudice legge per la prima volta capi d’accusa che potrebbero entrare nella storia. Crimini contro l’umanità, tortura, stupro, aggressione sessuale aggravata e 58 omicidi. Per la prima volta due funzionari di alto grado dell’apparato repressivo di Assad sono portati davanti alla giustizia. Per la prima volta un tribunale è chiamato ad esprimersi sulle atrocità commesse dal regime siriano nei confronti dei suoi cittadini. Un momento storico che da molti è già stato definito come “la Norimberga siriana”.

La giustizia tedesca vuole arrivare dove nemmeno la Corte dell’Aja è arrivata. Le Nazioni Unite, infatti, non hanno potuto ricorrere al Tribunale Internazionale a causa del veto posto dalla Russia che ha bloccato ogni tentativo di processare il regime di Assad per crimini contro l’umanità. In Germania, però, il processo si è reso possibile grazie alla decisione della corte di appellarsi al principio della “giurisdizione universale” che autorizza uno stato a perseguire gli autori di crimini ritenuti particolarmente gravi o lesivi per tutti a prescindere dalla loro nazionalità o dal luogo in cui i fatti sono stati commessi. La sezione speciale sui crimini di guerra presso la polizia federale tedesca, istituita nel 2003 per indagare sui sospetti genocidi avvenuti nella Repubblica Democratica del Congo e durante le guerre nell’ex Jugoslavia, ha negli ultimi anni incentrato le sui indagini sul regime di Assad. Tra il 2015 e il 2017 con l’arrivo di migliaia di profughi siriani nel paese, l’unità contro i crimini di guerra ha ricevuto oltre 2.800 denunce di torture e altre violazioni commesse ai danni della popolazione durante la rivoluzione. Su Raslan e al-Gharib, in particolare, la corte ha a disposizione una trentina di denunce fatte da rifugiati siriani alla procura generale di Karlsruhe oltre ad un dossier con oltre 50mila immagini fornite da “Caesar”, pseudonimo di un ex ufficiale dell’esercito siriano che prima di fuggire dal suo paese nel 2013 documentò le torture e gli omicidi nelle carceri del paese.

I crimini commessi dai due imputati, per i quali si sono dichiarati innocenti nelle udienze dei giorni scorsi, sarebbero tutti relativi alla loro attività nella “Sezione 251” del carcere di Damasco. Un luogo tristemente noto agli attivisti siriani che durante la rivoluzione del 2011 si opposero al regime e che proprio in quel carcere vennero imprigionati in massa generando un sovraffollamento tale da costringerli a dormire in piedi appoggiati ai muri. Proprio nella “Sezione 251” si sarebbero registrate poi le torture più violente che spesso si protraevano fino alla morte del detenuto: chi ne è uscito vivo ha raccontato di persone picchiate fino a perdere conoscenza, colpite da scariche elettriche, appese per i polsi, infilate dentro uno pneumatico e percosse ancora. Raslan era tra i due il più alto in grado, colonnello dell’esercito siriano è stato tra il 2011 e il 2012 a capo proprio della “Sezione 251” e grazie al suo ruolo di vertice avrebbe ordinato oltre 4.000 torture ai danni di detenuti causando la morte di 58 di essi. Al-Gharib, invece, era un semplice soldato e avrebbe eseguito almeno una trentina delle torture ordinate dal suo superiore. Contro di loro saranno chiamati a testimoniare sei rifugiati siriani sopravvissuti a quelle torture che hanno riconosciuto in Raslan e al-Gharib i loro carcerieri.

Il processo di Coblenza, che sta procedendo con un ritmo serrato di 3 udienze a settimana, potrebbe durare a lungo e potrebbe diventare un primo passo per un’azione più incisiva nei confronti del regime di Assad che, in nove anni di guerra, ha ucciso centinaia di migliaia di civili e costretto undici milioni di siriani a fuggire dal proprio paese. È però necessario che a questo primo passo ne seguano altri senza che si inneschi un meccanismo di autocompiacimento che porti gli stati a pensare di aver fatto abbastanza. Quello di Coblenza, non può e non deve essere un punto di arrivo ma un punto di partenza che possa avviare una nuova stagione in grado di coinvolgere diversi paesi, uniti nel chiedere verità e giustizia per quello che sta accadendo in Siria. Serve un processo, inteso questa volta come percorso, che possa mettere a nudo quel regime che ha distrutto intere città provocando devastazione e dolori indicibili senza distinguere tra donne, bambini, giovani o anziani. Perché se nelle corti internazionali, Assad e i suoi funzionari possono contare sulla solidarietà dei loro alleati in grado di fermare ogni processo e garantire l’immunità, il regime si scopre ora fragile davanti alle corti nazionali su cui non possono intervenire in alcun modo. Il processo di Coblenza manda un chiaro messaggio a chi in Siria, ancora oggi, compie crimini quotidiani contro i civili: è finito il tempo delle impunità. Presto o tardi arriverà tutti saranno chiamati a risponderne.