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Gino Bartali e l’impresa al Tour che salvò l’Italia dalla guerra civile

Era il 1948 e a tre mesi dalle prime elezioni della storia Repubblicana, l’Italia era sull’orlo di una guerra civile con milioni di persone scese nelle strade dopo l’attentato a Togliatti. La situazione sembrava irrimediabilmente compromessa ma l’impresa di Bartali cambiò l’inerzia della storia.

14 luglio 1948, Roma. Sono da poco passate le 11.30 quando in tutta Italia si diffonde a macchia d’olio una notizia che getta il paese nello sconcerto: “Hanno sparato a Togliatti”. Il leader del Partito Comunista, raggiunto da quattro colpi di pistola mentre usciva da Montecitorio con Nilde Iotti, viene trasportato d’urgenza in ospedale. La natura politica dell’attentato è immediatamente evidente con l’arresto di Antonio Pallante, studente di giurisprudenza e fervente anticomunista spaventato dagli effetti che la politica del PCI avrebbe potuto avere sul paese. La reazione è immediata e feroce. La CGIL proclama uno sciopero generale e in tutta Italia milioni di persone manifestano la loro rabbia e il loro sconforto per il ferimento del leader comunista. A Torino gli operai della FIAT occupano la fabbrica e sequestrano nel suo ufficio l’amministratore delegato Vittorio Valletta. La circolazione ferroviaria si ferma e i telefoni smettono di funzionare mentre i manifestanti si scontrano sempre più ferocemente con le forze dell’ordine. La sera del 14 luglio il bilancio è di 14 morti e centinaia di feriti. L’Italia sembra a un passo dalla guerra civile.

14 luglio 1948, alpi francesi. È in corso il “Tour de France” ma quel giorno, festa nazionale per i transalpini, non si corre. I corridori trascorrono la giornata al fresco in attesa delle prime grandi salite che potrebbero decidere la Grand Boucle, ma per gli italiani le speranze sono poche. Lo sa anche Gino Bartali che un Tour de France lo ha vinto esattamente dieci anni prima ma che ora, a 34 anni, fatica a tenere il passo degli avversari più giovani. Bartali in quel Tour era partito bene conquistando la prima maglia gialla a Trouville sur Mer, ma tappa dopo tappa ha perso un minuto dopo l’altro e a 9 tappe dall’arrivo a Parigi è settimo con un ritardo di oltre 21 minuti dal leader della classifica generale Louis Bobet. Ma la sera di quel 14 luglio qualcosa sta per cambiare.

A questo punto la leggenda si intreccia con la storia confondendone i confini. L’unica certezza è che, intorno alle 21 di quel 14 luglio, nell’hotel della squadra italiana arriva una chiamata per Gino Bartali. È il Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi, amico ed estimatore del campione toscano. “Caro Gino, qui c’è una gran confusione. Abbiamo bisogno anche di lei. La prego vinca domani! Vinca il Tour de France!”. La telefonata spiazza Ginaccio, come era soprannominato da amici e tifosi. “Presidente” gli rispose “domani c’è la prima tappa di montagna ma è durissima. Non posso garantirle che vincerò il Tour, ma domani ce la metterò tutta”. Il giorno dopo fu di parola. Sapeva che se in Italia fosse scoppiata una guerra civile sarebbe dovuto tornare in patria e allora corse come se fosse l’ultimo giorno. Un attacco grandioso sulle salite alpine staccando uno dopo l’altro tutti gli avversari fino a d arrivare solo al traguardo. L’Italia, ancora scossa da tumulti e scontri, si ferma ad ammirare incredula l’impresa del suo campione in terra francese. Si fermano i tumulti, gli scontri, i morti e i feriti. Tutto si congela. Il paese rapito rimane a guardare l’impresa del suo campione in terra francese. Il tifo per quel 34enne che scala le alpi con la sua bicicletta sostituisce l’odio e la rabbia che da un giorno e mezzo dilagavano in tutta la penisola. Al termine di quella tappa Bartali guadagnò venti minuti riducendo ad un solo minuto il suo ritardo dalla maglia gialla. Al traguardo, prima ancora di scendere dalla sua bicicletta, si avvicina allo staff della squadra italiana: “Come sta Togliatti” chiede. “Sta migliorando, è quasi fuori pericolo”. “E allora adesso miglioro io” rispose Gino. E migliorerà per davvero, il giorno seguente un’altra vittoria stratosferica sulle alpi gli consente di guadagnare la maglia gialla. In Italia, mentre Bartali scala leggero le impervie salite transalpine, la rabbia lascia il posto alla gioia. La gioia per un Togliatti che lentamente migliora. La gioia per un campione ritrovato che sta domando tutto e tutti.

Alla Camera dei deputati ancora disorientata, agitata, indignata per l’attentato di piazza Montecitorio, il clamore discorde viene placato dalla altissima voce di un deputato che gridava: “Attenzione! Una grande notizia. Bartali ha vinto la tappa e forse la maglia gialla. Viva l’Italia”. E nello stupore che seguì, gli animi si rasserenarono. E così avvenne nelle piazze. Le manifestazioni si interruppero e per la prima volta la gente smise di chiedere i bollettini degli scioperi e iniziò a leggere quelli del tour. E mentre la vittoria di Bartali rasserenava gli animi, dall’ospedale arrivarono anche le prime parole di Togliatti: “Sono fuori pericolo. Non fate pazzie. Assicuro a tutti i compagni che a suo tempo sarò nuovamente al mio posto di lavoro”. 

La guerra civile è ormai scongiurata. Ma per qualcuno non basta. Bartali il 25 luglio vince il Tour de France. Il trentaquattrenne spinto da una carica emotiva fatta di passione ma anche senso del dovere verso il proprio Paese riesce a salire sul gradino più alto del podio parigino. L’Italia lo acclama a gran voce. Sono giorni di festa e di gioia in tutte le nostre città, l’inizio della fine è ormai superato. Rientrato in Italia fu accolto da tutti gli onori, ricevuto dal Papa e dal Presidente della Repubblica oltre che dal presidente del Consiglio Alcide de Gasperi che gli permise di chiedere qualsiasi cosa come ricompensa per la sua impresa. “Mi basterebbe non pagare le tasse per un anno” rispose Bartali. Non sappiamo se venne accontentato. Come non sappiamo quanto fu determinante l’impresa di Bartali per scongiurare una guerra civile che forse non sarebbe scoppiata in ogni caso. Ma il potere dello sport fu straordinario anche in questo caso. D’altra parte, era stato lo stesso Togliatti a teorizzarlo con una sua celebre frase: “Come puoi pensare di fare la rivoluzione senza sapere quanto ha fatto ieri la Juventus?”.

L’estate italiana del Governo Draghi

È ufficialmente estate e come ogni anno si ripetono le stesse scene, ormai quasi rituali: le repliche delle fiction Rai al pomeriggio, gli avvisi di non uscire nelle ore più calde e bere tanta acqua e le crisi di governo, vere o minacciate che siano.

Ci risiamo. Con l’arrivo dell’estate iniziano anche i malumori all’interno del governo e le minacce di crisi e uscite dalla maggioranza. Un grande classico dell’estate italiana da quell’ormai celebre caduta del governo “Conte I” sancita sulle spiagge del Papeete da Matteo Salvini, all’epoca Ministro dell’Interno. A distanza di tre anni dalla caduta del governo giallo-verde i protagonisti della nuova crisi, da giorni in procinto di concretizzarsi ma ancora solo minacciata, sono ancora una volta loro due: Matteo Salvini e Giuseppe Conte. I ruoli ovviamente sono diversi rispetto a quelli ricoperti nell’estate del 2019, nessun incarico di governo ma solo la guida di due partiti in forte crisi ma centrali nella maggioranza larga che sostiene Mario Draghi.

La telenovela tra il Movimento 5 Stelle e il premier Mario Draghi è iniziata settimane fa quando il leader pentastellato è stato informato, correttamente o meno non è dato sapersi, di un canale diretto tra il premier e Beppe Grillo. Secondo le indiscrezioni, infatti, Draghi avrebbe fatto pressioni sul fondatore del Movimento per chiedere la rimozione di Conte dalla guida del partito. Una voce mai confermata che ha però scottato l’ex premier al punto da arrivare ad ipotizzare intromissioni più profonde di Mario Draghi nelle attività del Movimento fino ad accusarlo di aver tirato lui le fila della scissione che ha portato all’addio di Di Maio e dei suoi fedelissimi. “Una scissione così non si coltiva in poche ore.” Ha commentato Conte “Da un po’ c’era un’agenda personale al di fuori della linea politica del Movimento. È stato Draghi a suggerirlo? Ne parlerò con lui”. E il giorno per parlarne è arrivato. Dopo il rinvio, a causa della tragedia sulla Marmolada che ha tenuto impegnato il premier, Draghi e Conte si incontreranno domani pomeriggio a Palazzo Chigi per “chiarire il disagio politico” e mettere sul tavolo le condizioni necessarie alla sopravvivenza del governo: no all’invio di armi a lunga gittata all’Ucraina e parlamentarizzazione del quarto decreto interministeriale con almeno un’informativa, no al termovalorizzatore a Roma, sì al salario minimo, no al ridimensionamento del reddito di cittadinanza e rinnovo del superbonus al 110%.

Da una parte, dunque, ci saranno le misure simbolo del Movimento 5 Stelle. Dall’altra ci sarà Palazzo Chigi con il Premier Draghi che si è detto disponibile all’ascolto ed al confronto ma che non intende deragliare dalla rotta impostata. Giuseppe Conte, anche se è ancora offeso per le presunte intromissioni del premier nella vita interna del M5s, non ne vuole fare una questione personale ma la partita resta delicata e rischia di far saltare il banco. “51 per cento restiamo, 49 per cento usciamo”, è la previsione di un fedelissimo del presidente del M5S. Una previsione che sembra rispecchiare fedelmente la doppia anima del Movimento, spaccato quasi a metà, con una parte dei parlamentari che spingono per la rottura e l’uscita dal Governo mentre l’altra chiede a gran voce di andare avanti. Insomma, che sia rottura o meno, per Conte si prospetta un’estate da sarto che lo vedrà costretto a ricucire rapporti per non perdere definitivamente un partito che appare allo sbando.

Meno problematica appare invece la condizione di Matteo Salvini, altro protagonista dell’estate italiana e vero e proprio pezzo da novante delle crisi di governo agostane. Ieri a Milano l’ex Ministro dell’Interno ha incontrato i suoi fedelissimi, convocati dopo la debacle delle amministrative, per definire la linea da seguire nei prossimi mesi. Al termine dell’incontro la direzione della Lega sembra essere definita: ricompattare il partito a partire da una linea critica, a tratti ostile, nei confronti del premier alzando i toni e strigliando Draghi ad ogni occasione buona. Finito il summit milanese emergono anche le richieste al governo dietro cui si trincerano Matteo Salvini e la Lega. Come nel caso di Conte, infatti, anche Salvini mette sul tavolo le proposte simbolo del suo partito chiedendo scelte concrete su fisco, stipendi, pensioni ed autonomia ed annunciando di voler “fare il tagliando a Draghi” per verificare lo stato dei lavori in questi ambiti. Ma se pubblicamente le priorità della Lega sono queste, leggendo tra le righe si capisce che i malumori all’interno del partito sono altri e vanno ricercati tra i desideri dell’ala sinistra della maggioranza. Ius Scholae, depenalizzazione della cannabis e ddl Zan, che a breve sarà riproposto in Parlamento, sono proposte giudicate irricevibili dalla Lega e su cui Matteo Salvini annuncia battaglia. Ma se Conte sembra essere già pronto allo strappo, la strategia del leader leghista sembra essere più attendista. Ancora segnato, forse, dalle conseguenze devastanti della crisi innescata nel 2019 dal Papeete, Salvini al momento non sembra voler mettere in dubbio il suo appoggio a Draghi ma c’è una data cerchiata di rosso sul calendario del Capitano leghista: il 18 settembre. Quel giorno a Pontida si raduneranno come ogni anno le tante anime della Lega e proprio quella è la data individuata per “fare il tagliando a Draghi” valutando prima di tutto il suo approccio alle proposte del centrosinistra e in secondo luogo lo stato dell’arte per quel che riguarda le misure volute dalla Lega. Insomma, se al momento sembra scongiurato un Papeete bis a fine luglio, il rischio di una “Crisi di Pontida” è reale e concreto.

Ma mentre i leader politici portano avanti interessi propri e di partito perseguendo la linea politica del Movimento 5 Stelle il primo e della Lega il secondo, tra i parlamentari qualcuno ha già fatto trapelare qualche malumore in caso di caduta del Governo. C’è infatti una data chiave nei prossimi mesi che tutti i parlamentari stanno aspettando: il 22 settembre, data in cui i parlamentari avranno maturato il diritto a quello che una volta era il vitalizio e adesso, più sobriamente, va chiamata pensione. E se il governo cade prima? Draghi ha già detto che non si cercherà una nuova maggioranza e si andrà immediatamente ad elezioni senza passare dal via. E proprio come nel Monopoli, se non si passa dal via non si incassa.

Khaby Lame sarà cittadino italiano. Ma tutti gli altri?

Dopo essere diventato il più seguito di sempre su TikTok, Khaby Lame ha ottenuto il riconoscimento della cittadinanza italiana. Ma ancora una volta la concessione della cittadinanza sembra essere un premio più che un diritto mentre un milione di ragazzi aspettano lo ius scholae.

Khaby Lame presto sarà cittadino italiano. Ad annunciarlo è stato Carlo Sibilia, sottosegretario al Ministero dell’Interno del governo Draghi, che con un tweet ha reso noto che il decreto di concessione della cittadinanza italiana per la star di TikTok è già stato emanato dal ministero e che presto il ventiduenne riceverà istruzioni per la notifica ed il giuramento. Una storia a lieto fine dopo mesi in cui da più parti si è dato sfogo all’indignazione per un ragazzo che vive in Italia da quando ha un anno ma che ancora non ha la cittadinanza. Lui stesso nei giorni scorsi, intervistato dal quotidiano “la Repubblica” aveva espresso il suo rammarico: “non è giusto che una persona che vive e cresce con la cultura italiana per così tanti anni ed è pulito, non abbia ancora oggi il diritto di cittadinanza. E non parlo solo per me”.

Non parlava solo per sé Khaby Lame. Parlava a nome di quei circa 887 mila bambini, bambine, ragazzi e ragazze che vivono e studiano nel nostro paese da sempre ma che ancora non sono italiani. Una schiera di giovani cresciuti in Italia che per ottenere la cittadinanza devono seguire trafile burocratiche infinite che, quando va bene, si concludono dopo anni passati a compilare carte e consegnare documenti. Se la storia di Khaby è una storia a lieto fine, lo stesso non si può dire per centinaia di migliaia di altri giovani italiani che italiani non sono ancora e che attendono il loro turno guardando attoniti il tweet di Sibilia. Un tweet che sembra riconoscere al tiktoker, che non ha nessuna colpa in questa vicenda, una corsia preferenziale per l’ottenimento della cittadinanza italiana. Se Sibilia afferma infatti che il decreto per la concessione della cittadinanza è stato emanato a inizio mese, è inevitabile notare come l’annuncio arrivi a poche ore dalle polemiche scatenate dall’intervista rilascia a “la Repubblica” e immediatamente dopo che Lame è diventato il più seguito di sempre su TikTok. Un tempismo quantomeno sospetto che sembra voler riconoscere al ragazzo lo status di cittadino italiano più per la sua visibilità che per la reale fine delle pratiche di concessione. E inevitabilmente questo passaggio non è passato inosservato: “Salve sign. Sibilia, anche a me piacerebbe avere la cittadinanza ma non sono una famosissima tiktoker e non ho il reddito abbastanza alto da potermi permettere di compilare la domanda per la concessione della cittadinanza. sono qui da 20 anni e studio all’università. Potrebbe emanare anche per me un decreto di concessione?” scirve qualcuno in risposta al sottosegretario. O anche: “Che orribile cosa. Non per il buon Khaby Lame, ma per il principio di uguaglianza calpestato davanti a tuttə queə italianə natə in Italia senza cittadinanza che devono solo aspettarla come una concessione da voi dall’alto”.

La cittadinanza italiana però deve essere un diritto e non può diventare un premio o un privilegio. Agli occhi dell’opinione pubblica, e soprattutto di chi quello status lo attende da anni, questa vicenda sembra trasformare la cittadinanza in un riconoscimento per quel che è stato fatto. Da Adam e Ramy, i due giovani che sventarono il dirottamento di un bus nel milanese, a Khaby Lame passando per l’assurda storia dell’esame di Luis Suarez, nel nostro paese la cittadinanza sembra sempre più essere subordinata a un qualche gesto di particolare rilievo: sportivo, social o sociale che sia. Ma così non deve e non può essere. Nessuna colpa, lo ripetiamo, hanno la star di Tik Tok o i due giovani che hanno salvato 51 compagni di scuola da uno squilibrato. Le colpe sono di una politica ancora impantanata su “ius soli” e “ius scholae” che tenta di salvare le apparenze agevolando la concessione della cittadinanza a quei personaggi in grado influenzare l’opinione pubblica su questi temi e continuando a rendere un inferno le pratiche per l’ottenimento a tutti quegli invisibili la cui unica colpa è non essere diventati star del web. 

Mercoledì 29 giugno la Camera dei Deputati discuterà la proposta di legge sulla cittadinanza che mira a introdurre lo Ius Scholae, ovvero dare la cittadinanza italiana ai bambini figli di extracomunitari che abbiano frequentato almeno un ciclo scolastico in Italia, senza che debbano aspettare il compimento dei 18 anni. Un provvedimento che molti giovani aspettano da sempre e che potrebbe rendere più facile l’accesso alla cittadinanza a chi qui vive e studia da sempre. Un provvedimento di civiltà che potrebbe far fare al nostro paese un passo in avanti enorme sul tema dei diritti. Un passo in avanti che già vede l’opposizione netta delle destre secondo cui questo provvedimento sarebbe “una scorciatoia controproducente”. Controproducente per chi, ancora non è chiaro. Forse solo per quella politica che non saprebbe più come premiare quegli italiani ancora stranieri che in futuro diventeranno star del web o compiranno gesti eroici per la comunità.