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Il caso Zaki e il cortocircuito istituzionale tra Parlamento e Governo

Oggi Patrick Zaki compie 30 anni. Per il secondo anno di fila, però, festeggerà questa ricorrenza dal carcere di massima sicurezza in cui è detenuto. Il tutto mentre in Italia va in scena un cortocircuito istituzionale con il Governo che non dà seguito alle richieste del Parlamento. 

Non ci saranno torta e candeline. Non ci sarà una festa. Non ci saranno amici e parenti. Per Patrick Zaki non ci sarà nemmeno la libertà come regalo. Oggi lo studente dell’Alma Mater di Bologna compie trent’anni ma da 493 giorni è detenuto senza alcuna accusa formale nel carcere di massima sicurezza di Tora. Inghiottito nel più infernale carcere del suo paese senza un processo, né celebrato né in programma, dal 7 febbraio 2020. Per il secondo anno di fila Patrick trascorrerà il giorno del suo compleanno in quella cella dove, come hanno testimoniato i suoi legali, sta lentamente crollando fisicamente e mentalmente. Sedici mesi in cui la società civile italiana e non solo si è mobilitata per chiedere che questo ennesimo sopruso del regime egiziano finisca al più presto. Dalle associazioni all’impegno instancabile dell’Università di Bologna, dai cittadini ai sindaci che gli hanno concesso la cittadinanza in decine di città. Tutta Italia sembra avere a cuore le sorti di Patrick. Tutta Italia tranne, a quanto pare, il Governo.

Era il 14 aprile quando, con 208 voti favorevoli e 33 astenuti, il Senato approvava un ordine del giorno unitario per chiedere al governo di riconoscere il prima possibile la cittadinanza italiana a Patrick Zaki. Indimenticabili le parole di Liliana Segre, corsa a Roma da Milano appositamente per votare quella mozione, che davanti ai colleghi senatori disse: “C’è qualcosa nella storia di Patrick Zaki che prende in modo particolare ed è ricordare quando un innocente è in prigione. Questo l’ho provato anch’io e sarò sempre presente, almeno spiritualmente quando si parla di libertà. Ricordo cosa sono i giorni passati dentro la cella, quando non si sa se preferire la porta chiusa o che si apra, nel timore che qualcuno entri e faccia aumentare la tua sofferenza. Potrei essere la nonna di Zaki e sono venuta qui perché gli arrivi anche il mio sostegno”. Parole che hanno toccato tutti e sono arrivate fino a Patrick che ha voluto scrivere una lettera di ringraziamento alla Senatrice a vita. Senza mandargliela però. Gliela consegnerà a mano una volta libero, ha detto.

Ma quelle parole così forti e profonde, qualcuno sembra averle dimenticate in fretta. Dopo oltre due mesi da quel voto, infatti, nulla si è minimamente mosso. Pochi giorni dopo l’approvazione dell’ordine del giorno il governo ha fatto sapere di essere pronto ad avviare le verifiche necessaria per la concessione della cittadinanza. Era il 19 aprile e dopo quel primo segnale di disponibilità tutto sembra essersi fermato tanto che qualche giorno dopo lo stesso Draghi dichiarò: “Quella su Zaki è un’iniziativa parlamentare. Il governo al momento non è coinvolto.” Il disinteresse del governo per la questione della cittadinanza allo studente egiziano può certamente essere giustificato da tante questioni, nessuna buona per carità, come il non voler rovinare le buone relazioni tra il nostro paese e l’Egitto con cui nonostante le polemiche continua una fitta collaborazione anche in ambito militare. Si presenta però un problema politico interno non indifferente. Che rapporto c’è tra il Parlamento ed il Governo? Può quest’ultimo ignorare una richiesta unanime del Senato? I Senatori che hanno votato lo hanno fatto per prendere una posizione netta e decisa e passare la palla all’esecutivo perché ne desse attuazione. Sono passati due mesi e dal Governo non è stata intrapresa, almeno pubblicamente, nessuna azione in quella direzione. Una vicenda che rischia di sbilanciare i poteri con un parlamento incapace di impegnare il Governo ed un esecutivo tranquillo nel fare quel che più crede senza sentirsi legato alle due camere. Una vicenda che, dunque, dovrebbe portare a riflettere sui ruoli e sulle competenze di chi governa questo paese. Se non fosse che nel mezzo c’è una vita che merita tutta l’attenzione del caso. La vita di Patrick, che da 493 giorni è detenuto. Che oggi compie trent’anni. Che guarda al nostro paese e aspetta. Che non merita tutto questo.

Patrick Zaki + 60mila: la piaga degli arresti politici in Egitto

Vorrei essere libero come un uomo
– Giorgio Gaber –


Sono passati dieci anni dalla primavera araba che aveva ridato speranza all’Egitto. Oggi, però, il paese sembra più che mai sprofondato in un gelido inverno dittatoriale con il generale Al-Sisi che ha di fatto congelato ogni speranza di democrazia imponendo il proprio regime. Grazie alla complicità dell’occidente, più interessato alla stabilità della regione che al benessere e i diritti di chi la abita, in Egitto è di fatto tornata una dittatura che reprime le opposizioni imprigionando chi spera in un paese migliore.

Patrick – Tra gli oltre 60 mila detenuti politici in Egitto, da 365 giorni esatti c’è anche Patrick Zaki. Arrestato il 7 febbraio scorso appena atterrato all’aeroporto del Cairo, lo studente dell’Università di Bologna è rinchiuso da un anno nel carcere di massima sicurezza di Tora nonostante a suo carico non siano ancora state formulate accuse ufficiali. Secondo la ricostruzione di Amnesty international, è stato interrogato per 17 ore, bendato, ammanettato, poi picchiato e torturato con scosse elettriche. Ed è finito nel limbo della detenzione preventiva, in cui si trovano trentamila egiziani e che è la misura punitiva più usata dalle autorità contro quelli che sono considerati oppositori politici. Un limbo che si rinnova ogni 45 giorni con la pronuncia di un giudice che puntualmente delude le speranze dei familiari rinnovando la detenzione del ragazzo. Un limbo che, secondo la legge egiziana, potrebbe durare ancora un anno essendo di due anni il limite massimo per la detenzione preventiva.

In un anno la giustizia egiziana ha prodotto nei confronti dello studente iscritto all’Università di Bologna 11 rinnovi della detenzione, ci sono stati 13 rinvii delle udienze, specie tra primavera ed estate a causa del Coronavirus, e una raffica di esposti ed appelli per chiedere la sua liberazione, tutti respinti. L’ultima beffa, ossia l’ennesima udienza-farsa nell’aula bunker della State Security – stesso complesso del terribile penitenziario di Tora e dunque a poche centinaia di metri dalla sua cella – meno di una settimana fa. Con un’aggravante stavolta. Il rinnovo della misura cautelare per altri 45 giorni da parte del giudice è comparso in anteprima su alcuni organi di stampa vicini al regime del presidente Abdel Fattah al-Sisi, addirittura prima dell’ufficializzazione all’avvocata di Patrick, Hoda Nasrallah.

Detenuti – Ma quella di Patrick, nell’Egitto di Al-Sisi, non è una situazione unica. Secondo la ong Human Rights Watch sono oltre sessantamila i detenuti politici richiusi nelle carceri egiziane per le loro idee politiche, per la loro fede o per il loro attivismo tutela dei diritti umani. Il regime di Al-Sisi utilizza sempre più lo strumento della detenzione preventiva per togliere di mezzo non solo figure scomode ed oppositori ma anche influencer in grado di condizionare migliaia di giovani. È il caso, ad esempio, della 22enne Mawada Eladhm, tre milioni di follower su tik tok, arrestata per avere “violato i princìpi e i valori familiari della società egiziana”. Nel mirino della Nsa, i servizi segreti egiziani, non finirebbero solo voci critiche contro il governo ma anche artisti o, come nel caso di Mawada, giovani divenuti famosi grazie ai social, accusati di diffondere messaggi immorali che attentano ai valori tradizionali della nazione.

Chi viene arrestato dall’Nsa, secondo Amnesty, “finisce nelle stazioni di polizia o negli uffici del ministero dell’Interno. Le persone non vengono iscritte nel registro dei detenuti quindi ufficialmente non risultano in mano alla polizia. Possono restare in questa situazione per pochi giorni o settimane, nei casi più gravi anche per mesi e ci è stato riferito che durante questo periodo capita che subiscano torture o violenze di vario genere”. Nessuno, insomma, sembra essere al sicuro sotto il regime autoritario di Al-Sisi.

Forse pensava di essere al sicuro Ahmed Samir Santawy quando il primo febbraio si è imbarcato a Vienna, dove frequentava la Central European University, per far ritorno a casa durante le vacanze. Invece, in una storia che ricorda per filo e per segno quanto accaduto a Patrick, è stato arrestato al Cairo e dal momento del fermo nessuno ha più avuto sue notizie. Un anno dopo l’arresto di Patrick, dunque, la storia si ripete in un paese in cui la luce della democrazia sembra essere sempre più flebile.

Tre mesi di solitudine

Da 89 giorni Patrick George Zaki è in carcere in Egitto. Detenuto in maniera arbitraria senza alcuna condanna ne prove che ne dimostrino la colpevolezza, è l’ennesimo attivista a cui il regime vuole chiudere la bocca. L’Italia non può e non deve lasciarlo solo.

Martedì è andato in scena l’ultimo, ma non definitivo, atto della vicenda giudiziaria di Patrick Zaki. Dopo 7 udienze consecutive rinviate a causa della chiusura degli uffici per l’emergenza sanitaria, un giudice è tornato ad esprimersi sul rinnovo o meno della detenzione preventiva del ragazzo arresta il 7 febbraio all’Aeroporto Internazionale del Cairo. Presso la Procura Suprema egiziana al Cairo, però, è andato in scena uno spettacolo indegno che ha dimostrato, qualora va ne fosse ancora bisogno, l’intento repressivo dell’azione giudiziaria contro Patrick. Il giudice infatti ha pronunciato la sua decisione di rinnovare la custodia cautelare per il 28enne in un’aula completamente vuota.

Se l’assenza di Patrick, che dal 9 marzo non ha contatti né con i familiari né con gli avvocati, era prevedibile lo stesso non si può dire di quella dei suoi legali. Nonostante fossero presenti in Procura, infatti, ai suoi avvocati è stato vietato l’accesso in aula al momento della decisione da parte del giudice per non meglio precisati motivi di sicurezza. Così si è di fatto azzerato il dibattito con una grave violazione del diritto alla difesa volta ad impedire qualsiasi contestazione legale alla decisione del giudice. Una decisione quantomai arbitraria arrivata dopo tre mesi di custodia cautelare in cui le autorità competenti non sono riuscite a produrre alcuna prova della colpevolezza del ragazzo. Intanto, però, Patrick rimane nella sezione di massima sicurezza del penitenziario di Tora dove sono detenuti i prigionieri politici e gli attivisti che si ribellano al regime. Dove nel weekend è morto, dopo una notte intera a chiedere aiuto, Shady Habash detenuto dal 2018 e da allora in attesa di sentenza. Proprio come per Patrick, infatti, anche nel caso di Shady il giudice ha continuato a disporre il rinnovo della custodia cautelare in attesa di prove che confermassero la sua colpevolezza. Prove che non sono mai arrivate.

D’altronde ormai è noto che proprio il rinnovo della custodia cautelare sia diventato in Egitto il mezzo con cui colpire oppositori e dissidenti. Uno strumento che viene ormai largamente usato dalla giurisprudenza per prolungare sostanzialmente all’infinito la detenzione di soggetti sgraditi al regime, sempre più totalitario, di Al-Sisi. Se ufficialmente la legge fissa a due anni il limite massimo per la detenzione di un soggetto in attesa di processo, non mancano episodi in cui questo limite sia stato ampiamente superato o aggirato con strategie diverse come l’arresto immediato dopo una prima scarcerazione. Così, le carceri del paese si sono riempite di oltre 60.000 prigionieri politici mentre l’Egitto si sta trasformando inesorabilmente in uno stato di polizia in cui le attività di ogni singolo cittadino sono monitorate e sorvegliate costantemente. Un naufragio della democrazia in cui rischiano la vita ogni giorno migliaia di voci libere. Voci che giorno dopo giorno, rinvio dopo rinvio, si affievoliscono sempre di più fino a sprofondare nell’oblio. Con i continui rinnovi delle detenzioni infatti il regime punta da una parte a fiaccare fisicamente mentalmente il detenuto, dall’altra a far dimenticare all’opinione pubblica la sua vicenda dopo il clamore internazionale che si solleva ad ogni arresto arbitrario. Un oblio che lascia da solo il detenuto facendogli perdere anche l’ultimo barlume di speranza. E questo lo aveva capito molto bene Shady come testimonia una drammatica lettera indirizzata ad un amico nell’ottobre 2019: “La prigione non uccide, lo fa la solitudine. Ho bisogno del vostro supporto per non morire. Ho bisogno di supporto e ho bisogno che ricordiate che io sono ancora in prigione e che il regime si è dimenticato di me. Sto lentamente morendo perché so che sto restando solo di fronte a tutto”.

Una solitudine che uccide. Una solitudine in cui non possiamo permetterci di lasciare Patrick. Mentre l’Egitto prova ad isolarlo in una solitudine fisica, impedendogli di vedere e sentire i propri avvocati e i propri cari, spetta a noi fare in modo che non vi sia anche una solitudine morale e mediatica. Non possiamo permettere che il nostro silenzio distratto ma tremendamente complice consenta a quel buco nero che è il penitenziario di Tora di risucchiare la vita di Patrick come ha fatto con Shady e con migliaia di altri ragazzi. Il rischio, più che mai concreto, è che le emergenze convergenti che stanno aggredendo il nostro paese in questi mesi possano distogliere l’attenzione da una vicenda che invece deve rimanere sotto i riflettori. Ne va della vita di un ragazzo che fino a qualche mese fa viveva e studiava da noi. Un ragazzo che sognava un futuro nel nostro paese e ora si ritrova detenuto in maniera assolutamente arbitraria in un penitenziario di massima sicurezza. E mentre da noi si discute di distanziamento sociale, Patrick è costretto in una cella sovraffollata con rischi altissimi per la sua salute. Rischi a cui non dovrebbe mai, per nessun motivo, essere esposto nessun individuo. A maggior ragione se innocente. La battaglia per la libertà di Patrick deve necessariamente diventare la nostra battaglia per il presente e per il futuro. Perché non si ripeta il dolore e la rabbia che ci ha travolti quattro anni fa per l’atroce morte di Giulio Regeni. Perché Patrick non diventi l’ennesima vittima da commemorare nelle piazze ma torni ad essere una voce libera in un Egitto che non lo è più.