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Verso il voto: cosa dicono i programmi dei partiti sul contrasto alle mafie

In vista del voto del 25 settembre abbiamo analizzato i programmi dei quattro principali schieramenti politici per verificare se e come il contrasto alla criminalità organizzata venga trattato dai partiti che compongono i cosiddetti quattro poli. 

“Dignità è un Paese libero dalle mafie, dal ricatto della criminalità, libero anche dalla complicità di chi fa finta di non vedere.” Era il 3 febbraio quando, davanti al Parlamento che lo aveva appena rieletto, il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella pronunciava queste parole. Non aveva fatto in tempo nemmeno a finire la frase che dai banchi del parlamento senatori e deputati si erano alzati ad applaudire quell’affermazione. Per quasi venti secondi, applausi bipartisan avevano incorniciato quella frase costringendo il Presidente Mattarella a fermarsi e osservare quel pieno sostegno alla propria affermazione. Sei mesi dopo, però, quella simbolica presa di impegno sembra essere svanita nel nulla con programmi elettorali in cui la parola mafia fatica a comparire mentre il tema del contrasto alla criminalità organizzata trova sempre meno spazio.

Centrosinistra (PD, Verdi-Sinistra Italiana, Impegno Civico, +Europa) – Il centrosinistra sembra essere la coalizione che, almeno da programma, presta maggior attenzione al tema delle mafie. Il Partito Democratico indica nel proprio programma la volontà di “costruire una nuova cultura della legalità, che faccia della lotta alle mafie e alla criminalità organizzata una priorità”. Il PD sottolinea l’urgenza di un “piano nazionale contro le mafie che definisca obiettivi condivisi per tutte le amministrazioni dello stato per accompagnare la nuova stagione di investimenti pubblici”. Un riferimento implicito ai soldi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza che viene esplicitato in un passaggio successivo in cui si ribadisce l’importanza di “vigilare affinché i fondi del PNRR ed in particolare gli appalti ad essi legati siano tenuti al riparo dai rischi di infiltrazione mafiosa”. A ciò si aggiunge la volontà, espressa come vedremo da più parti, di riformare la legge sullo scioglimento dei comuni per rafforzare il contrasto alle infiltrazioni mafiose nella pubblica amministrazione. Proposte certo condivisibili ma prive di qualsiasi indicazione sui tempi e i metodi per attuarle al punto da farle sembrare slogan più che reali impegni. Unico passaggio “concreto” sul tema nel programma del Partito Democratico è la proposta di legalizzare l’autoproduzione di cannabis per uso personale vista come un tassello importante “nell’ambito delle politiche di contrasto alle mafie”. Un tema, quello della legalizzazione e regolamentazione della cannabis che condivide anche +Europa che l’unica volta che cita la parola “mafia” nel proprio programma lo fa proprio per sottolineare come una regolamentazione della cannabis in Italia aiuterebbe nel “contrasto ai profitti delle narco-mafie”.

Decisamente più articolato e concreto il programma sul tema di Verdi e Sinistra Italiana. L’alleanza rossoverde dedica ampio spazio al tema nel suo programma, anche se penultimo tra i punti programmatici, individuando anche alcune proposte concrete da attuare in caso di governo di centrosinistra. Anche in questo caso, in linea con quanto proposto dagli alleati, si ha una netta apertura alla legalizzazione delle droghe leggere come strumento di contrasto alla criminalità organizzata. A ciò si aggiunge la volontà di “affermare sempre più la legalità attraverso processi formativi ed educativi e prima ancora che per la propria sicurezza, per la propria dignità e per poter affermare la nostra libertà” e di facilitare le procedure per il riutilizzo sociale dei beni confiscati ai mafiosi. Rispetto agli alleati, e coerentemente con la natura dell’alleanza, Verdi e Sinistra Italiana affrontano poi nel dettaglio il contrasto alle cosiddette ecomafie con un elenco di venti proposte volte a ostacolare il fenomeno. A livello normativo si segnala la volontà di aggiornare la normativa sul piano cave, teatro da sempre di sversamenti e tombamento di rifiuti, e “un rafforzamento delle misure cautelari del sequestro preventivo e della confisca” oltre all’inserimento dei reati ambientali nel novero di quei delitti per cui non scatta l’improcedibilità. Tra gli altri punti importanti appaiono quello relativo all’attivazione di un sistema di tracciamento GPS dei rifiuti, già previsto per legge ma mai realmente attivato, oltre a una mappatura di impianti autorizzati allo smaltimento e di aree dismesse potenzialmente a rischio perché utilizzabili per stoccare illegalmente rifiuti.

Il programma di centrosinistra, come vedremo, è quello che dedica maggior spazio al tema. In linea con quanto visto per le questioni ambientali, però, ancora una volta le proposte appaiono essere fumose e poco concrete ad eccezione del programma dell’alleanza rossoverde, unica realtà in grado di mettere nero su bianco proposte concrete per il contrasto ad un fenomeno specifico come quello delle ecomafie.

Centrodestra (Fratelli d’Italia, Lega, Forza Italia, Noi Moderati) – “Lotta alle mafie e al terrorismo”. È questo l’unico passaggio sul tema nel programma comune della coalizione di centrodestra. Una singola frase all’interno del capitolo dedicato a “sicurezza e contrasto all’immigrazione illegale” senza alcun approfondimento o proposta concreta. Una situazione che ricalca quanto si verifica anche nei singoli partiti con, ad esempio, Fratelli d’Italia che nel suo “programma per risollevare l’Italia” nel capitolo dedicato a sicurezza e immigrazione parla genericamente di “lotta senza tregua a tutte le mafie, al terrorismo e alla corruzione”. Lo stesso avviene nel programma di Forza Italia in cui si parla di una generica “riforma degli strumenti di lotta alle mafie per conferire loro maggior efficacia”.

All’interno della coalizione il partito che dedica maggior spazio al tema, anche se in modo schematico e a nostro parere confuso, è la Lega che dedica due slide nel proprio “programma di governo” al tema del contrasto alle mafie. Tra le proposte emerge la volontà di espandere gli organici delle forze di Polizia per garantire “un controllo e una prevenzione sul territorio maggiormente capillare” e la proposta di potenziare il ruolo dell’Agenzia Nazionale dei Beni Confiscati e Sequestrati. Per quanto riguarda i beni confiscati la Lega rilancia poi la proposta di aprire alla possibilità di vendere i beni confiscati, già emersa in passato durante il governo Lega-M5S e duramente contestata dal movimento antimafia che ne ha sottolineato i rischi. Sul tema della formazione il programma del partito di Matteo Salvini sottolinea la necessità di istituire protocolli con le scuole per lo svolgimento di “incontri e percorsi formativi volti alla promozione della cultura della legalità e al contrasto alle mafie”. A far discutere, come già emerso nelle scorse settimane, è però il punto riguardante lo scioglimento dei comuni per mafia: “Attualmente” si legge nel documento “quando in un Comune la commissione prefettizia accerta che la collusione con una organizzazione criminale sia di un singolo consigliere e/o funzionario pubblico, quasi sempre viene sciolto il Comune. Proponiamo invece che la decadenza riguardi solo la persona collusa”. Si tratta però di una narrazione semplicistica che che non tiene conto del fatto che per lo scioglimento del comune non basta la presenza di un singolo funzionario o consigliere colluso ma di un ampio sistema in gradi di “determinare un’alterazione del procedimento di formazione della volontà degli organi elettivi ed amministrativi e da compromettere il buon andamento o l’imparzialità delle amministrazioni comunali e provinciali”.

Movimento 5 Stelle – Timido appare anche il programma del Movimento 5 Stelle che sul tema non porta proposte concrete se non quella, già avanzata dal centrosinistra, di legalizzare e regolamentare la coltivazione della cannabis per uso personale “al fine di contrastare il business della criminalità organizzata”. Per il resto, nel breve paragrafo dedicato al tema, si parla di un generico “potenziamento degli strumenti di contrasto già esistenti” e del “completamento delle riforma in tema di ergastolo ostativo” con l’esplicita volontà di tutelare i “principali presidi antimafia come il 41bis e le misure di prevenzione personali e patrimoniali”.

Si tratta di un programma evidentemente scarno e privo di qualsiasi proposta concreta che poco sembra avere a che fare con lo slogan “Onestà, Onestà” su cui ha basato la propria ascesa il Movimento 5 Stelle delle origini. La scarsa attenzione al tema di mafie e criminalità organizzata sembra oggi confermare la tendenza del M5S a staccarsi sempre più da quell’idea di anti-partito da cui era nata l’esperienza pentastellata.

Terzo Polo (Italia Viva, Azione) – Quasi assente, invece, la parola mafia dal programma di Azione – Italia Viva. Nel testo depositato dal cosiddetto Terzo Polo, oltre a sottolineare con frasi di circostanza l’ovvia necessità di contrastare il fenomeno, l’unica proposta che emerge è la volontà di modificare la legge sullo scioglimento dei Comuni per infiltrazioni mafiose “garantendo risorse adeguate e strumenti efficaci per evitare il fenomeno degli scioglimenti ripetuti.” Si segnala inoltre la presenza della parola mafia utilizzata anche in relazione al contrasto all’immigrazione clandestina che sarebbe “un danno sia per i migranti sia per i paesi di destinazione” e “favorisce lo sviluppo di mafie transnazionali e di politiche ricattatorie”.

Verso il voto: cosa dicono i programmi dei partiti su ambiente e clima

In vista del voto del 25 settembre abbiamo analizzato i programmi politici dei quattro principali schieramenti politici che si presenteranno a questa tornata elettorale per verificare se e come l’ambiente sia presente nelle idee dei partiti.

C’è una crisi a cui stiamo andando incontro totalmente impreparati. No, non parliamo della crisi economica né di quella energetica. La crisi più drammatica a cui stiamo assistendo è la crisi climatica che sta trasformando completamente l’ambiente e le nostre vite e che, senza contromisure immediate, potrebbe portare a conseguenze catastrofiche. Lo sanno bene i più giovani che proprio sui temi ambientali sembrano essere i più attenti come conferma l’ultimo sondaggio pubblicato da Repubblica il 1° settembre in cui emerge come un terzo dei giovani italiani si definiscono ambientalisti e chiedono un maggior impegno della politica su questi temi. Ma in vista delle prossime elezioni del 25 settembre, i principali schieramenti politici sembrano aver lasciato da parte la questione ambientale riservandole, quando va bene, uno spazio marginale all’interno dei programmi.

Centrosinistra (PD, Verdi-Sinistra Italiana, Impegno Civico, +Europa) – Il centrosinistra, grazie soprattutto alla presenza dell’alleanza rossoverde tra Verdi e Sinistra Italiana, è senza dubbio la coalizione con il programma più articolato per quanto concerne le tematiche ambientali. Tra le principali proposte portate dal tandem Fratoianni-Bonelli all’interno del programma elettorale del centrosinistra c’è l’approvazione di una legge per il clima con obiettivi coerenti e vincolanti a tutti i livelli. All’interno della stessa dovrebbe trovare spazio lo stanziamento di fondi per la realizzazione di opere di cambiamento climatico giudicate assolutamente indispensabili dal leader di Sinistra Italiana che ha ricordato come “negli ultimi quarant’anni l’Italia ha registrato ventimila morti a causa di eventi estremi, seconda solo alla Francia come numero di decessi”. Sul piano pratico, l’alleanza rossoverde propone lo sviluppo di una programmazione annuale che consenta di coprire l’80% del fabbisogno energetico nazionale con sole energie rinnovabili entro il 2030. La priorità, in questo piano di sviluppo, deve essere data in particolare all’energia solare e all’eolico mentre viene scartata l’ipotesi nucleare “come da mandato dei due referendum”. Per sostenere questa transizione, Sinistra Italiana e Verdi propongono l’eliminazione dei sussidi fossili (attualmente 20 miliardi l’anno) entro il 2025 e la redistribuzione di quelle risorse “come incentivo e supporto ai settori industriali e alle fasce sociali più esposte” ai cambiamenti di una transizione energetica. A ciò si aggiungono un programma di incentivi per l’utilizzo e lo sviluppo del trasporto pubblico locale e un nuovo piano rifiuti che punti da un lato allo sviluppo di un’economia circolare basata sul riciclo e dall’altro alla graduale eliminazione della plastica.

Misure meno estreme sono quelle proposte invece dagli alleati, ed in particolare dal PD che pur riconoscendo la transizione ecologica uno dei pilastri su cui basare l’azione dei prossimi quattro anni sostiene che gli obiettivi climatici devono essere “ambiziosi ma realistici”. Così nel programma della coalizione viene lasciata aperta la porta all’utilizzo di rigassificatori, come quello che tanto sta facendo discutere a Piombino, ma solo come soluzione temporanea da smobilitare “ben prima del 2050”. Dal punto vista legislativo, si pensa a una legge quadro sul clima e una riforma fiscale verde che “promuova gli investimenti delle imprese e delle famiglie a difesa del pianeta”, oltre all’implementazione del Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici (fermo al 2017). Previsto anche un Piano nazionale per il risparmio energetico e interventi finalizzati ad aumentare drasticamente la quota di rinnovabili prodotte in Italia, anche attraverso lo sviluppo delle Comunità energetiche, con l’obiettivo di installare 85 GW di rinnovabili in più entro il 2030. A ciò si aggiunge “la progressiva riduzione dei sussidi dannosi per l’ambiente” senza però indicare tempistiche per la sua realizzazione, a differenza di quanto fatto da Verdi e Sinistra Italiana.

Sulla questione ambientale, insomma, il centrosinistra viene trainato dalle posizioni forti dell’alleanza Verdi-Sinistra Italiana il cui programma dettagliato e determinato sembra compensare la timidezza e la fumosità delle proposte degli alleati.

Centrodestra (Fratelli d’Italia, Lega, Forza Italia, Noi Moderati) – Nel programma congiunto del centrodestra l’ambiente finisce in fondo alle priorità, al dodicesimo posto sui quindici punti programmatici della coalizione destinata a vincere le elezioni. Se non scontata appare la decisione di mettere nero su bianco la volontà di rispettare gli impegni internazionali assunti dal nostro paese, vista la spinta della Lega per una revisione degli stessi, il resto del programma appare poco ambizioso e certo marginale.

Si parla, in modo generico e senza precisare tempi e modi, dello sviluppo di un “piano strategico nazionale di economia circolare” che possa “aumentare il livello qualitativo e quantitativo del riciclo dei rifiuti, ridurre i conferimenti in discarica, trasformare il rifiuto in energia rinnovabile attraverso la realizzazione di impianti innovativi”. Una proposta certamente di buon senso e condivisibile che però, senza dettagli su come e cosa fare, risulta essere più uno slogan elettorale che un impegno reale e prioritario. Lo stesso si può dire per le altre priorità del centrodestra in tema ambientale che vengono ridotte in due punti in cui si promette la “salvaguardia della biodiversità” e di “incentivare l’utilizzo del trasporto pubblico e promuovere politiche di mobilità urbana e sostenibile”. Poca concretezza, oltre che scarsa ambizione, che rendono assolutamente marginale la tematica ambientale nella coalizione trainata da Giorgia Meloni.

A discostarsi maggiormente dall’ambientalismo è poi la parte di programma che riguarda “la sfida dell’autosufficienza energetica” in cui oltre a promettere una “transizione energetica sostenibile” vengono espressi i netti si della coalizione a termovalorizzatori, rigassificatori e nucleare. Sul nucleare il centrodestra ribadisce la volontà di voler valutare il ricorso al cosiddetto “nucleare pulito” per la cui realizzazione però bisognerà attendere ancora diversi anni trattandosi di tecnologie sulle quali ancora si sono ottenuti solo risultati di laboratorio privi di prospettive concrete nel breve e medio periodo.

Per quanto riguarda i singoli partiti, Fratelli d’Italia punta sull’aggiornamento del piano Nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici e sulla tutela delle coste e dei mari. La Lega sembra invece voler scommettere sulle montagne con la creazione anche di un ministero ad hoc per la loro tutela e sulla realizzazione di opere volte a garantire l’approvvigionamento idrico del paese. Forza Italia, dal canto suo, propone la piantumazione di un milione di alberi e il “potenziamento della semplificazione, di incentivi strutturali e crediti di imposta per le imprese che riconvertono e investono in eco innovazione e nuove tecnologie”. Appare evidente come il programma di centrodestra su questi temi punti più che altro a mediare tra transizione ecologica e tutela delle attività produttive e industriali.

Movimento 5 Stelle – Nato con una forte vocazione ambientalista, il M5S ha negli ultimi anni cambiato volto trasformandosi in un vero e proprio partito. Un cambiamento di cui risente anche l’attenzione alle tematiche ambientali che vengono accennate senza mai scendere nei dettagli. si parla, ad esempio, di una non meglio specificata “società dei 2.000 watt”, che dovrebbe “tendere a un modello sostenibile di consumo energetico” per ridurre le emissioni annuali di gas serra. A ciò si aggiunge la volontà di mantenere e anzi implementare il “Superbonus” per “per permettere la pianificazione degli investimenti sugli immobili e continuare a migliorare i livelli di risparmio energetico”, una proposta volta però più a ridurre i costi delle bollette che a salvaguardare l’ambiente. Nel programma del movimento si parla poi genericamente di “sburocratizzazione per favorire la creazione di impianti di energia rinnovabili” confermando però il secco no alla realizzazione di nuovi inceneritori e nuovi impianti di trivellazione. È importante sottolineare come nel programma non vi sia alcun riferimento al nucleare su cui però il Movimento 5 Stelle è sempre stato fermamente contrario e che, dunque, si può presumere mantenga la stessa posizione.

Terzo Polo (Italia Viva, Azione) – Carlo Calenda e Matteo Renzi intendono la questione ambientale dividendola in obiettivi di breve, medio e lungo periodo. Nel breve periodo il fulcro del programma è certamente un netto si al gas, con la realizzazione dei due rigassificatori per aumentare la produzione nazionale e ridurre gradualmente la dipendenza dal combustibile russo. Nel medio periodo l’obiettivo dell’alleanza Italia Viva-Azione è quello di ridurre del 50% l’emissione di CO2 entro il 2030 attraverso un percorso di decarbonizzazione volto a sviluppare fonti sostenibili. Una misura che almeno in parte sembra stridere però con la proposta di “abbassare il prezzo della CO2” per le imprese fino al termine della guerra in Ucraina, che tradotto significa abbassare le tasse sulle emissioni delle aziende costrette a utilizzare combustibili fossili visto il blocco del gas causato dal conflitto. Netto invece il sì al nucleare che, combinato con le rinnovabili, nella strategia del Terzo Polo dovrebbe permetter all’Italia di raggiungere entro il 2050 l’obiettivo “emissioni zero”.

Come funziona la legge elettorale e perché rende indispensabili le alleanze

Dalla caduta del governo Draghi ad oggi un tema più di tutti ha riempito le pagine dei quotidiani: le alleanze. Un tema spinoso ma che va necessariamente affrontato all’interno dei partiti a causa di una legge elettorale che sfavorisce chi corre da solo. 

Era il marzo 2018 quando tutta Italia si rese drammaticamente conto dell’inadeguatezza della legge elettorale in vigore: il Rosatellum. In quell’occasione, complice la definitiva scomparsa del bipolarismo con l’ascesa del Movimento 5 Stelle, le urne non consegnarono una vittoria netta a nessun partito o coalizione ma costrinsero i principali leader politici a lunghe trattative per la nascita del governo. Ottanta giorni. Tanto fu necessario perché a seguito delle elezioni si trovasse un accordo per la nascita del primo governo Conte. Uno stallo indecoroso che, sommato al taglio dei parlamentari approvato nel 2020 tramite referendum, convinse tutte le parti politiche della necessità di rivedere la legge elettorale prima delle successive elezioni.

Invece ci risiamo. Il 25 settembre gli italiani saranno chiamati ad eleggere 600 parlamentari (400 alla Camera e 200 al Senato) con la legge elettorale pensata dal presidente di Italia Viva Ettore Rosato, da qui il nome “Rosatellum”, che prevede l’assegnazione dei seggi in parte con sistema proporzionale e in parte con sistema maggioritario. Significa, di fatto, che una parte dei seggi sarà distribuita ai partiti sulla base dei consensi a livello nazionale per la Camera e regionale per il Senato mentre i restanti seggi saranno assegnati a chi vincerà nei vari collegi uninominali in cui è stata suddivisa la penisola. A livello numerico la parte più corposa dei seggi verrà assegnata con il sistema proporzionale che permetterà di eleggere 367 parlamentari (245 alla Camera e 122 al Senato) mentre 221 saranno assegnati nei collegi uninominali (147 alla camera e 74 al senato) e i restanti 12 parlamentari saranno espressione delle circoscrizioni estere e verranno eletti con metodo proporzionale.

Il funzionamento della parte proporzionale del Rosatellum è facile ed intuitivo. Come dice il nome stesso, infatti, i seggi vengono distribuiti proporzionalmente tra tutti i partiti che hanno superato la soglia di sbarramento fissata al 3%. La parte più complicata, e maggiormente pesante nel sistema elettorale ideato da Rosato, è quella maggioritaria che prevede che in ognuno dei collegi in cui è stata suddivisa l’Italia venga eletto il candidato o la candidata della coalizione, o del partito in caso corra da solo, che prende il maggior numero di voti in quella porzione di territorio. Al momento del voto l’elettore potrà così scegliere di mettere una croce sul simbolo del partito che intende votare, assegnando così il suo voto a quel partito per la parte proporzionale e al candidato della coalizione nel maggioritario, oppure di metterla sul nome del candidato, assegnando al candidato il voto per l’uninominale mentre al proporzionale il suo voto sarà distribuito tra tutti i partiti della coalizione. Non è invece prevista la possibilità di un voto disgiunto e non sarà dunque possibile votare per un candidato all’uninominale ed un partito o coalizione diversa nel proporzionale.

È questo, di fatto, che rende quasi indispensabili le alleanze. Da un lato i partiti grandi, ad esempio il Partito Democratico, correndo da soli contro una coalizione più ampia farebbero molta fatica a vincere nei collegi uninominali e dunque cercano alleanze per raggranellare qualche consenso in più sperando di strappare qualche seggio agli avversari. Dall’altro, invece, senza alleanze i partiti più piccoli si ritroverebbero con poche o nessuna possibilità di vincere nei collegi uninominali e dovrebbero così accontentarsi dei seggi ottenuti con il proporzionale. L’alleanza Sinistra Italiana – Verdi, ad esempio, essendo data intorno al 4% potrebbe ottenere circa 15 parlamentari nel sistema proporzionale ma correndo da sola perderebbe in tutti i collegi uninominali in cui i candidati sono eletti con il maggioritario. Da qui nasce la necessità di entrare in coalizione con partiti più grandi per non dover rinunciare totalmente alla corsa nei collegi. In questo modo in cambio del proprio apporto elettorale, che come visto è necessario anche per i grandi partiti, i partiti più piccoli negoziano con le coalizioni la possibilità di mettere i propri candidati anche in alcuni collegi considerati “blindati”, cioè in cui la coalizione è sicura di vincere.

Ma se il sistema delle alleanze fin qui descritto appare intuitivo, meno comprensibile sembrano essere le trattative e i compromessi per allearsi con partiti tanto piccoli da rimanere sotto la soglia di sbarramento del 3% e che quindi rimarrebbero fuori dal Parlamento. Accade sia nel centrodestra, con i centristi di “Noi Moderati”, sia nel centrosinistra, con la formazione di Di Maio ben lontana dal 3%, ed è dovuto ad una seconda soglia di sbarramento prevista dal Rosatellum: le liste che fanno parte di una coalizione e che prendono tra l’1 e il 3% non guadagnano seggi al proporzionale, ma i loro voti vengono spartiti proporzionalmente tra gli altri partiti che compongono la coalizione. Inglobando nella coalizione partiti così piccoli dunque si ottengono vantaggi sia i partiti più grandi, che tentano così di raggranellare qualche seggio in più, sia per i partiti piccoli che vedono in queste alleanze e nella promessa di una candidatura in un collegio uninominale blindato (in cui cioè è quasi certa la vittoria della coalizione) l’unica strada per entrare in parlamento.

Per portare effettivamente voti alla coalizione, però, il partito in questione deve superare l’1%. In caso contrario tutti i suoi voti andranno persi. Se, ad esempio, il partito di Di Maio prendesse lo 0,8% e il suo leader venisse eletto in un collegio uninominale grazie alla coalizione di centrosinistra, Di Maio entrerebbe in parlamento ma gli altri partiti non otterrebbero alcun vantaggio da quella alleanza perché quello 0,8% non sarebbe ridistribuito a nessuno. 

Fratelli di ‘ndrangheta: i guai giudiziari nel partito di Giorgia Meloni

L’esponenziale crescita nei sondaggi del partito di Giorgia Meloni ha portato negli ultimi anni ad una migrazione di massa di esponenti di partiti di centrodestra verso Fratelli d’Italia. Un’arma a doppio taglio con cui FdI ha spalancato le porte a soggetti con legami pericolosi con cosche mafiose

Mancano meno di due mesi alle prime elezioni politiche autunnali della storia repubblicana e qualcuno già la incorona vincitrice. Giorgia Meloni, in testa a tutti i sondaggi, sta spingendo Fratelli d’Italia verso vette di consenso che nessuno poteva immaginare qualche anno fa. Nato nel dicembre del 2012 da una costola dell’allora Popolo delle Libertà, fino agli ultimi mesi era stato il partito minore all’interno della coalizione del centrodestra, utilizzato da Forza Italia e Lega per attrarre i voti delle frange più estreme della destra ed ampliare così il bacino elettorale di una coalizione orientata più al centro. Ma negli ultimi anni qualcosa è cambiato.

Radicato a Roma e provincia e fondato su una solida base di nostalgici e orfani della vecchia fiamma tricolore, Fratelli d’Italia ha scalato le gerarchie all’interno della coalizione diventando il primo partito sia nel centrodestra che nel paese. Grazie alla sua linea dura di forte opposizione a tutti i governi che si sono succeduti in questa legislatura, il partito di Giorgia Meloni è passato dal 4,4% delle politiche del 2018 ad un potenziale 23% alla prossima tornata elettorale. Un’ascesa quasi miracolosa che ha però portato ad una serie di problemi collaterali all’interno del partito in termini di legalità. Con la crescita dei consensi diversi politici, soprattutto al sud, sono migrati in modo quasi incontrollato da Forza Italia e dalla Lega verso il partito di Giorgia Meloni portando a Fratelli d’Italia importanti pacchetti di voti che hanno contribuito ad alimentare la crescita nei sondaggi. Ma questa continua “campagna acquisti” si è rivelata un’arma a doppio taglio: se da un lato ha ingrossato le fila del partito e contribuito alla crescita dei consensi, dall’altro ha spalancato le porte a soggetti in odor di mafia.

Uno smacco non indifferente per Giorgia Meloni che da sempre ricorda di aver iniziato a far politica dopo la morte del giudice Paolo Borsellino e di voler mettere al primo posto la legalità proprio per questo suo legame con il giudice antimafia. Parole che troppo spesso stridono, però, con i fatti. Fratelli d’Italia, ad oggi, sembra infatti essere il partito con più legami con i clan e con il maggior numero di esponenti arrestati. Per questo, anche se ha destato particolarmente clamore essendo arrivato in piena campagna elettorale, non sorprende il caso di Terracina scoppiato pochi giorni fa. Nel feudo nero di Fratelli d’Italia, dove la stessa leader del partito si era candidata per essere certa di essere rieletta in Parlamento, era stato ideato un vero e proprio sistema fatto di corruzione e gestione opaca degli appalti pubblici. Un sistema su cui ora indaga anche l’antimafia per le violenze e le intimidazioni in pieno stile mafioso ai danni di chi minacciava di opporsi. L’inchiesta, che vede coinvolto tra gli altri anche Nicola Procaccini fedelissimo di Giorgia Meloni già sindaco del comune pontino ed europarlamentare nelle file di Fratelli d’Italia, è la prosecuzione di quella che solo pochi mesi fa aveva portato all’arresto del vicesindaco Marcuzzi, anche lui meloniano della prima ora e in procinto di candidarsi alle prossime regionali.

E pensare che nel 2020, in piena campagna elettorale per le amministrative, era stata proprio la leader di Fratelli d’Italia a osannare il “modello Terracina” affermando di volerlo esportare anche a livello nazionale. “Io vi prometto” aveva detto durante un comizio “che prenderemo questo laboratorio, questo esempio di democrazia e politica, e lo porteremo al governo della nazione”. Ma se dopo gli arresti appare difficile immaginare la Meloni che, fiera e decisa, promette di portare il sistema Terracina in tutta Italia, in molti tra i suoi compagni di partito sembrano averla presa in parola riproducendo in tutta Italia quel tessuto di relazioni pericolose che ha portato alla fine della giunta del comune pontino.

È il caso, ad esempio, di Francesco Lombardo. Candidato alle amministrative di Palermo con Fratelli d’Italia è stato arrestato a pochi giorni dal voto per aver chiesto voti al boss mafioso Vincenzo Vella in cambio di favori. Una vicenda da cui Fratelli d’Italia ha subito preso le distanze dichiarandosi parte offesa. Così come aveva a suo tempo preso le distanze da Roberto Russo, assessore regionale in Piemonte, condannato nei giorni scorsi a 5 anni per voto di scambio politico mafioso. E ancora Alessandro Niccolò, capogruppo di FdI in Calabria arrestato per associazione mafiosa. O Giancarlo Pittelli, ex europarlamentare calabrese di Forza Italia passato a Fratelli d’Italia nel 2017 ed arrestato nell’ambito dell’inchiesta “Rinascita-Scott” perché considerato anello di congiunzione tra la politica e i clan di ‘ndrangheta. O ancora Domenino Creazzo, già sindaco di sant’Eufemia d’Aspromonte, arrestato tra l’elezione e l’insediamento in consiglio regionale per i suoi rapporti con la cosca Alvaro. E si tratta solamente di alcuni degli esponenti di Fratelli d’Italia arrestati o indagati negli ultimi anni per rapporti opachi con i clan. Una lista lunghissima che non fa sconti a nessuno, da nord a sud, da semplici eletti a dirigenti del partito.

“Io non posso conoscere personalmente tutte le migliaia di candidati che ha Fratelli d’Italia in tutto il paese” si era difesa Giorgia Meloni ai microfoni della trasmissione Report ribadendo il suo impegno per ripulire il partito da figure del genere. Un’affermazione sacrosanta e, a tratti, anche condivisibile. Difficile però immaginare che la leader di quello che oggi è il primo partito a livello nazionale non sapesse degli affari di Pasquale Maietta, astro nascente del partito e tesoriere del gruppo di Fratelli d’Italia alla Camera dei Deputati. Secondo le indagini condotte nel 2016 Maietta avrebbe avuto rapporti stabili e di reciproco interesse con il boss Costantino “cha cha” Di Silvio, elemento di spicco della criminalità organizzata nell’agro pontino che avrebbe garantito tramite Maietta il sostegno elettorale a Fratelli d’Italia nei territori controllati dal clan.

Si tratta di un quadro desolante che contrasta con le parole della candidata premier che da giorni ripete in lungo e in largo che “la classe dirigenti di Fratelli d’Italia è pronta per governare il paese”. Ma questo è il momento che Giorgia Meloni aspetta da una vita ed ora che si prepara a ricoprire la carica più importante di Governo ha deciso di eliminare tutti gli ostacoli tra lei e la premiership tra cui anche i problemi giudiziari legati che contribuiscono ad accostare il nome di Fratelli d’Italia alle cosche mafiose. Da giorni Giovanni Donzelli, responsabile organizzativo di FdI, è al lavoro per fare pulizia all’interno del partito eliminando dalle liste tutti i soggetti che negli anni hanno dimostrato una certa familiarità con gli ambienti criminali di tutta Italia. Un tentativo in extremis di ripulire la facciata per scongiurare polemiche e attacchi da parte degli avversari. Sarà sufficiente a portare la legalità non solo a parole ma anche nei fatti? 

L’estate italiana del Governo Draghi

È ufficialmente estate e come ogni anno si ripetono le stesse scene, ormai quasi rituali: le repliche delle fiction Rai al pomeriggio, gli avvisi di non uscire nelle ore più calde e bere tanta acqua e le crisi di governo, vere o minacciate che siano.

Ci risiamo. Con l’arrivo dell’estate iniziano anche i malumori all’interno del governo e le minacce di crisi e uscite dalla maggioranza. Un grande classico dell’estate italiana da quell’ormai celebre caduta del governo “Conte I” sancita sulle spiagge del Papeete da Matteo Salvini, all’epoca Ministro dell’Interno. A distanza di tre anni dalla caduta del governo giallo-verde i protagonisti della nuova crisi, da giorni in procinto di concretizzarsi ma ancora solo minacciata, sono ancora una volta loro due: Matteo Salvini e Giuseppe Conte. I ruoli ovviamente sono diversi rispetto a quelli ricoperti nell’estate del 2019, nessun incarico di governo ma solo la guida di due partiti in forte crisi ma centrali nella maggioranza larga che sostiene Mario Draghi.

La telenovela tra il Movimento 5 Stelle e il premier Mario Draghi è iniziata settimane fa quando il leader pentastellato è stato informato, correttamente o meno non è dato sapersi, di un canale diretto tra il premier e Beppe Grillo. Secondo le indiscrezioni, infatti, Draghi avrebbe fatto pressioni sul fondatore del Movimento per chiedere la rimozione di Conte dalla guida del partito. Una voce mai confermata che ha però scottato l’ex premier al punto da arrivare ad ipotizzare intromissioni più profonde di Mario Draghi nelle attività del Movimento fino ad accusarlo di aver tirato lui le fila della scissione che ha portato all’addio di Di Maio e dei suoi fedelissimi. “Una scissione così non si coltiva in poche ore.” Ha commentato Conte “Da un po’ c’era un’agenda personale al di fuori della linea politica del Movimento. È stato Draghi a suggerirlo? Ne parlerò con lui”. E il giorno per parlarne è arrivato. Dopo il rinvio, a causa della tragedia sulla Marmolada che ha tenuto impegnato il premier, Draghi e Conte si incontreranno domani pomeriggio a Palazzo Chigi per “chiarire il disagio politico” e mettere sul tavolo le condizioni necessarie alla sopravvivenza del governo: no all’invio di armi a lunga gittata all’Ucraina e parlamentarizzazione del quarto decreto interministeriale con almeno un’informativa, no al termovalorizzatore a Roma, sì al salario minimo, no al ridimensionamento del reddito di cittadinanza e rinnovo del superbonus al 110%.

Da una parte, dunque, ci saranno le misure simbolo del Movimento 5 Stelle. Dall’altra ci sarà Palazzo Chigi con il Premier Draghi che si è detto disponibile all’ascolto ed al confronto ma che non intende deragliare dalla rotta impostata. Giuseppe Conte, anche se è ancora offeso per le presunte intromissioni del premier nella vita interna del M5s, non ne vuole fare una questione personale ma la partita resta delicata e rischia di far saltare il banco. “51 per cento restiamo, 49 per cento usciamo”, è la previsione di un fedelissimo del presidente del M5S. Una previsione che sembra rispecchiare fedelmente la doppia anima del Movimento, spaccato quasi a metà, con una parte dei parlamentari che spingono per la rottura e l’uscita dal Governo mentre l’altra chiede a gran voce di andare avanti. Insomma, che sia rottura o meno, per Conte si prospetta un’estate da sarto che lo vedrà costretto a ricucire rapporti per non perdere definitivamente un partito che appare allo sbando.

Meno problematica appare invece la condizione di Matteo Salvini, altro protagonista dell’estate italiana e vero e proprio pezzo da novante delle crisi di governo agostane. Ieri a Milano l’ex Ministro dell’Interno ha incontrato i suoi fedelissimi, convocati dopo la debacle delle amministrative, per definire la linea da seguire nei prossimi mesi. Al termine dell’incontro la direzione della Lega sembra essere definita: ricompattare il partito a partire da una linea critica, a tratti ostile, nei confronti del premier alzando i toni e strigliando Draghi ad ogni occasione buona. Finito il summit milanese emergono anche le richieste al governo dietro cui si trincerano Matteo Salvini e la Lega. Come nel caso di Conte, infatti, anche Salvini mette sul tavolo le proposte simbolo del suo partito chiedendo scelte concrete su fisco, stipendi, pensioni ed autonomia ed annunciando di voler “fare il tagliando a Draghi” per verificare lo stato dei lavori in questi ambiti. Ma se pubblicamente le priorità della Lega sono queste, leggendo tra le righe si capisce che i malumori all’interno del partito sono altri e vanno ricercati tra i desideri dell’ala sinistra della maggioranza. Ius Scholae, depenalizzazione della cannabis e ddl Zan, che a breve sarà riproposto in Parlamento, sono proposte giudicate irricevibili dalla Lega e su cui Matteo Salvini annuncia battaglia. Ma se Conte sembra essere già pronto allo strappo, la strategia del leader leghista sembra essere più attendista. Ancora segnato, forse, dalle conseguenze devastanti della crisi innescata nel 2019 dal Papeete, Salvini al momento non sembra voler mettere in dubbio il suo appoggio a Draghi ma c’è una data cerchiata di rosso sul calendario del Capitano leghista: il 18 settembre. Quel giorno a Pontida si raduneranno come ogni anno le tante anime della Lega e proprio quella è la data individuata per “fare il tagliando a Draghi” valutando prima di tutto il suo approccio alle proposte del centrosinistra e in secondo luogo lo stato dell’arte per quel che riguarda le misure volute dalla Lega. Insomma, se al momento sembra scongiurato un Papeete bis a fine luglio, il rischio di una “Crisi di Pontida” è reale e concreto.

Ma mentre i leader politici portano avanti interessi propri e di partito perseguendo la linea politica del Movimento 5 Stelle il primo e della Lega il secondo, tra i parlamentari qualcuno ha già fatto trapelare qualche malumore in caso di caduta del Governo. C’è infatti una data chiave nei prossimi mesi che tutti i parlamentari stanno aspettando: il 22 settembre, data in cui i parlamentari avranno maturato il diritto a quello che una volta era il vitalizio e adesso, più sobriamente, va chiamata pensione. E se il governo cade prima? Draghi ha già detto che non si cercherà una nuova maggioranza e si andrà immediatamente ad elezioni senza passare dal via. E proprio come nel Monopoli, se non si passa dal via non si incassa.

Quirinale, the end: Perdono i partiti ma vince la politica. E adesso?

La rielezione di Mattarella non è la sconfitta della politica che, anzi, se vogliamo ne esce vincitrice. È senza dubbio, però, la sconfitta del sistema dei partiti e dei leader politici che li guidano. Ora il panorama è desolante con spaccature e crisi ovunque che impongono una ricostruzione da zero.

Alla fine, è Mattarella Bis. La svolta arriva alle 10.36 quando Matteo Salvini si lascia sfuggire una dichiarazione sibillina mentre chiacchiera a microfoni spenti con i cronisti in Transatlantico. “Non si può andare avanti solo con i veti” dice il leader leghista “a questo punto conviene andare decisi sul bis di Mattarella. Ma dobbiamo essere tutti convinti”. È il momento in cui, per dirla con le parole di Letta, “il piano si fa inclinato” e la pallina inizia a scivolare inarrestabile verso la fine della discesa. Così, mentre in aula si prosegue con la settima votazione a vuoto, fuori dal palazzo la situazione si evolve rapidissimamente. Il Premier Draghi, dopo un colloquio con Mattarella a margine del giuramento al Quirinale di Filippo Patroni Griffi come giudice della Corte Costituzionale, rimane a colloquio da Mattarella facendo da trait d’union tra i partiti e il presidente uscente. Registra una disponibilità di massima e, immaginiamo, la comunica ai leader della maggioranza. La pallina scivola sempre più veloce. Iniziano e registrarsi le reazioni dei partiti e sono tutti con Mattarella al punto che Casini, fino a quel momento ancora in corsa con il sostegno di Forza Italia, si fa da parte: “Chiedo al Parlamento, di cui ho sempre difeso la centralità, di togliere il mio nome da ogni discussione e di chiedere al presidente della Repubblica Mattarella la disponibilità a continuare il suo mandato nell’interesse del Paese”. C’è una sola voce fuori dal coro, quella di Giorgia Meloni che inferocita twitta immediatamente: “Salvini propone di andare tutti a pregare Mattarella di fare un altro mandato. Non voglio crederci”. Ma la pallina ormai è inarrestabile e alle 15 arriva l’atto formale con la salita al Colle dei capigruppo di maggioranza a chiedere ufficialmente la disponibilità del Presidente uscente. “Avevo altri programmi” dice Mattarella “ma se è necessario ci sono”. E così si arriva al plebiscito dell’ottava votazione: 759 voti, il più votato dopo Pertini, e fine della corsa.

Ma al di là della cronaca della giornata di ieri, oggi è tempo di bilanci. Da ieri la teoria più ricorrente è quella secondo cui “l’elezione di Sergio Mattarella è la sconfitta della politica”. Non è così. La rielezione di Sergio Mattarella è una sconfitta, nettissima, ma non della politica. È la sconfitta del sistema dei partiti, uscito a pezzi da una settimana di vergognoso teatrino. Quei partiti che si sono dimostrati incapaci di trovare un punto di incontro. Quei partiti che per una settimana hanno fatto fuoco e fiamme bruciando uno dopo l’altro esponenti autorevoli della vita politica ed istituzionale della Repubblica Italiana. Quei partiti che alla fine hanno scelto la via più semplice, ripiegando sul presidente uscente nonostante le sue richieste di trovare un altro nome. Il sistema dei partiti a cui siamo abituati, con leader e capigruppo che conducono saldamente i loro parlamentari, si è disciolto. Per giorni i grandi elettori, da un lato e dall’altro, hanno votato di testa loro in totale autogestione avviando di fatto a partire dalla terza votazione una inedita “operazione Mattarella”. Il risultato è che per la prima volta sono i leader a seguire i parlamentari e non viceversa. Condottieri senza esercito ed eserciti senza condottieri rappresentano uno scenario inedito e dissacrante per il sistema dei partiti e per la politica italiana. Uno scenario che vede in definitiva la sconfitta dei partiti e dei loro leader ma non della politica che, anzi, ne esce se possibile vincitrice. La politica vince perché i Grandi Elettori sembrano votare come espressione dei cittadini che rappresentano, votando in modo spontaneo un presidente che piace al 66% degli italiani (dati SWG per La7, gennaio 2022). Sembra dunque ripristinarsi quel principio di rappresentanza che è cardine della democrazia e della politica. Poi, ovviamente, non è tutto bianco o nero e dunque è chiaro che dietro quei voti sparsi non ci sia solo la volontà di dare voce a quel 66% di cittadini pro-Mattarella ma anche la paura di un cambiamento improvviso con ripercussioni imprevedibili sul governo. Ma è un inizio, e non è poco visti i tempi bui.

Tempi bui per i leader e tempi bui per le coalizioni che escono con le ossa rotte da questa settimana e che ora dovranno cercare un nuovo equilibrio e, presumibilmente, creare una nuova geografia. A farne maggiormente le spese è stato senza dubbio il centrodestra che, arrivato a inizio votazioni con la presunzione di essere granitico, si è spaccato inesorabilmente sotto le picconate dei franchi tiratori. Quel centrodestra che aveva in mano il pallino del gioco ma che non è riuscito a condurlo arrivando a bruciare la seconda carica dello stato. Ad oggi la situazione nella coalizione sembra irrisolvibile con Forza Italia che da venerdì pare aver scaricato definitivamente i compagni meno moderati. I timori di una rottura anche tra Lega e Fratelli d’Italia, saliti dopo il no secco di Giorgia Meloni diventano quasi certezze dopo le dichiarazioni rilasciate da Giorgia Meloni al Corriere della sera: “con Lega e Forza Italia, oggi, siete ancora alleati? In questo momento no. Mi sembra che abbiano preferito l’alleanza col centrosinistra, sia per Draghi che per Mattarella. Se per fare una prova manca un terzo indizio, quello è la legge elettorale: c’è chi cercherà di cambiarla in senso proporzionale. Se ci staranno, ci sarà poco da aggiungere”. I tre principali poli del centrodestra, dunque, sono divisi come mai lo erano stati prima. Nel prossimo anno, prima delle politiche della primavera 2023, bisognerà ricostruire da zero un’alleanza che possa presentarsi unita alle urne per puntare al governo o sarà l’ennesima occasione sprecata. 

Nel centrosinistra, invece, la coalizione sembra reggere ma a spaccarsi sono i partiti. Il Movimento 5 Stelle è una polveriera e ieri sera, dopo le scaramucce dei giorni scorsi, è iniziata la resa dei conti. Di Maio, pochi minuti dopo il discorso con cui Mattarella accetta l’incarico, convoca i giornalisti e attacca Conte. “Alcune leadership hanno fallito” dice “credo che anche nel M5s serva aprire una riflessione politica interna”. Non che servissero dichiarazioni pubbliche per capirlo. Proprio l’operazione “Mattarella – Bis”, nata non a caso dalle fila del M5S e poi appoggiata da Di Maio, è stato il segnale che qualcosa non andasse. Ora il Movimento dovrà ripartire ricucendo, o strappando definitivamente, le due anime prevalenti che lo compongono: quella dimaiana e quella contiana. Il PD, cosa strana per un partito di “sinistra”, sembra essere quello che ha meglio retto il colpo senza dividersi. Certo, anche nel Partito Democratico, sono stati tanti i grandi elettori a votare Mattarella in autonomia senza seguire le istruzioni del leader ma Enrico Letta sembra essere quello uscito meglio da questa debacle. i spende a lungo, con prudenza, per Mario Draghi, muovendosi sul filo del rasoio, con Giuseppe Conte che vuole il premier morto, in compagnia di Dario Franceschini, e contando sull’ambivalente sostegno a distanza di Luigi Di Maio. E siccome non si tratta di fatti personali, ma solo di politica, cura anche il canale con Italia viva. Azzecca la tattica parlamentare sulla prova di forza con Maria Elisabetta Alberti Casellati, lasciando il centrodestra a contarsi. Invita al volo a assecondare la saggezza dei grandi elettori, dopo la prova del nove su Mattarella.

Ora si spengono le luci. Il Transatlantico svuotato torna nel silenzio e le strade intorno a Montecitorio tornano ad essere percorribili da tutti. Come abbiamo già detto nei giorni scorsi, per chi ama e segue la politica quello dell’elezione del Capo dello Stato è uno dei momenti più belli e divertenti che ci possano essere. Così oggi resta un po’ di malinconia, come quella che sale dopo l’ultimo giorno di scuola. Ma da domani inizia un altro anno di politica e, visti i presupposti, si preannuncia un anno particolarmente movimentato. Insomma, pare proprio che ci sarà da divertirsi. O da mettersi le mani nei capelli, se preferite.


Le immagini che restano

  1. La salita: I capigruppo salgono al Colle per chiedere ufficialmente il Bis a Mattarella.
  2. Applauso: Alle 20.19 Fico pronuncia per la 506° volta il nome di Mattarella. I rappresentanti politici presenti in aula si alzano in un lungo applauso.
  3. Discorso: il presidente rieletto pronuncia immediatamente un breve discorso: “I giorni difficili che stiamo vivendo richiamano al senso di responsabilità e al rispetto del volere del parlamento. Queste condizioni impongono di non sottrarsi ai doveri a cui si è chiamati”

Verso il voto: la galassia complottista e no-vax candidata alle amministrative

Con la chiusura delle liste per le prossime amministrative si è definito il quadro dei candidati. Tra di loro, soprattutto nelle città principali, spicca la presenza di liste e candidati apertamente contrari a vaccini e green pass che fanno leva su teorie complottiste.

La corsa alle amministrative del 3 ottobre entra nel vivo. Dopo la presentazione delle liste e dei candidati sindaco nei 1.349 comuni chiamati al voto, le campagne elettorali entrano nel vivo con la presentazione dei programmi e dei temi a cui ogni lista vuole dare la priorità. Tra i tanti temi al centro dei dibattiti, soprattutto nelle grandi città, c’è inevitabilmente quello legato alla pandemia ed alla campagna vaccinale. E così tra i candidati spunta una schiera di complottisti, “no green pass” e “no vax” raccolti, quasi sempre nel “Movimento 3V – Vacini, vogliamo verità”.

Nato nel 2019 come partito antisistema, il Movimento 3V ha trovato nuova linfa per i suoi slogan grazie alla pandemia. Sul loro sito si presentano come “l’unico partito che mette al centro il benessere del cittadino” pronto a porsi come “baluardo contro le vessazioni degli attuali provvedimenti politici contrari alla Costituzione, ai diritti umani e a qualsiasi forma di etica”. Il primo nemico è, ovviamente, la campagna vaccinale portata avanti dal governo e definita “una guerra lampo in cui a crollare sono i diritti fondamentali dell’uomo riconosciuti dalla Costituzione”. Sul sito del movimento, poi, è presente la lista delle “15 ragioni di medici e scienziati che ci convincono a non vaccinarci” con al primo posto una motivazione che sembra aver poco a che fare con la scienza: “io non sono una cavia”. Ma ad animare il Movimento 3V non sono solo i vaccini e l’opposizione ad una fantomatica “dittatura sanitaria”. Tra le ultime battaglie si registrano anche quelle contro i pagamenti con carte di credito, con tanto di hashtag #iopagoincontanti “contro la moneta elettronica in difesa della libertà e dell’economia delle persone reali”, e contro il 5G e l’aumento dell’elettrosmog.

Dopo gli scarsi risultati ottenuti nelle regionali del 2020, il Movimento 3V sembra pronto per un salto di qualità che potrebbe portarlo ad approdare in qualche consiglio comunale cavalcando l’orda ribelle che nelle ultime settimane sta agitando le piazze di diverse città. Così, in vista delle amministrative in quasi tutte le principali città sono presenti candidati sindaci di questo schieramento: da Trieste, dove il candidato sindaco Ugo Rossi si fregia di aver collaborato con Silvia Cunial per fermare il 5G, a Bologna, dove Andrea Tosatto non ha dubbi: “La politica ha cambiato il concetto di pandemia dipingendo un virus perfettamente curabile come un killer fantasma”. Poi Milano, Rimini, Torino, Roma, Napoli e così via con un totale di 9 candidati sindaci “no-vax” che tenteranno l’assalto ai consigli comunali.

Ma in molte città, il movimento 3V dovrà contendersi i voti della galassia no vax con tutti quei partiti che strizzano l’occhio a negazionisti e complottisti. In primis “ItalExit”, guidato dall’ex 5 stelle Gianluigi Paragone che pur puntando tutto sull’uscita dall’euro facendo leva sulle difficoltà economiche dei cittadini sta cavalcando da settimane l’onda delle proteste contro vaccini e green pass. E se a Milano il candidato sindaco sarà proprio Paragone, per Torino ItalExit ha scelto Ivano Verra che di recente ha affermato che “c’è chi è pronto a baciare i malati di Covid per contrarre il virus piuttosto che vaccinarsi”, e che “Carla Fracci e Raffaella Carrà dimostrano le conseguenze del vaccino essendo morte dopo averlo fatto”.

Ma se il movimento 3V e ItalExit rappresentano i casi più estremi di “anti sistema” e non nascondono le loro idee complottiste e no vax, c’è anche una parte della politica “istituzionale” pronta a raccogliere i voti dei ribelli del vaccino. Lega e Fratelli d’Italia, infatti, mentre pubblicamente condannano le teorie complottiste non hanno mai smesso di ammiccare alle posizioni opposte. Non solo intervenendo più volte in modo ambiguo su questioni come vaccini e green pass ma anche, e soprattutto, candidando in diversi comuni esponenti di quella stessa galassia negazionista e no vax. Il caso più estremo è senza dubbio quello di Francesca Benevento, candidata a sostegno di Michetti nella capitale, apertamente antisemita e no-vax che si è scagliata contro il ministro Speranza definendolo “il ministro ebreo ashkenazita formato dalla McKinsey, che riceve ordini dall’élite finanziaria ebraica”.

Una schiera di no vax e no green pass, insomma, si contenderà i voti di chi nelle ultime settimane scendi in piazza per ribadire la propria contrarietà alle regole pensate per arginare una pandemia che ha già fatto oltre 130mila vittime nel nostro paese. Resta da vedere quale seguito avranno e quanti, effettivamente, saranno pronti a sostenerli alle urne. 

Il pentito che accusa Giorgia Meloni: “Diede 35mila euro ai clan per ottenere voti”

Dalle parole di un collaboratore di giustizia arrivano pesanti accuse verso la leader di Fratelli d’Italia. Agostino Riccardi racconta ai magistrati romani di come Giorgia Meloni avrebbe pagato 35mila euro ai clan rom in cambio di voti per le elezioni politiche del 2013.

La denuncia arriva direttamente dalle parole del collaboratore di giustizia Agostino Riccardi ed è una di quelle notizie che, potenzialmente, potrebbero scatenare un terremoto politico. Parlando con i magistrati della Direzione distrettuale antimafia capitolina, Riccardi ha rivelato di come in occasione delle elezioni politiche nel 2013 Fratelli d’Italia avrebbe cercato il supporto e i voti dei clan. Con la sua collaborazione Riccardi sta aiutando i pm romani a ricostruire le vicende relative al clan nomade Travali, già finito al centro delle polemiche nei giorni scorsi per il video rap dei rampolli del clan.

Proprio il clan Travali, colpito duramente con l’indagine “Reset” delle scorse settimane, Fratelli d’Italia si sarebbe rivolto in cerca di voti. Secondo le parole del collaboratore di giustizia, infatti, sarebbe stata la stessa Giorgia Meloni a recarsi da loro per chiedere un sostegno in vista della tornata elettorale su suggerimento di Pasquale Maietta, all’epoca astro nascente della formazione politica poi finito al centro delle cronache per i suoi legami con i clan e con il boss dei Casamonica Costantino “Cha Cha” Di Silvio. “Nel 2013 alle elezioni politiche, prima di conoscere Gina Cetrone, presentata da Di Giorgi, al bar eravamo io, Pasquale Maietta, Viola, Giancarlo Alessandrini” si legge nelle dichiarazioni di Riccardi. “Maietta ci presentò Giorgia Meloni. Era presente anche il suo autista. Parlavamo della campagna elettorale e Maietta disse alla Meloni che noi eravamo i ragazzi che si erano occupati delle campagne precedenti per le affissioni e per procurare voti. Parlarono del fatto che Maietta era il terzo della lista, prima di lui c’erano Rampelli e Meloni, nonché del fatto che Rampelli, anche se eletto, si sarebbe comunque dimesso per fare posto al Maietta”. Ma ovviamente quei “ragazzi” non si sarebbero occupati gratuitamente della campagna elettorale di Fratelli d’Italia. Quando Maietta si rivolse alla Meloni per dirle che c’era bisogno di un pagamento lei non si sarebbe fatta troppi scrupoli: “Non c’è problema.” Avrebbe detto “Parlatene con il mio segretario” avrebbe detto.

L’incontro tra gli uomini del clan e il segretario di Giorgia Meloni si sarebbe svolto nei giorni successivi al Caffè Shangrila di Roma e in breve tempo, “senza usare telefoni o altre apparecchiature elettroniche”, si arrivò ad un accordo. Fratelli d’Italia avrebbe infatti pagato al clan 35mila euro per procurare voti e affiggere manifesti elettorali in giro per la città di Latina, pesantemente controllata dal clan nomade come testimoniato dalle recenti inchieste.

Si tratta, come comprensibile, di dichiarazioni che potrebbero avere ripercussioni pesantissime sul partito e sull’immagine di Giorgia Meloni. Dopo le numerose inchieste che negli ultimi anni hanno portato alla luce legami tra esponenti del partito, soprattutto a livello locale, e criminalità organizzata le parole di Riccardi mettono per la prima volta in relazioni i vertici del partito con un potente clan mafioso. Se fino ad ora Giorgia Meloni aveva (quasi) sempre avuto parole di condanna per chi, nel suo partito, veniva coinvolto in inchieste di mafia ora si ritrova coinvolta in prima persona ed è chiamata a difendersi. La prima risposta è ovviamente arrivata via Facebook con un video in cui la leader di Fratelli d’Italia ha smentito tutto: “Io non faccio affari con i rom, io non metto i soldi nelle buste del pane, la notizia è inventata” ha commentato “Devo pensare che gli inquirenti l’abbiano considerata infondata altrimenti mi avrebbero chiesto conto di una notizia che mi infanga e mi chiedo come sia possibile che una rivelazione del genere sia finita su Repubblica, senza che nessuno abbia inteso chiedermi un punto di vista. È partita la macchina del fango contro l’unico partito di opposizione. Non ci facciamo intimidire. Gli ultimi sondaggi ci danno sopra il 18%”.