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La mossa di Nancy Pelosi: atterra a Taipei e sfida Pechino

La speaker della camera Nancy Pelosi atterra a sorpresa a Taiwan scatenando l’ira di Pechino ed innescando un’escalation di tensione politica e militare senza precedenti nella storia recente. Cosa sta succedendo e perché nella piccola isola di Formosa?

Alla fine, lo ha fatto davvero. Sono le 22.45 locali quando all’aeroporto Songshan di Taipei lo Spar19 della US Air Force con a bordo la speaker della Camera americana Nancy Pelosi tocca il suolo taiwanese. Ad attenderlo sulla pista il ministro degli esteri di Taiwan Joseph Hu mentre il grattacielo più importante della città si illuminava con le scritte “grazie speaker Pelosi. Benvenuta a Taiwan”. È lo strappo definitivo della speaker della camera dopo che persino il presidente Biden e il Pentagono le avevano suggerito di eliminare la visita a Taipei dal suo tour in Asia per non alimentare le tensioni con la Cina.

Dal momento in cui i radar indicano che l’aereo di Nancy Pelosi sta facendo rotta verso la capitale di Taiwan, tappa non prevista nel programma ufficiale diffuso domenica, la tensione inizia a crescere. “Con questa mossa gli Stati Uniti dimostrano di essere i più grandi distruttori della pace odierna” commentano da Pechino mentre il Ministro degli Esteri Wang Yi, in una nota, ribadisce che il principio della Unica Cina “è il consenso universale, la base politica per gli scambi della Cina con altri Paesi, il nucleo di interessi fondamentali e una linea rossa e di fondo insormontabili”. Ma, questa volta, Pechino non si limita alle parole. Lascia il beneficio del dubbio fino alla fine, sperando che l’aereo della speaker cambi rotta per dirigersi verso una meta diversa. Ma quando il Boeing con a bordo Nancy Pelosi tocca il suolo taiwanese la risposta è immediata. Dalle basi militari cinesi si alzano in volo i SU-35 Fighters dell’Esercito Popolare di Liberazione che per alcuni minuti sorvolano lo stretto di Taiwan, il tratto di mare che divide l’isola dalla Cina. Poi arriva il comunicato ufficiale: da domani a domenica l’Esercito Popolare di Liberazione cinese condurrà “importanti esercitazioni militari e attività di addestramento, comprese esercitazioni a fuoco vivo” in sei aree marittime intorno all’isola di Taiwan. È la risposta più dura che potesse arrivare da Pechino.

Dal canto suo Nancy Pelosi non fa nulla per rallentare l’escalation di tensione. Ancor prima di scendere dall’aereo commenta il suo arrivo a Taipei su Twitter: “La visita della nostra delegazione a Taiwan” scrive “onora l’incrollabile impegno dell’America nel sostenere la vivace democrazia taiwanese. La solidarietà con i 23 milioni di abitanti di Taiwan è oggi più importante che mai. Il mondo deve scegliere tra autocrazia e democrazia.” Nulla che non ci si potesse aspettare vista la storica attività della speaker della camera in difesa dei diritti umani in Cina che la portò a manifestare il proprio dissenso in piazza Tienanmen nel secondo anniversario del massacro del 4 giugno 1989 e di recente a definire “giovani coraggiosi” i manifestanti democratici di Hong Kong. Con il suo viaggio, sostenuto da un consenso bipartisan al Congresso di Washington, Nancy Pelosi vuole ribadire il suo sostegno alla democrazia di Taiwan, sempre più minacciata dalle mire di Pechino.

Da tempo ormai, Pechino ha infatti messo nel mirino Taiwan rivendicando la propria autorità sull’isola considerata una provincia ribelle nonostante non sia mai stata amministrata dalla Repubblica Popolare Cinese. La questione taiwanese ha radici antiche e nasce nel 1949 con la vittoria di Mao Zedong nella guerra civile cinese e la conseguente fuga dei nazionalisti di Chiang Kai-Shek, che si rifugiarono sull’isola di Taiwan con forze sufficienti a dissuadere Mao dal proseguire il conflitto. Da quel momento si è creato una sorta di stallo che vede da un lato Pechino, che considera Taiwan una provincia ribelle e attende di riportarla sotto la propria egida, dall’altra Taipei che nel frattempo è diventata una florida democrazia e che ribadisce la sua indipendenza dalla Cina continentale. Da quando, nel 1996, sull’isola si sono svolte le prime elezioni libere che hanno dato un governo democratico a Taiwan, la Cina ha sempre operato per isolare il più possibile Taipei sia a livello politico che a livello diplomatico con il risultato che attualmente solamente 14 paesi al mondo intrattengono relazioni diplomatiche ufficiali con il governo taiwanese. Per questo motivo la visita di Nancy Pelosi, la più alta autorità politica statunitense a mettere piede sul suolo taiwanese dal 1997, ha scatenato reazioni scomposte. Il New York Times lo ha definito un “colpo di stato diplomatico” e, anche se si stratta di una evidente iperbole, non è un’immagine così lontana dalla realtà. Pur avendo da sempre supportato la causa dell’isola, infatti, la presenza di un politico di rilievo sul suolo di Taiwan e, qualora venisse confermato, un incontro ufficiale con la presidente Tsai Ing-wen ha un significato ben preciso: legittimare agli occhi del mondo il governo di Taipei. Un affronto nei confronti di Xi Jinping che dal canto suo ha negli ultimi tempi intensificato la sua propaganda a favore di una Cina unita che comprenda anche Taiwan ribadendo la necessità di riportare la provincia ribelle sotto il controllo di Pechino “con qualsiasi mezzo possibile”. Il presidente cinese, d’altronde, si è precluso la possibilità di una soluzione pacifica, cioè una riunificazione concordata e consensuale, visto il modo in cui ha gestito l’anomalia di Hong Kong: distruggendo lo Stato di diritto e le libertà, normalizzando l’isola sotto il tallone della repressione poliziesca cinese.

La giornata di oggi, dunque, sarà cruciale. Se confermato, l’incontro tra la speaker della camera e la presidente di Taiwan potrebbe essere un momento storico decisivo per le sorti dell’area. Pechino attende le mosse di Nancy Pelosi ma, su questo possiamo starne certi, è già pronta a rispondere ad ogni sua mossa.

Il nuovo colonialismo che svuota l’Africa silenziosamente

“La fine del ventesimo secolo ha visto scomparire il colonialismo,
mentre si ricomponeva un nuovo impero coloniale.” 

-Josè Saramago-


È notizia di pochi giorni fa che la Germania, per la prima volta nella sua storia, ha riconosciuto di essere responsabile tra il 1904 e il 1908 di un vero e proprio genocidio nei confronti delle popolazioni di allevatori degli Herero e dei Nama in quella che oggi è la Namibia moderna, indipendente dal 1990 ma all’epoca colonia tedesca. Il Ministro degli esteri tedesco, Heiko Maas, oltre ad auspicare una riconciliazione con la Namibia, ha annunciato che la Germania intende stanziare un fondo di 1,1 miliardi di euro nei prossimi 30 anni, da investire in sviluppo dell’agricoltura e progetti di formazione ovvero per altre destinazioni che le stesse comunità colpite saranno libere di scegliere.

Europa  – Così la Germania cerca di riappacificarsi con il proprio passato coloniale a differenze di molti paesi occidentali, tra cui l’Italia, che ancora non riescono a riconoscere quegli orrori. Ma quando si parla di colonialismo è sbagliato pensare a qualcosa di lontano, a qualcosa che non ci appartiene. Ancora oggi, in gran parte del continente africano, perdurano forme di colonialismo diverse ma certo non meno provanti per chi le vive. In Europa è la Francia la principale attrice nel nuovo colonialismo, non più militare certo, ma fatto di influenza economica e culturale. Da questo punto di vista l’imperialismo francese sembra non essersi mai concluso e Parigi ha saldamente mantenuto un forte legame con i quattordici stati africani che un tempo erano colonie. Proprio in questi quattordici stati si verifica un caso unico di colonialismo moderno grazie all’utilizzo in tutte le ex colonie francesi di una moneta, il Franco della Comunità Francese in Africa (CFA), coniata da Parigi con un tasso di cambio fisso (655 CFA = 1 euro). Quella che sembra essere solamente una moneta racchiude in sé il senso del nuovo colonialismo francese. Da un lato, infatti, in cambio della convertibilità del CFA con l’euro la Francia richiede di partecipare alla definizione della politica monetaria della zona mentre dall’altro i paesi che utilizzando il Franco Africano sono tenuti a versare il 50% delle proprie riserve presso il Tesoro francese in un fondo comune gestito dallo stato transalpino. Tra i vantaggi derivanti dall’adozione di questa valuta vi è senza dubbio una sorta di scudo contro la svalutazione. Il CFA ripara anche dalle impennate inflattive che sovente scuotono l’Africa e rappresenta una garanzia anche in termini di integrazione regionale, facilitando gli scambi tra i Paesi che lo utilizzano. Non mancano gli svantaggi. Il più evidente è di costituire un potenziale freno allo sviluppo di questi Paesi. A farne le spese sono soprattutto i produttori africani desiderosi di esportare i loro beni in Europa. Il cambio fisso rende molto costose le loro merci e agevola gli agricoltori francesi ed europei. Rafforzando i propri legami culturali ed economici con le ex colonie, Parigi tenta di mantenere un’influenza importante sul continente per resistere al colonialismo in arrivo da oriente.

Asia – Ad oggi la principale potenza colonizzatrice dell’Africa è, senza dubbio, la Cina. Se fino al 2010 Pechino non aveva fatto grossi sforzi per aumentare la propria influenza sul continente, negli ultimi dieci anni sono stati investiti oltre cento miliardi di dollari per lo sviluppo di progetti economici e commerciali e per la realizzazione di infrastrutture. Un modo silenzioso per far valere la propria forza nel continente aumentando la propria influenza sugli stati che beneficiano degli investimenti massicci in arrivo dalla Cina. Ma quegli investimeni non sono destinati ad una reale crescita dell’Africa. Sono soldi spesi da Pechino in cerca di un tornaconto. Secondo uno studio condotto dalla China-Africa Research Initiative presso la Johns Hopkins School of Advanced International Studies, la Cina ha prestato un totale di 143 miliardi di dollari a 56 nazioni africane di cui circa un terzo dei è destinato a finanziare progetti di trasporto, un quarto all’energia e il 15% destinato all’estrazione di risorse, compresa l’estrazione di idrocarburi. Solo l’1,6% dei prestiti cinesi è stato invece destinato ai settori dell’istruzione, della sanità, dell’ambiente, alimentare e umanitario. Una cifra irrisoria che fa capire come l’investimento cinese sia finalizzato all’utilizzo dell’Africa per scopi economici e commerciali.

Quei prestiti, inoltre, stringono un cappio attorno al collo dei paesi africani che solo ora si rendono conto di essere alle dipendenze di Pechino. La difficoltà di restituire i prestiti ottenuti, infatti, sta costringendo diversi stati a cedere alla Cina infrastrutture o settori strategici della propria economia. Così l’Angola ha legato la propria produzione petrolifera alla Cina per poter ripagare il debito accumulato e il kenya potrebbe addirittura perdere il porto di Mombasa, una delle sue infrastrutture chiave e più grande porto dell’Africa orientale, cedendolo al governo cinese se la Kenya Railways Corporation (KRC) non dovesse effettuare il pagamento di 22 miliardi di dollari dovuti alla Exim Bank of China.

Mentre gli investimenti della Cina aumentano a dismisura, però, va sottolineato come anche altri paesi asiatici abbiano allungato le proprie mire sul continente nero. Tra i dieci maggiori investitori, infatti, si trovano anche Singapore, India ed Hong Kong che investono circa 20 miliardi ciascuno ogni anno in diverse zone.

Dove – Così come i partner, anche i settori e le regioni di interesse sono mutati nel corso degli anni. Gli investimenti hanno infatti iniziato ad essere diretti non solo alle materie prime, ma anche alle infrastrutture, alla manifattura, alle telecomunicazioni e, più recentemente, al settore dei servizi finanziari e commerciali, facendo uso sempre più di nuove tecnologie e puntando all’automazione. Allo stesso modo hanno subito una marcata diversificazione in termini di paesi di destinazione. I paesi destinatari di investimenti sono così cambiati e aumentati: non più solo quelli ricchi di risorse come il Sudan, la Nigeria, l’Angola, ma anche quelli con mercati e consumatori promettenti, per quantità e tipologia, come il Kenya e l’Etiopia. Per la Cina questa diversificazione è avvenuta di pari passo all’arrivo di imprese private cinesi nel continente e al crollo dei prezzi delle materie prime africane.

Il colonialismo, insomma, non sembra essere finito. Nonostante sempre più paesi prendano le distanze dal proprio passato fatto di abusi e violenze, ancora oggi la dominazione straniera in Africa sembra continuare sotto forme diverse. Più silenziose, forse, ma certo non meno pericolose. Se prima, infatti, lo sfruttamento delle risorse africane avveniva alla luce del sole, oggi prosegue nell’ombra sotto forma di investimenti e prestiti che, alla fine dei conti, sembrano servire solo in chi investe danneggiando ulteriormente chi li riceve.

Cina ed Europa bloccano i rifiuti. Come le nuove limitazioni potrebbero favorire le ecomafie

Dal primo gennaio 2021 il mondo dei rifiuti verrà stravolto. A partire da quella data, infatti, entreranno in vigore due norme che incideranno in maniera determinante sul mondo in cui oggi vengono trattati rifiuti plastici e non solo. Ma c’è un rischio che rimane in agguato: gli ecocriminali.

L’inizio del nuovo anno porterà una serie di novità nel settore dei rifiuti che potrebbero sconvolgere l’intera filiera portando i principali produttori di scarti a dover riconsiderare le proprie politiche. Con il nuovo anno entreranno infatti in vigore due norme che potrebbero stravolgere in maniera pesante, e con altrettanto pesanti ripercussioni, la geografia dell’export di rifiuti di ogni genere. La prima novità arriva dalla Cina che, come punto finale della propria strategia green in tema di rifiuti, con il nuovo anno vieterà l’importazione di tutti i rifiuti solidi provenienti dall’estero vietandone lo scarico, il deposito e lo smaltimento. Un cambiamento epocale per una nazione che da decenni ricopre un ruolo centrale nel riciclo e nello smaltimento degli scarti di tutto il mondo. Fino al 2017, infatti, quasi la metà dei rifiuti prodotti in tutto il mondo venivano esportati verso la Cina come risultato della grande capacità del colosso asiatico di smaltire e in parte riciclare quegli scarti. A partire da quell’anno, però, la nuova politica in tema ambientale della Cina ha portato ad una graduale chiusura delle frontiere con il divieto di importazione prima di 24 tipologie di rifiuti solidi poi di tutti i rifiuti plastici fino alla svolta del 2021 con lo stop totale a qualsiasi tipo di rifiuto. Ma se la decisione della Cina era prevista e conosciuta da tempo, grazie ai rigidi piani economici pluriennali del paese asiatico, più sorprendente ma non meno importante risulta essere quella dell’Unione Europea. Nei giorni scorsi, infatti, la Commissione Europea ha varato nuove regole per lo smaltimento di rifiuti stabilendo il divieto assoluto a partire dal nuovo anno di esportare i rifiuti plastici verso i paesi non OCSE. Nella pratica, dunque, i paesi membri dell’Unione Europea non potranno spedire verso i paesi più poveri del mondo i propri scarti plastici vedendo limitata a soli 37 paesi con PIL medio-alto di cui 21 fanno parte della comunità Europea.

Le due misure avranno senza dubbio ripercussioni pesanti sui principali paesi europei e non solo. Con riferimento all’Italia, il blocco dell’importazione di rifiuti da parte della Cina andrà ad incidere in maniera significativa come già avvenuto per i divieti parziali degli scorsi anni. Nel 2018 secondi il rapporto sui rifiuti speciali curato da ISPRA, il nostro paese ha spedito nel paese asiatico 103.000 tonnellate di rifiuti speciali non pericolosi con una contrazione di quasi il 50% rispetto all’anno precedente dovuta alle restrizioni iniziate quell’anno. Ancor di più, però, inciderà il blocco dell’esportazione di rifiuti plastici verso paesi non OCSE imposto dall’UE. Come conseguenza al calo delle esportazioni verso la Cina, sono quasi raddoppiate tra il 2017 e il 2018 quelle verso paesi meno sviluppati con oltre 230 mila tonnellate di rifiuti indirizzate verso 11 paesi fuori dall’OCSE contro le 120mila esportate l’anno precedente. Pur non trattandosi esclusivamente di rifiuti plastici è innegabile che una buona fetta (almeno un terzo) di quelle 230 tonnellate rientrino tra i materiali che ora non sono esportabili. Senza considerare l’ulteriore aumento che si è senza dubbio registrato nei due anni successivi all’ultimo rilevamento dell’ISPRA. Con la chiusura di diversi mercati sarà più difficile poi anche far smaltire i propri rifiuti a quei paesi verso cui saranno ancora consentite le esportazioni. Se infatti ad oggi molti dei rifiuti plastici erano indirizzati verso Austria e Germania, in futuro quella quota potrebbe diminuire visto che anche i due paesi ridurranno le esportazioni per smaltire quei rifiuti che prima indirizzavano verso paesi non OCSE o verso la Cina.

Il rischio è che con la chiusura di molti mercati di riferimento in tema di rifiuti si possano alimentare fenomeni criminali già particolarmente forti nel nostro paese. Come riportato da Legambiente nel suo annuale rapporto sulle ecomafie, infatti, gli illeciti in materia di rifiuti sono in costante crescita in Italia e nel 2019 sono stati accertati 9.527 reati con un aumento di quasi il 20% rispetto all’anno precedente. Gruppi criminali, più o meno legati alle mafie tradizionali, operano stabilmente da anni nel ciclo dei rifiuti con interessi lungo tutta la filiera dalla raccolta allo smaltimento passando per il trasporto ed anche l’esportazione. Sono infatti decine di migliaia le tonnellate di rifiuti che vengono esportate illegalmente verso paesi in cui lo smaltimento è più conveniente aggirando le norme italiane e internazionali per smaltire a costo minore avvalendosi dell’intermediazione criminale. Se non si ha una stima precisa di quanti rifiuti vengano ogni anno portati al di fuori dal nostro paese illegalmente, diretti principalmente in Asia e nei Balcani, sappiamo che nel 2019 oltre 2mila tonnellate di rifiuti pronti ad essere esportati con documentazioni false sono stati sequestrati dall’Agenzia delle dogane che ne ha impedito la partenza. Ad alimentare questi traffici, oltre a motivi di profitto e convenienza, vi sono anche gravi deficit degli impianti italiani che uniti ai costi troppo elevati portano troppo spesso gli imprenditori a rivolgersi a gruppi criminali per gestirne lo smaltimento. Così la filiera dei rifiuti è diventata per la criminalità un business in grado di garantire profitti paragonabili solo a quelli provenienti dal narcotraffico. Un business che, senza i dovuti accorgimenti e le correzioni necessarie, rischia di essere ulteriormente alimentato dalle nuove politiche sui rifiuti di Cina ed Europa

Uiguri: storia di una repressione millenaria

“Nessuna esitazione, amici, la mia aspirazione rimane alta,
non tirerò giù le maniche che mi sono rimboccato per la lotta.
Il coraggioso giardiniere non lascerà appassire il suo giardino prima del tempo,
Né trascurerà la sua cura facendo morire il nostro fiore.”
-Lutpulla Mutellip-


“Ciao ragazzi. Ora vi insegno come allungare le vostre ciglia. La prima cosa è mettere le ciglia nel piegaciglia. Poi lo mettete giù e usate il vostro telefono, proprio quello che state usando ora, e cercate di capire cosa sta succedendo in Cina nei campi di concentramento dei musulmani”. Inizia così il video pubblicato da Feroza Aziz su Tik Tok per denunciare le violenze sugli Uiguri nella regione cinese dello Xinjiang. Fingendo, a inizio e fine video, un tutorial di make-up la 17enne americana ha eluso la censura dell’app cinese ed ha spiegato ai suoi follower come nel paese asiatico si stia consumando “un nuovo olocausto”. Un video diventato presto virale e ricondiviso milioni di volte su tutti i social cha ha acceso un riflettore importante su un fenomeno spesso taciuto. Mentre Pechino prova a mascherarli come “campi di addestramento volontario” appare sempre più chiaro agli occhi della comunità internazionale come nello Xinjiang sia in atto un tentativo di rieducazione forzata della minoranza uigura di tradizione musulmana.

Gli Uiguri – Gli Uiguri sono una minoranza etnica turcofona di religione islamica che abitano prevalentemente la regione dello Xinjiang nell’ovest della Cina. Se nella regione si registra la presenza di circa 8,5 milioni di uiguri (46% della popolazione totale della regione), l’etnia è diffusa in maniera minore anche in Kazakistan, Kirghizistan, Turchia ed Unione Europea dove, secondo un censimento del 2014, vivrebbero circa 50 mila soggetti legati alla tradizione uigura. Si tratta di un’etnia antica la cui presenza nell’area risalirebbe addirittura al II secolo a.C. si oppose all’espansione dell’impero Han nella zona. Nel 1760, sotto la dinastia Quing, la regione dello Xinjang venne annessa ufficialmente ai territori dell’impero cinese che iniziò ad amministrarla in ottica centralista rifiutando sin da subito le richieste di autonomia dell’etnia islamica. La loro integrazione nella realtà cinese è sempre stata lenta e difficile essendo molto legati alla loro religione e alla loro cultura tradizionale, gli Uiguri si sentono infatti più vicini alle popolazioni dell’Asia centrale che ai loro connazionali Han, l’altra minoranza islamica fortemente legata alla Cina. Ben presto iniziarono dunque le pretese di autonomia e le aspirazioni separatiste sempre represse dalle autorità cinesi.

Aspirazioni che si sono concretizzate, per breve tempo, in due occasioni: nel 1933 e nel 1944. In quegli anni, infatti, gli Uiguri diedero vita ad un duplice tentativo di fondare la tanto sognata “Repubblica del Turkestan orientale”. Se il primo tentativo fu di breve durata e si concluse dopo qualche mese con la repressione cinese, il secondo tentativo fu più durevole. Nel 1940, visto il legame forte tra i due popoli, gli Uiguri ottennero dall’Unione Sovietica assistenza nel creare il “Comitato per la liberazione del popolo turco” che avrebbe dovuto coordinare una ribellione nello Xinjiang per l’indipendenza dalla Cina che iniziò nel novembre del 1944. Le truppe uigure combatterono contro quelle cinesi per diverse settimane assaltando ed occupando la città di Kulja fino al 15 novembre quando venne dichiarata ufficialmente la nascita della “Repubblica del Turkestan orientale”. Nata sotto la protezione sovietica, la repubblica dovette ben presto rinunciare al potente alleato che nell’agosto del 1945 siglò con la Cina un patto di amicizia ed alleanza che di fatto negò il supporto agli uiguri. Nella regione venne istituito un governo di coalizione con rappresentanti del governo cinese, della minoranza uigura e di quella han. Rimasta ormai solo sulla carta, la Repubblica del Turkestan venne ricondotta sotto il controllo cinese nel settembre del 1949 con la guerra civile che diede un forte impulso centralista rifiutando forme di autonomia come quella sognata dagli Uiguri.

La storia – La questione uigura è tornatadi strettissima attualità nel 2009. Tra il 25 e il 26 giugno di quell’anno due uiguri furono uccisi dalle forze dell’ordine durante scontri scoppiati a Shaoguan tra la minoranza turcofona e gli Han. Scesi in piazza pochi giorni dopo nella città di Ürümqi, capoluogo dello Xinjiang, gli uiguri si fronteggiarono per giorni con la polizia e gli han dando vita alla “Rivolta del luglio 2009”. Secondo le fonti ufficiali cinesi il bilancio finale sarebbe stato di 197 persone morte, 1721 ferite e di diversi veicoli ed edifici distrutti. Un bilancio che sembra essere solamente parziale e che è sempre stato contestato da associazioni per i diritti umani come “Human Rights Watch” che ha sempre denunciato le violenze subite dagli Uiguri in quei giorni documentando almeno 73 casi di persone scomparse nei rastrellamenti della polizia. La regione, da quel momento, è diventata una delle aree più sorvegliate al mondo: gli abitanti sono sottoposti a controlli di polizia quotidiani, a procedure di riconoscimento facciale e a intercettazioni telefoniche di massa. Controlli indiscriminati e pervasivi che sono degenerati sempre di più fino a raggiungere un livello inimmaginabile.

A partire dal 2014, come riportato da uno studio dell’istituto di ricerca di geopolitica “Jamestown Foundation”, sono stati creati dei centri di detenzione che sarebbero equiparabili a veri e propri campi di concentramento. Secondo alcuni testimoni, infatti, sarebbe in atto una vera e propria persecuzione con migliaia di uiguri arrestati arbitrariamente e rinchiusi in strutture detentive sorvegliate 24 ore su 24. Abdusalam Muhemet, ex detenuto intervistato dal “New York Times”, venne arrestato a 41 anni per aver recitato ad un funerale un passo del corano, altri testimoni parlano di persone arrestate per aver indossato una maglietta riconducibile all’islam o aver fatto visita a parenti all’estero. Una volta arrestati sarebbero sottoposti a una sorta di rieducazione forzata con cui le autorità cinesi stanno provando ad eliminare la tradizione uigura ed uniformarla a quella cinese eradicando di fatto la religione islamica considerata pericolosa e deviante. Una rieducazione condotta attraverso torture che vanno dall’isolamento al waterboarding passando per tecniche invasive di privazione del sonno. Accuse sempre respinte dalla Cina che, grazie all’inaccessibilità delle strutture, nasconde quanto accade all’interno e parla di detenzioni preventive per estremisti religiosi e di operazioni di “addestramento volontario” della popolazione uigura. Una posizione, quella cinese, che sta dividendo la comunità internazionale. Se da una parte  23 paesi tra cui Regno Unito , Germania , Francia , Spagna , Canada , Giappone , Australia e Stati Uniti hanno firmato una lettera congiunta alle Nazioni Unite chiedendo la chiusura dei campi, dall’altra più di 50 paesi hanno elogiato all’UNHCR i “notevoli risultati della Cina nello Xinjiang”. Per la gioia del governo cinese.

Xinjiang Papers – Ma il governo cinese, ora, non può più nascondersi. In quella che è stata definita come “la più grande fuga di notizie nella storia della Cina, il “New York Times” ha pubblicato 400 pagine di documenti che riportano le attività cinesi nella regione. Forniti da un funzionario cinese che, ovviamente, preferisce rimanere anonimo, i “Xinjiang Papers” sarebbero costituiti da una mole immensa di documenti riservati e discorsi rilasciati in occasioni riservate dal presidente Xi Jinping e da altri alti funzionari del partito.

Emergerebbe un piano partito direttamente dal presidente e gestito dai vertici del partito che prevede una “lotta totale e senza alcuna pietà contro terrorismo, infiltrazioni e tentativi di separatismo”. Ma se nei discorsi pubblici Xi Jinping si mostra più aperto e propenso ad una mediazione pacifica con gli Uiguri, nelle trascrizioni di conversazioni private appare estremamente deciso e cinico. Critica duramente il legame con la religione della minoraza turcofona e sprona i sui uomini a mettere in atto una “trasformazione” del popolo uiguro per contrastare il terrorismo. Una trasformazione da attuare in parte con strumenti tecnologici, dall’altra con tecniche già collaudate dalla polizia cinese come gli interrogatori forzati di amici e parenti. Ma se il passaggio sul presidente risulta estremamente importante perché dimostra un suo coinvolgimento diretto sempre negato finora da Pechino, i passaggi più drammatici sono quelli che riguardano altri due funzionari: Quanguo e Wang.

Quanguo venne mandato nello Xinjiang nel 2016 e sotto il suo controllo si assistette ad una stretta repressiva senza precedenti. Secondo quanto riportato dai documenti trapelati, nel febbraio 2017 avrebbe radunato le truppe cinesi in una vasta piazza di Urumqi ed avrebbe tenuto un discorso in cui chiedeva ai suoi uomini di prepararsi ad “un offensiva devastante e distruttiva” per le settimane successive. Un’offensiva che, a tutti gli effetti, ci fu per davvero: vennero infatti eseguiti nella regione arresti di massa con migliaia di uiguri che in poche settimane finirono chiusi nelle prigioni dello Xinjiang. Sotto la guida di Quanguo la regione venne minilitarizzata e le libertà degli uiguri represse ad ogni livello secondo la concezione del funzionario che interpreta l’operazione nella regione come “una guerra di offesa prolungata e determinata per la salvaguardia della stabilità”.

Ma se Quanguo mostra il volto spietato della Cina, Wang rappresenta quello più umano. Se pubblicamente, infatti, appoggiava totalmente la politica del governo centrale nei sui discorsi privati emerge più fragile e meno convinto. Dovendo sottostare agli ordini di Pechino, Wang fece costruire “due nuove strutture di detenzione tentacolari stipando lì oltre 20.000 persone” ed aumentò drasticamente i fondi per le forze di sicurezza raddoppiando le spese per posti di blocco e impianti di sorveglianza. Ma ogniqualvolta ne avesse l’occasione, Wang chiese ai vertici del partito e ai colleghi della regione di affrontare la questione uigura in modo differente: “propose” stando a quanto riporta il New York Times “di ammorbidire le politiche religiose del partito, dichiarando che non c’era nulla di sbagliato nell’avere un Corano in casa e incoraggiare i funzionari del partito a leggerlo per comprendere meglio le tradizioni uigure”. Nei sui piani vi era infatti una politica di sviluppo economico della regione che, secondo lui, avrebbe fatto il bene dell’intera Cina ma era resa impossibile dalla detenzione degli uomini in età lavorativa. Una voce fuori dal coro che, inevitabilmente, venne presto messa a tacere con l’arresto. E non fu l’unico: secondo i dati che emergono dai documenti, nel 2017, “il partito ha aperto oltre 12.000 indagini sui membri del partito nello Xinjiang per infrazioni nella lotta contro il separatismo”.

Una storia che va avanti dunque da quasi un secolo. Una storia fatta di repressione e neagazione dell’autodeterminazione per il popolo Uiguro. Un popolo ricco di storia e tradizioni tramandate da migliaia di anni e rimaste intatte. Come i testi del poeta uiguro Lutpulla Mutellip la cui tomba è stata distrutta, insieme a molte altre, per lasciar spazio ad un parco zoologico per famiglie. Un ultimo, disperato tentativo di cancellare le radici di un popolo che non può e non vuole lasciarsi calpestare. Non può e non vuole restare sotto il controllo di una potenza che ne tarpa le ali e i sogni. Perché come scriveva Mutillup:

“Nel profondo oceano dell’amore sono un’onda,
Come potrei soddisfare la mia sete da un piccolo stagno?”