Monthly Archives: ottobre 2019

Un lenzuolo per Giovanni con Libera Milano

“Essere Giornalista è sentire l’ingiustizia del mondo sulla propria pelle,è schierarsi dalla parte della verità, è denuncia, è ricerca, è curiosità,è approfondimento, è sentirsi troppe volte ahimè spalle al muro. Essere Giornalista significa farsi amica la paura e continuare sulla propria strada perché raccontando si diventa scomodi a qualcuno.”
-Giancarlo Siani-


19 luglio 1992. 57 giorni dopo la strage di Capaci altro tritolo scuote Palermo uccidendo, in via d’Amelio, il giudice Paolo Borsellino e gli agenti di scorta  Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Un doppio attacco al cuore dell’Italia che in meno di due mesi perse i due più grandi simboli della lotta alla mafia. I palermitani, sgomenti e attoniti, decisero che non era più tempo di tacere di fronte ad una violenza sempre più feroce. I balconi del capoluogo siciliano si riempirono di lenzuoli bianchi per dire no alla mafia. Esporre un lenzuolo, nella Palermo assediata dalla mafia, era un gesto che segnava il risveglio delle coscienze. Un lenzuolo alla finestra era un modo per mostrare da che parte stare. 28 anni dopo quelle stragi i lenzuoli, divenuti ormai un simbolo per il movimento antimafia, torneranno ad invadere Palermo il 21 marzo 2020 grazie ad un’iniziativa del coordinamento di Libera Milano.

21 marzo – È il primo giorno di primavera, simbolo di rinascita e speranza. Proprio per questo motivo Libera ha scelto questo giorno per celebrare la ‘Giornata della Memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie’. Dal 1996, ogni anno in una città diversa, vengono scanditi uno ad uno i nomi di tutte le vittime innocenti delle mafie in un interminabile “rosario civile” che faccia continuare a vivere la memoria e le idee di quanti sono stati uccisi dalla criminalità organizzata. Una lettura che si trasforma in una preghiera laica di speranza. Sono passati ormai 24 anni da quando su un palco improvvisato in Campidoglio vennero letti per la prima volta quei nomi, 300 allora e più di mille oggi, e di strada Libera ne ha fatta tanta. A Bari nel 2008 c’erano 100 mila persona, 150 mila l’anno successivo a Napoli, oltre 200 mila a Bologna nel 2015. Poi le manifestazioni regionali e provinciali che, dal 2016, hanno affiancato quella nazionale per permettere a tutti di ascoltare quella lettura nei propri territori. Nel mezzo un riconoscimento importante: Il 1° marzo 2017, con voto unanime alla Camera dei Deputati, è stata approvata la proposta di legge che istituisce e riconosce il 21 marzo quale “Giornata nazionale della Memoria e dell’Impegno in ricordo delle vittime delle mafie”.

Altro e Altrove – Nel 2020, in occasione dei 25 anni di Libera, si terrà nuovamente un’unica manifestazione nazionale e sarà a Palermo. Quella Palermo martoriata per anni dalla violenza mafiosa. Quella Palermo simbolo, però, anche di riscatto civile e rinascita. Una città profondamente cambiata dove la mafia esiste ancora ma non comanda come un tempo, mentre si moltiplicano le esperienze di resistenza ad ogni forma di oppressione e di violenza. Lo slogan che accompagnerà la manifestazione sarà “Altro e Altrove”, scelto per ribadire l’impegno dell’associazione: ““Altro”, come ulteriore impegno per procedere su questa strada battuta in venticinque anni, verso un “altrove” ancora da liberare dalla presenza di mafie e corruzione, in cui vengano messi al centro i bisogni e i desideri delle persone”. Un 21 marzo in cui Libera e le migliaia di persone che vi prenderanno parte si riapproprieranno di una città il cui nome è stato per troppo tempo accostato a quello di Cosa nostra. Lo faranno marciando insieme per le strade della città con un corteo che partirà in mattinata e si snoderà fino per le vie di Palermo fino ad arrivare al palco da cui, in un solenne silenzio, verranno letti i nomi delle 1011 vittime innocenti della mafia.  

Lenzuoliamo Palermo – Nel capoluogo siculo, con Libera, torneranno anche quei lenzuoli simbolo di legalità che nel 1992 riempirono i balconi della città. È l’iniziativa “Lenzuoliamo Palermo” lanciata dal coordinamento provinciale di Libera Milano: “vogliamo realizzare un gigantesco lenzuolo, largo 5-6 metri e lungo 180, da portare con noi in piazza a Palermo” ha raccontato la referente di Libera Milano Lucilla Andreucci “Come? Cucendo insieme 1011 lenzuoli da un metro quadrato, uno per ogni vittima innocente delle mafie censite sinora. E a scrivere i nomi sarete voi. Una follia forse ma abbiamo un debito di memoria nei loro confronti”. Dietro quel “voi” c’è una chiamata alle armi per tutta la società. Associazioni, scuole, istituzioni, singoli cittadini, tutti sono chiamati ad una mobilitazione collettiva che punta a far realizzare a 1011 realtà diverse gli striscioni da cucire insieme. Non si tratta però di realizzare un semplice lenzuolo quadrato. Nell’intenzione degli organizzatori vi è infatti l’idea che ognuno “adotti” una vittima, imparando e raccontando la sua storia, custodendone la memoria e portandone avanti le idee. Un impegno concreto, dunque, che richiede l’impegno di tutti perché, come sostiene il fondatore di Libera don Luigi Ciotti, “non possiamo lasciare le persone da sole, scaricare l’impegno solo a qualcuno”. Un impegno che è già stato assunto da oltre 150 realtà che in meno di un mese hanno già contattato la segreteria di Libera Milano per realizzare un lenzuolo. Un inizio incoraggiante che fa ben sperare per i prossimi mesi. Entro fine gennaio, infatti, i 1011 lenzuoli dovranno essere pronti per poi essere cuciti insieme a formare un unico, enorme, lenzuolo di memoria.

Giovanni Spampinato – Tra le oltre 150 realtà che hanno già scelto una vittima da “adottare” c’è anche Pocket Press. Nelle prossime settimane realizzeremo il lenzuolo in memoria di Giovanni Spampinato, un “giornalista giornalista” come lo avrebbe definito il collega Giancarlo Siani, anche lui vittima della criminalità. Nato a Ragusa il 6 novembre 1946, Giovanni sin da ragazzo sviluppò idee di sinistra ereditate dal padre comunista che lo portarono diverse volte ad essere scartato dalla stampa cittadina schierata su posizioni anticomuniste. Nel 1969, però, iniziò a lavorare come corrispondente del quotidiano ‘L’Ora’, giornale progressista impegnato in battaglie civili e inchieste sulla criminalità organizzata. Proprio per L’Ora, Giovanni iniziò ad occuparsi ben presto dei due più grandi problemi che affliggevano il suo territorio: il neofascismo e la mafia.  Inchieste approfondite frutto di un instancabile lavoro sul campo tra Ragusa, Siracusa e Catania con cui aveva documentato i rapporti tra la destra locale, la criminalità organizzata ed esponenti di spicco di movimenti neofascisti internazionali. Relazioni sempre più strette, riportate da Spampinato sulle pagine del quotidiano, che si manifestarono definitivamente con l’omicidio di Angelo Tumino, commerciante ed ex consigliere comunale per il Movimento Sociale Italiano. Giovanni capì da subito che dietro l’omicidio, avvenuto in contrada Ciarberi il 25 febbraio 1972, si celavano interessi diversi: “Dalle indagini” scrisse due giorni dopo la morte di Tumino “è possibile che salti fuori qualcosa di grosso, forse al di là delle stesse previsioni”. Ed in effetti qualcosa di grosso saltò fuori. Giovanni decise, da quel momento, di andare fino in fondo. Le sue inchieste lo portarono ben presto a scoprire che dietro quel delitto si celavano rapporti impensabili. “Un nome viene sussurrato” scrisse il 28 aprile per L’Ora “ma nessuno ha il coraggio di dirlo apertamente”, un nome che lui aveva invece deciso di urlare a squarciagola. Si trattava di Roberto Campria, figlio del presidente del Tribunale di Ragusa con una smodata passione per le armi e l’antiquariato, a cui era stato commissionato l’omicidio da “qualcuno in alto, che non deve essere colpito”. Giovanni fu il primo, e l’unico, a riportare i nomi degli indagati ed a rivelare quella pista che portava dritta nel Palazzo di Giustizia svelando una rete criminale estesa che coinvolgeva ambienti mafiosi, istituzionali e politici. Una pista mai battuta fino in fondo dagli inquirenti che abbandonarono ben presto le indagini lasciando tuttora irrisolto il delitto Tumino. L’unico a portare avanti quell’inchiesta fu Giovanni. Per mesi raccontò della pista che portava a Campria e alle aule del tribunale, denunciò le relazioni pericolose che si stavano intessendo a Ragusa e chiese a gran voce di spostare il processo fuori dalla sicilia per “legittima suspicione”. Grida disperate che rimasero inascoltate da inquirenti e istituzioni. Grida disperate ma non infondate. Il 27 ottobre 1972 Roberto Campria lo chiamò chiedendogli di poterlo incontrare. Lasciò trapelare la possibilità di una confessione ma così non fu. Mentre Giovanni ancora si trovava a bordo della sua cinquecento venne raggiunto da sei colpi di arma da fuoco esplosi dallo stesso Campria.

“Assassinato perché cercava la verità” titolò il giorno seguente L’Ora. Assassinato perché voleva andare fino in fondo a quella questione, non per diventare un eroe, ma per una profonda sete di verità e giustizia. Per non doversi piegare a quella rete criminale, tutta dio, patria, famiglia e lupara, che stava distruggendo il territorio in cui viveva e in cui credeva. Per portare avanti un giornalismo libero e imparziale, in grado di raccontare senza censure quello che accadeva intorno a lui. Giovanni questo lo fece sempre. Non indietreggiò di un passo e non scese a patti con nessuno. Quella sua determinazione la pagò con la vita. 47 anni dopo quella tragica sera ancora troppa gente vuole dimenticare la figura di Giovanni, ancora troppa gente pensa che in fondo “se l’è cercata” e magari sarebbe stato meglio se si fosse fatto gli affari suoi. Non lasciamo che sia così. Ricordiamoci di lui. Ricordiamoci del suo esempio e spieghiamolo ai giovani. Ricordiamoci, per sempre, di Giovanni Spampinato. Un eroe normale.

Odio, minacce e violenze: la libertà di stampa è in pericolo

Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero
con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione.
La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure
-Costituzione Italiana, articolo 21-


La libertà di stampa è sotto attacco. I giornalisti, nel mondo, sono sempre più bersaglio di campagne d’odio fomentate da politici, imprenditori ed altre personalità. Campagne d’odio che, sempre più spesso, sfociano in vere e proprie aggressioni, verbali ma anche fisiche, ai danni di chi racconta il presente. L’ascesa di leader autoritari, come Jair Bolsonaro in Brasile o Donald Trump in America, e situazioni di tensione o guerra rendono la libertà di stampa un diritto sempre meno tutelato mettendo in pericolo la vita dei giornalisti. Una situazione spesso creata e fagocitata dagli stessi politici.  

World Press Freedom Index – l’indice calcolato dalla organizzazione ‘Reporters without borders’ analizza ogni anno il livello di libertà di stampa in 180 paesi al mondo. La ricerca fornisce un’istantanea della situazione della libertà dei media basandosi su una valutazione del pluralismo, dell’indipendenza dei media, della qualità del quadro legislativo e della sicurezza dei giornalisti in ciascun paese. Per la realizzazione dell’indice, l’organizzazione adotta un duplice strumento di raccolta dei dati: da una parte un questionario, tradotto in 20 lingue e distribuito ai giornalisti dei 180 paesi oggetto della ricerca; dall’altra l’utilizzo di team di specialisti che compilino un report sugli abusi ai danni dei reporter nelle diverse aree geografiche. Il quadro che emerge dall’analisi per il 2019 è ben poco rassicurante però. Dal 2002, primo anno di pubblicazione dell’indice, quella di quest’anno è la situazione più grave mai registrata a livello mondiale. L’indicatore globale è peggiorato del 13 per cento dal 2013 e in questo lasso di tempo il numero di paesi in cui la situazione per i giornalisti è ritenuta buona è diminuito del 40 per cento. Al primo posto dell’indice, come accade oramai da tre anni consecutivi vi è la Norvegia dove la costituzione, all’articolo 100, tutela largamente i giornalisti e stabilisce che “la stampa è libera. Nessuno può essere punito per qualsiasi scritto pubblicato o stampato, qualunque ne sia il contenuto”. Una situazione simile si ha anche negli altri paesi scandinavi con Finlandia e Svezia che occupano rispettivamente il secondo e terzo posto e fanno registrare un clima disteso e sereno dove giornalisti e media possono operare senza incorrere in rischi eccessivi. Il trend negativo rispetto al passato è confermato dal fatto che solo il 24% dei 180 paesi è classificato come “buono” o “abbastanza buono”, rispetto al 26% dell’anno scorso mentre il 40% dei paesi risulta essere in una situazione “difficile” o “molto grave”.  

La politica – Un ruolo centrale e determinante per la condizione dei giornalisti è svolto dai leader politici dei diversi paesi che con i loro attacchi possono indirizzare l’opinione pubblica e dunque creare un clima ostile ai media. È il caso ad esempio degli Stati Uniti, passati dalla 45° alla 48° posizione. Se Thomas Jefferson, terzo presidente degli Stati Uniti, sosteneva che sarebbe stato meglio “vivere in un paese che ha dei giornali e nessun governo piuttosto che in un paese che ha un governo e nessun giornale”, lo stesso non si può dire 230 anni dopo di Donald Trump. Il Presidente americano, a un anno dalla fine del suo mandato, non ha mai smesso di attaccare i giornalisti definendoli “nemici del popolo americano” e, nella sua prima uscita da presidente, “le persone più disoneste della terra”. Nel mirino di Trump in questi anni sono finiti tutti i principali quotidiani e broadcast del paese, dal New York Times alla Nbc, accusandoli di “fabbricare fake news” per polarizzare il dibattito politico. Se i giornalisti rifiutano di farsi imbavagliare e continuano a raccontare le loro verità l’opinione pubblica si divide tra chi sostiene il loro operato e gli elettori di Trump che seguono il leader repubblicano nei suoi attacchi. Sono proprio questi ultimi a rappresentare una criticità nel panorama americano attraverso attacchi ai giornalisti e il rifiuto di credere a ciò che dicono e scrivono cavalcando le dichiarazioni secondo cui sarebbero produttori di false informazioni. Ma la situazione è peggiore in altri paesi. Nelle filippine il presidente Duterte subito dopo la sua elezione, avvenuta nel 2016, aveva dichiarato che “non è perché siete giornalisti che siete esentati dall’essere assassinati, se siete dei figli di puttana”. Una legittimazione della violenza nei confronti dei media estremamente preoccupante, tanto più in un paese che dal 1992 ad oggi ha visto quasi 80 reporter uccisi. Una situazione sempre più difficile si registra anche in America Latina dove le elezioni in Messico (144°), Brasile (105°), Venezuela (148°), Paraguay (99°), Colombia (129°), El Salvador (81°) e Cuba (169°) hanno portato ad un aumento degli attacchi ai media e un conseguente abbassamento complessivo dell’indice per la regione. Una situazione di insicurezza che porta spesso i giornalisti dell’area a forme di autocensura con pesanti ricadute per la qualità dell’informazione. Le critiche e le pressioni politiche sui giornalisti contribuiscono dunque a creare un clima di tensione e di insicurezza per i reporter alimentando malumori che spesso si trasformano in violenti attacchi.  

Pericoli – Minacce, insulti e attacchi fanno ormai parte dei rischi del mestiere di cui deve tener conto un giornalista. Un clima d’odio testimoniato dai numeri: 30 i giornalisti uccisi dall’inizio del 2019 ad oggi. Un vero e proprio bollettino di guerra che vede in testa alla macabra classifica il Messico che con 10 giornalisti uccisi quest’anno si conferma il paese in cui chi fa questo mestiere rischia maggiormente la vita. Da Rafael Murua Manríquez, ucciso il 10 gennaio scorso, fino a Nevith Condés Jaramillo, vittima di un agguato il 24 agosto, dieci vittime che rendono il Messico un paese in cui la libertà di stampa rischia di scomparire. Problema principale dello stato centroamericano è la presenza massiccia e pericolosa dei narcos e di un sistema corruttivo esteso che porta a pesanti commistioni tra mondo politico-imprenditoriale e mondo criminale. Un quadro complesso e pericoloso che provoca più morti tra i reporter di zone di guerra come Siria (1 morto nel 2019) e Afghanistan (3 morti) e rende vulnerabile l’intera categoria. Violenze e omicidi contribuiscono a generare un clima di paura tra i giornalisti che hanno reagito con il silenzio e l’autocensura creando così zone di silenzio che garantiscono un cono d’ombra mediatico sul sistema criminale-corruttivo.

Arresti – A zittire i giornalisti, spesso, ci pensa lo stesso stato. Censure e arresti sono diventate strumenti sempre più utilizzati dai regimi per fermare giornalisti reputati scomodi. Secondo i dati di Reporters Without Borders nel 2019 sono 237 i giornalisti imprigionati di cui 70 nella sola Cina di Xi Jinping. Una situazione difficile anche in Egitto dove 27 giornalisti si trovano agli arresti, 5 fermati solo a settembre, con l’accusa di aver documentato manifestazioni anti-regime o aver condotto inchieste sul presidente Abdel Fattah al-Sisi. Una stretta sull’informazione confermata dal blocco di diversi social e siti di informazione stranieri durante le proteste iniziate il 16 settembre per chiedere le dimissioni di al-Sisi. Una situazione non troppo diversa da quella turca dove sono 28 i reporter in carcere, tutti arrestati negli ultimi due anni dopo la stretta di Erdogan sull’informazione a seguito del fallito golpe del 15 luglio 2016 che portò all’arresto di massa di diversi oppositori politici tra cui 20 giornalisti.  

Italia – Nel nostro paese, invece, la situazione sembra segnare una tendenza parzialmente positiva. Nell’indice stilato da Reporters Without Borders, l’Italia ha guadagnato 3 posizioni e risulta essere al 43° posto per libertà di stampa. Un risultato importante ma che disegna un quadro costellato da diverse difficoltà. Primo profilo critico sottolineato dall’organizzazione è la presenza di minacce da parte di diverse organizzazioni criminali. Mafia e gruppi estremisti rappresentano infatti un pericolo reale e tangibile per l’intera categoria tanto che si evidenzia come “il livello di violenza contro i giornalisti è allarmante e continua a crescere, soprattutto in Campania, Calabria, Puglia e Sicilia, nonché a Roma e nella regione circostante”. I giornalisti, però, non si lasciano quasi mai spaventare da intimidazioni e minacce e portano avanti con coraggio e determinazione le loro inchieste garantendo così una qualità dell’informazione elevata e un effettivo dibattito democratico. Determinazione e coraggio dati, senza dubbio, anche dalla presenza di agenti di scorta che proteggono e tutelano circa una ventina di giornalisti permettendogli di svolgere più serenamente il loro lavoro. Ma proprio le scorte rischiano di diventare un pericolo per la qualità dell’informazione, non certo per il loro lavoro, ma per la presenza di politici che “minacciano il ritiro della protezione a seguito di notizie o opinioni espresse”. Un profilo che sarebbe già di per sé problematico ma lo diventa ancor di più nel caso in cui a lanciare certe minacce sia un Ministro dell’Interno nell’esercizio delle sue funzioni, come recentemente accaduto.   In un mondo in cui la libertà di stampa è sempre più minacciata c’è anche chi va controcorrente. L’Etiopia, dopo che per anni si è ritrovata in fondo a questa classifica, ha avuto un miglioramento di ben 40 posizioni e si trova al 110° posto. Dall’elezione di Abiy Ahmed Ali si è assistito ad un’inversione di tendenza significativa: è stato ripristinato l’accesso ai siti di informazione stranieri, tutti i reporter detenuti sono stati rilasciati ed è stata istituita una commissione indipendente per revisionare una legge del 2009 sul terrorismo spesso utilizzata per colpire i media. Una nuova era per l’Etiopia promossa e difesa del suo primo ministro che, non a caso, quest’anno ha ricevuto il Nobel per la pace. Il mondo, questa volta, dovrebbe guardare all’Africa. Non per commuoversi o aiutarla ma per prendere nota ed imparare. Perché l’esempio dell’Etiopia possa contagiare tutti e possa rendere, finalmente, la libertà di stampa un diritto granitico e garantito a tutti. Perché una stampa indipendente è il presupposto inalienabile per una società più libera e democratica.

Come la Lombardia è diventata la nuova “Terra dei Fuochi”

“Non coltiviamo giardini perché in noi non c’è più pace, non c’è più bellezza. La spazzatura è lo specchio di una cultura che consuma, di una cultura crudele, agitata, cinica che produce spazzatura interiore, che si trasforma in tonnellate di spazzatura reale. La spazzatura l’abbiamo innanzitutto dentro di noi ed è dentro di noi che dovremmo fare pulizia. Dove si semina bellezza nasce qualcosa ed è triste che oggi non si abbia bisogno dell’arte e del potere sanificante della cultura.”
– Susanna Tamaro –      


Discariche abusive, rifiuti stipati in capannoni dismessi, roghi dolosi e avvisi che invitano i cittadini a tenere le finestre chiuse e non consumare prodotti agricoli della zona. La sensazione, sempre più confermata dalle indagini della magistratura, è che interessi criminali diversi stiano rendendo la Lombardia una nuova “Terra dei fuochi”. La regione, considerata da molti la “locomotiva d’Italia”, è al centro degli interessi che ruotano intorno allo smaltimento dei rifiuti come confermato dai dati della classifica regionale stilata nel 2018 da Legambiente che pongono la Lombardia al primo posto tra le regioni del nord con 399 infrazioni accertate.  

I roghi – Un anno fa, il 14 ottobre, Milano veniva avvolta dal fumo. In via Chiasserini, alle 22.40, divampò un enorme incendio in un capannone stipato fino all’inverosimile di rifiuti. Il rogo, di origine dolosa, aveva impegnato quasi 30 mezzi dei vigili del foco per tre giorni prima di essere completamente estinto. Fiamme alte fino a 40 metri e una colonna di fumo denso e nero che avvolse Milano con rischi enormi per la salute dei cittadini. Tre scuole e diversi impianti sportivi furono chiusi, la circolazione dei treni nella zona subì pesanti ripercussioni e il comune invitò tutti a tenere chiuse le finestre ed uscire il meno possibile. Uno scenario quasi apocalittico che risvegliò molte coscienze mostrando un’evidenza che non poteva più essere nascosta: gli interessi criminali dietro al business dei rifiuti coinvolgono anche la Lombardia. Decine e decine di incendi, quasi sempre dolosi, distruggono da due anni circa depositi illeciti di rifiuti ad un ritmo impressionante. Quasi due roghi al mese si sono registrati nel 2018 e la situazione non accenna a migliorare nell’anno in corso. Limbiate, Novate Milanese, Arese, Gaggiano, Cinisello, Mariano Comense, Mortara, Bedizzole e tanti altri, una lista sempre più lunga che traccia una mappa desolante che vede ai primi posti per numero di roghi le province di Milano e Pavia.  

La Ricerca – l’Osservatorio sulla Criminalità Organizzata dell’Università degli Studi di Milano, CROSS, nell’ultimo rapporto di ricerca sul fenomeno mafioso in Lombardia ha incluso un capitolo sulla gestione dei rifiuti a conferma della crescente rilevanza che tale business sta assumendo anche al nord. Stando al rapporto, il settore dei rifiuti appare come un “settore di investimento relativamente nuovo per le organizzazioni mafiose presenti in Lombardia” con una presenza più significativa della criminalità calabrese. Funzione propulsiva al business dei rifiuti sarebbe svolta da uno dei settori tradizionali dell’economia “legale” mafiosa ovvero il movimento terra. I clan hanno visto nelle fasi di spostamento di materiali un importante occasione per trasportare e smaltire rifiuti, spesso pericolosi, anche per conto di imprese legali attratte dai prezzi minori offerti dalla manodopera criminale. Un’opportunità che i clan non si sono lasciati sfuggire traendo da essa un doppio vantaggio: “da un lato, i compensi ricevuti per lo smaltimento di materiale classificato come pericoloso pur non avendone sostenuto i costi (poiché, di fatto, non smaltito); dall’altro, l’impiego degli stessi rifiuti come materiale inerte da impiegare nelle costruzioni”. Non solo dunque le discariche abusive, nella strategia della criminalità organizzata lo smaltimento dei rifiuti avviene anche attraverso il loro interramento. Se, dunque, da una parte gli incendi provocano un abbassamento drastico della qualità dell’aria respirata dall’altra il loro interramento inquina ettari ed ettari di terreno rendendo nocivi prodotti agricoli e rappresentando un forte pericolo per la salute. In questo senso, dallo studio effettuato dai ricercatori di CROSS, si individua uno schema articolato in quattro fasi che riassume le modalità di azione della criminalità organizzata nel settore dei rifiuti: “L’acquisto, l’affitto o l’impiego abusivo di un terreno sul quale vengono poi effettuati scavi profondi, necessari a creare i presupposti per l’interramento dei rifiuti di varia origine e la produzione del calcestruzzo con il materiale inerte prodotto con gli stessi rifiuti”. Il fenomeno degli incendi risulta essere dunque solo un segnale, allarmante e pericoloso, di una presenza ancor più articolata.  

Feudo – Le inchieste Cerberus e Parco Sud, rispettivamente del 2008 e 2009, avevano già sottolineato gli interessi della ‘ndrangheta nella gestione dei rifiuti al nord. In particolare si faceva riferimento al clan Barbaro-Papalia che, secondo gli inquirenti, avrebbe sepolto tonnellate di rifiuti speciali e tossici negli scavi dei cantieri gestiti dallo stesso clan. Ma dietro a questa gestione dello smaltimento dei rifiuti sembra esserci un traffico ancora più grande. L’operazione “Feudo” che pochi giorni fa ha portato all’arresto di 11 persone tra Lombardia Campania e Calabria, ha svelato come nei capannoni lombardi vengano stipati i rifiuti provenienti in modo illecito dalla Campania. Partita dall’incendio che il 3 gennaio 2018 distrusse un capannone di oltre 1000 metri quadri a Corteolona. Le indagini hanno svelato un business di portate enorme individuando un’organizzazione criminale, capeggiata da soggetti di origine calabrese, tutti con numerosi precedenti penali, i quali, attraverso una struttura composta da impianti autorizzati e complici, trasportatori compiacenti, società fittizie intestate a prestanome e documentazione falsa, gestivano un ingente traffico di rifiuti urbani ed industriali provenienti da impianti campani e finivano in capannoni abbandonati del Nord Italia o interrati in Calabria. Secondo i magistrati della DDA di Milano, guidati da Alessandra Dolci, il sodalizio criminale avrebbe creato in questo modo discariche per quasi 14 tonnellate di rifiuti con un volume complessivo di profitti illeciti stimato in oltre 1,7 milioni di euro nel solo 2018. I rifiuti, che arrivavano in lombardia tramite la Smr Ecologia srl di Busto Arsizio, venivano stipati in capannoni a Como, a Varedo (Monza e Brianza) nell’area ex Snia, a Gessate e Cinisello Balsamo (Milano), per un ammontare di circa 60 mila tonnellate accertate. Un traffico illecito di rifiuti gestito in modo criminale senza curarsi delle conseguenze. Rifiuti stipati all’inverosimile in capannoni industriali dismessi spesso distrutti da roghi appiccati dagli stessi trafficanti. Una situazione sempre più preoccupante e sempre più sotto i riflettori grazie alla maggior attenzione politica, si a livello locale che nazionale, e mediatica.  

La politica – L’attenzione politica in questo ambito è sicuramente sempre più alta. Il 18 gennaio scorso la “Commissione Parlamentare di Inchiesta del Senato sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti e su illeciti ambientali ad esse correlati” aveva rilanciato l’allarme circa la pericolosità di questi fenomeni attraverso la relazione conclusiva del suo lavoro. Una relazione che sottolineava un incremento di reati connessi al ciclo dei rifiuti al nord ed in particolare in Lombardia. Un documento illuminante quanto preoccupante che, incrociando tutte le segnalazioni di roghi e incendi raccolte dalle Agenzie territoriali per la protezione ambientale, i fascicoli aperti dalle procure della repubblica italiane e gli interventi dei vigili del fuoco, traccia un quadro quasi completo della situazione nazionale arrivando a indicare la Lombardia come nuova “terra dei fuochi”. Un allarme accolto con modalità diverse dalla politica locale. Se infatti la commissione antimafia di Regione Lombardia si è attivata da tempo per monitorare il fenomeno, lo stesso non si può dire del governatore Attilio Fontana. “La Lombardia nuova terra dei fuochi? Credo che chi ha fatto questa affermazione dovrebbe essere un po’ più cauto. Esiste anche il reato di procurato allarme.” ha detto Fontana commentando i dati e i continui incendi. Parole che vogliono essere tranquillizzanti ma che sortiscono l’effetto opposto. Sminuire in questo modo un fenomeno evidente e pericoloso potrebbe avere conseguenze pesanti per la salute dei cittadini e del territorio. Il primo passo per poter combattere fenomeni criminali strutturati e forti è proprio quello di prenderne consapevolezza. I cittadini lo stanno lentamente facendo allarmati dai roghi che li costringono in casa. Sarebbe ora che anche la più alta istituzione regionale ammettesse il problema. Sarebbe un primo passo per un intervento deciso, non solo della magistratura ma anche della politica. Prendere conoscenza per agire in modo mirato ed efficace, senza negare per convenienza o paura ciò che sta avvenendo da anni. Un segnale della voglia della Lombardia di scrollarsi di dosso l’appellativo “terra dei fuochi” per tornare ad essere “locomotiva d’Italia”. Prendiamone coscienza dunque. Per fare pulizia dentro di noi e ritornare finalmente a seminare bellezza. 

La favola americana dei "Safe third countries"

Solo voy con mi pena
sola va mi condena

correr es mi destino

para burlar la ley”
-Manu Chao-

“Questo accordo introdurrà una nuova era di investimenti e crescita per il Guatemala e getterà le basi per la cooperazione tra i nostri paesi”. Così il presidente americano Donald Trump annunciava entusiasta l’accordo raggiunto tra la sua amministrazione e il governo del paese centroamericano in attuazione della politica USA sui migranti che punta a fermare gli arrivi utilizzando gli stati dell’area come filtro. In sostanza l’accordo prevede che Washington possa respingere chiunque non abbia prima fatto domanda ufficiale alle autorità di Città del Guatemala. In cambio Trump ha accettato di non minacciare più sanzioni economiche contro il paese centro americano. Un identico accordo è stato firmato negli scorsi mesi con altri due paesi dell’area: El Salvador e l’Honduras. Accordi di cooperazione che puntano, più che a risolvere i problemi dell’area, ad allontanare il più possibile i migranti dagli Stati Uniti costringendoli a richiedere asilo in paesi vulnerabili e pericolosi.
La nuova politica USA – Donald Trump ha annunciato che nel 2020 gli Stati Uniti accoglieranno un massimo di 18.000 richieste di asilo. Il programma di reinsediamento di rifugiati, approvato dal Congresso nel 1980, permette al Presidente di stabilire il limite di persone a cui concedere lo status di rifugiato. Dall’inizio dell’amministrazione Trump, il numero di richieste concesse si è abbassato drasticamente e il limite di 18mila domande annunciato per l’anno prossimo è il più basso da quando è stata approvata la legge. Un’inversione di tendenza significativa quelle operata dal governo Trump che proprio sulle limitazioni alle migrazioni ha basato la sua campagna elettorale e la sua propaganda politica. Numeri, quelli previsti per il 2020, che non si erano mai visti: nemmeno dopo gli attacchi dell’11 settembre quando il limite venne abbassato fino a 27 mila per l’anno successivo. Un cambio di rotta netto e deciso rispetto a quanto visto durante l’amministrazione Obama quando il numero di richieste accettate oscillava intorno ai 50.000. I 18mila rifugiati includeranno 5mila persone che hanno subìto persecuzioni religiose nei propri paesi, 4mila iracheni che hanno collaborato con gli Stati Uniti e solo 1.500 persone provenienti da El Salvador, Guatemala e Honduras.
La situazione centroamericana – El Salvador, Guatemala e Honduras. I tre paesi con cui Trump ha stretto accordi presentano infatti criticità evidenti: non solo non possono essere considerati paesi sicuri ma sono anche i principali punti di partenza dei migranti diretti negli Stati Uniti. Violenza, corruzione, povertà e l’assenza di un futuro. Il centroamerica è in preda ad una crisi sociopolitica diffusa e preoccupante da cui, chi può, prova a scappare. L’Honduras, per esempio, grazie alla sua posizione geografica è il principale punto di passaggio del traffico di droga che dall’America latina arriva negli Stati Uniti, ed è uno dei paesi al mondo col più alto tasso di criminalità. Una criminalità così pervasiva e incontrastata che persino il presidente Juan Orlando Hernández è coinvolto in prima persona in uno scandalo legato al narcotraffico. Secondo gli inquirenti, Hernandez avrebbe utilizzato diversi milioni provenienti da un traffico di stupefacenti con gli USA per finanziare la sua campagna elettorale. In Guatemala, secondo quanto rilevato da una commissione delle Nazioni Unite, esiste una “coalizione mafiosa” tra governo, imprenditori e gruppi criminali che sarebbe disposta a “a sacrificare il presente e il futuro del Guatemala per garantire l’impunità e preservare lo status quo di tali soggetti”. El Salvador è uno dei paesi al mondo con il maggior tasso di omicidi, 62 ogni 100mila abitanti contro una media mondiale di 6, ed è pervaso da una violenza endemica eredità di una guerra civile conclusa ufficialmente 25 anni fa ma mai del tutto terminata. Un contesto complicato ed instabile, dunque, quello del “Triangolo settentrionale” del centroamerica che solleva evidenti perplessità circa la decisione degli USA di individuare i tre stati come “Safe third Country”.
I flussi – Il controsenso più grande insito negli accordi stipulati dagli USA, e ancora da ratificare nei tre paesi, sta nei numeri relativi ai flussi migratori. Honduras, El Salvador e Guatemala sono infatti i principali paesi di partenza dei migranti che attraversano il Messico per raggiungere il confine statunitense. Iconica è stata la prima carovana di migranti partita nell’ottobre scorso da San Pedro Sula, città honduregna non lontana dal confine con il Guatemala, che aveva portato migliaia di persone a marciare insieme attraverso il Messico per raggiungere un sogno chiamato America. Un sogno presto spezzato con le porte degli Stati Uniti che si sono chiuse costringendo i richiedenti asilo a vivere in accampamenti di fortuna lungo in attesa di un’autorizzazione ad entrare nel territorio a stelle e strisce. Migliaia di persone, in fuga da violenze e povertà, partono quasi quotidianamente da questi paesi per tentare di raggiungere una terra promessa che, non solo non li vuole, ma ora potrebbe addirittura rimandarli in un paese che si trova nella stessa situazione da cui sono scappati. Un honduregno in fuga dalle violenze dei narcos potrebbe dover richiedere protezione in Guatemala e ritrovarsi, non solo a pochi km da dove è stato costretto a fuggire, ma anche in una condizione identica a quella che ha lasciato. Un sistema problematico già dall’inizio dunque che oltre a mettere in pericolo la vita dei migranti che chiedono protezione proprio da quanto accade nella regione, rischia di creare problemi anche agli stati.
La sottomissione – Come afferma Iduvina Hernández, giornalista guatemalteca e attivista per i diritti umani, l’accoglienza dei migranti diretti negli Stati Uniti potrebbe mettere definitivamente in ginocchio i servizi base di tre stati. Il sistema sanitario guatemalteco, ad esempio, è già in una situazione di estrema difficoltà e verrebbe schiacciato totalmente dall’arrivo di richiedenti asilo, spesso bisognosi di cure. Le carenze strutturali e sistematiche dei tre paesi sommate all’arrivo di un numero ancora imprecisato di richiedenti asilo rischia di attivare nella regione una crisi umanitaria senza precedenti. Sistemi troppo fragili, oltre che pericolosi, per poter far fronte ad una situazione del genere. Ed allora una domanda sorge spontanea: come mai i tre stati hanno siglato gli accordi? Molti sostengono sia una scelta legata alle vicende processuali dei presidenti Morales, ora sostituito da Giammattei, e Hernandez e vedono l’accordo come il prodotto del bisogno di impunità dei due leader. Ma quello che emerge chiaramente, al di la di congetture prive di fondamento, è la sottomissione degli stati al potere statunitense. Firmare un accordo evidentemente svantaggioso per il proprio stato sottolinea ancora di più il rapporto estremamente sbilanciato che intercorre tra gli USA e i paesi del centroamerica. Honduras, Guatemala, El Salvador e tanti altri paesi nell’aerea dipendono economicamente dagli Stati Uniti e per questo risultano essere estremamente vulnerabili e sottomessi al potente vicino. In gioco, per questi paesi, vi è una posta troppo alta e per difendere i rapporti commerciali, politici e finanziari si stanno dimostrando disposti a qualsiasi cosa. Anche ad accettare un accordo evidentemente svantaggioso per loro e, soprattutto pericoloso per i migranti.
Mentre Trump esulta per aver “risolto il problema dell’asilo politico”, il mondo assiste a quella che è in realtà una evidente sconfitta. Quello di cui il presidente non si cura è che il suo piano sembra destinato ad aggravare una crisi già evidente. La decisione di chiudere ulteriormente i propri confini senza prevedere una riqualificazione dei contesti di partenza sarebbe già folle di per sé, ancor più folle lo diventa se si stringono accordi con i paesi da cui i migranti partono. Non basta certo una firma a rendere sicuri stati che non lo sono. Stati da cui i richiedenti asilo fuggono per cercare nuovi orizzonti e una vita migliore. Stati che ora dovranno farsi carico delle domande di asilo di chi scappa da un contesto perfettamente identico. Mettendo a rischio il sistema statale e, soprattutto, mettendo a rischio la vita dei migranti. Negando loro anche la speranza di una vita migliore, di una vita meno dolorosa e difficile. E ora, decine di migliaia di migranti si troveranno ancora a marciare verso gli Stati Uniti ma le loro grida disperate si perderanno nel vento. E qualcuno, nella notte, proverà ancora a varcare quella frontiera. Preferendo una vita nell’ombra a una vita senza speranza. Una vita clandestina come quella cantata da Manu Chao.
perdido en el corazón
de la grande babylon
me dicen el clandestino
por no llevar papel