Monthly Archives: luglio 2019

Giorgio Ambrosoli: la rettitudine di un uomo di Stato


È lei Giorgio Ambrosoli?”

Si, Sono io”

Le chiedo scusa, avvocato”

Quattro colpi, poi il silenzio.

Giorgio Ambrosoli
Era la sera dell’11 luglio 1979 e nel centro di Milano, in via Morozzo della Rocca 1, veniva ucciso l’avvocato Giorgio Ambrosoli. Si stava occupando, in veste di Commissario liquidatore, del fallimento della Banca Privata Italiana di Michele Sindona. Fu proprio quell’ultimo incarico, affrontato in modo integerrimo e coraggioso fino alla fine, a portare all’omicidio commissionato, dallo stesso Sindona, al killer americano William Aricò. Poco prima di mezzanotte, dopo che con alcuni amici aveva assistito all’incontro di boxe tra Lorenzo Zanon e Alfio Righetti, la vita di Giorgio Ambrosoli fu interrotta da quattro colpi di P38.
In un celebre libro, Corrado Stajano lo definì un “eroe borghese”. In effetti guardando alla sua vita e a come, a partire dal settembre 1974, aveva affrontato la liquidazione della banca di Sindona la definizione sembra calzare alla perfezione. Fu l’allora presidente della Banca d’Italia, Guido Carli, a nominarlo commissario liquidatore della Banca Privata Italiana, nata pochi mesi prima dalla fusione tra la Banca Privata Finanziaria e la Banca Unione. Il compito dell’avvocato milanese era di accertare lo stato d’insolvenza, lo stato passivo e il piano di riparto tra i creditori. Indagando sulle operazioni finanziarie e sui conti delle banche, Ambrosoli non ci mise molto a capire che qualcosa non quadrava: il patrimonio iniziale della BPI era praticamente inesistente. La banca era insomma nata già sull’orlo del fallimento in quanto il patrimonio delle due banche era stato interamente assorbito dalle perdite, coperte con numerose irregolarità amministrative.
Michele Sindona
Il piano di Sindona era semplice: far salvare l’istituto dallo stato a spese dei cittadini. A Roma, come sarebbe emerso dalle indagini, era pronta una rete di relazioni che avrebbe sanato tutto a spese dei contribuenti. Era necessario solo un ultimo passo, una firma di Ambrosoli che richiedesse il salvataggio della banca da parte dello stato. Quella firma, però, l’avvocato milanese non la appose mai. Indagò anzi con rettitudine e profondo senso dello stato, riuscendo a recuperare 249 miliardi con cui vennero rimborsati i creditori principali e in maniera minore gli altri.  
Ma Sindona non era solo un banchiere. Alla fine degli anni ’60 l’Interpol lo aveva segnalato per riciclaggio di denaro proveniente dal narcotraffico. Negli anni ’70 attraverso gli istutiti Finbank di Ginevra e l’Amincor Bank di Zurigo riciclava i soldi della famiglia mafiosa Bontade-Inzerrillo-Spatola. Nel 1974 Giulio Andreotti, allora presidente del Consiglio, lo aveva definito il “Salvatore della Lira” per una fantomatica operazione di sostegno alla moneta nazionale. Le relazioni e le amicizie con le più alte sfere politiche e la vicinanza ad ambienti criminali facevano di Sindona una delle personalità più influenti a vari livelli.
La rettitudine di Giorgio Ambrosoli, però, non venne meno neanche di fronte a questa diffusa rete di malaffare. Non indietreggio nemmeno nel 1978 quando ricevette una serie di telefonate minatorie che in seguito si scoprì essere effettuate da Giacomo Vitale, cognato del boss di Cosa Nostra Stefano Bontate legato a Sindona. Neppure l’ultimo, inequivocabile, segnale lo fermò: il ritrovamento di una pistola su un bidone della spazzatura da parte di un commesso della BPI un mese prima del suo omicidio. Lasciato solo dallo Stato in cui credeva più di ogni altra cosa, Ambrosoli continuò con fermezza potendo contare come suo unico referente politico su Ugo La Malfa, Ministro del Tesoro. Sapeva a cosa stesse andando incontro, era perfettamente a conoscenza dei rischi che correva, ma il suo senso dello stato gli impose di continuare. “Pagherò a molto caro prezzo l’incarico: lo sapevo prima di accettarlo e quindi non mi lamento affatto perché per me è stata un’occasione unica di fare qualcosa per il paese” scrisse in una lettera indirizzata alla moglie e datata 25 Febbraio 1975. “A quarant’anni, di colpo, ho fatto politica e in nome dello Stato e non per un partito. Con l’incarico, ho avuto in mano un potere enorme e discrezionale al massimo ed ho sempre operato – ne ho la piena coscienza – solo nell’interesse del paese, creandomi ovviamente solo nemici”.
Quella lettera, Ambrosoli, la terminò con un passaggio toccante e sentito. Un testamento rivolto alla moglie che solo dopo la sua morte la troverà nei cassetti della sua scrivania. “Qualunque cosa succeda, comunque, tu sai che cosa devi fare e sono certo saprai fare benissimo. Dovrai tu allevare i ragazzi e crescerli nel rispetto di quei valori nei quali noi abbiamo creduto […] Abbiano coscienza dei loro doveri verso sé stessi, verso la famiglia nel senso trascendente che io ho, verso il paese, si chiami Italia o si chiami Europa. Riuscirai benissimo, ne sono certo, perché sei molto brava e perché i ragazzi sono uno meglio dell’altro. Sarà per te una vita dura, ma sei una ragazza talmente brava che te la caverai sempre e farai come sempre il tuo dovere costi quello che costi”.
L’11 luglio 1979 Ambrosoli terminò la rogatoria di fronte al giudice istruttore Giovanni Galati. Mancava solo la firma per mettere fine a quel processo iniziato 5 anni prima. Passarono solo poche ore però e la sua vita cessò, in modo tragico, sul passo carrabile di casa sua in via Morozzo della Rocca 1. I Funerali si svolsero il 14 luglio nella chiesa di San Vittore a Milano e ancora una volta, lo Stato in cui credeva non si presentò. Solo il futuro Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi  si presentò ai funerali che videro invece una grande partecipazione della cittadinanza milanese che tributò un ultimo, commosso, saluto all’avvocato morto per lo Stato e per colpa dello stato: in due parole un “eroe borghese”.

Cosa sta accadendo ad Hong Kong?

Le proteste contro la governatrice Carrie Lam hanno raggiunto ieri un punto di rottura. I manifestanti chiedono le dimissioni del governo e il ritiro del ‘Extradition Bill’.

   
Uno striscione appeso all’esterno del Parlamento 
sintetizza lo spirito dei manifestanti 
Ieri, Nel giorno del 22° anniversario dalla fine del dominio coloniale, le proteste ad Hong Kong hanno raggiunto livelli mai visti prima. I manifestanti, dopo ore di assedio, hanno occupato per più di tre ore il palazzo del Parlamento. All’esterno dell’edificio la bandiera cinese è stata sostituita da una bandiera nera della città, simbolo delle proteste, mentre all’interno sventolavano bandiere coloniali. Dopo 156 anni di dominio inglese, Hong Kong, è diventata una Regione amministrativa speciale della Cina il 1° luglio 1997. Grazie al lungo passato coloniale la città ha però sempre goduto di una grande autonomia dalla Cina. Gli accordi stipulati tra Londra e Pechino stabiliscono infatti che Hong Kong possa mantenere un’economia capitalista fino al 2047 ed ha una totale liberà in tutti i settori con l’eccezione della difesa e della politica estera. A scatenare le proteste degli ‘Hongkongers’ è stato il rischio di perdere parte di questa libertà, a livello giudiziario, rafforzando il legame con Pechino. A preoccupare, soprattutto i più giovani, è la legge sull’estradizione voluta dalla Chief Executive, Carrie Lam. Dopo le ingenti manifestazioni, il 15 giugno la governatrice aveva deciso di sospendere ogni decisione sulla riforma rimandando la sua approvazione a data da destinarsi. Il ritiro della proposta di legge però non è bastato ai manifestanti che pensano sia solo un modo per calmare le acque per riproporla appena la situazione sarà tornata alla normalità.
 ‘Extradition bill’ – La riforma è stata proposta mesi fa dopo la mancata estradizione a Taiwan di un ragazzo accusato di aver ucciso la propria fidanzata a Taipei. Hong Kong ha attualmente accordi di estradizione con soli 20 stati, tra cui Regno Unito e Stati Uniti, e con questa legge vorrebbe colmare l’assenza di accordi con gli altri paesi regolando in linea generale i rapporti in materia in tutti i casi al di fuori di quelli già stabiliti. Portata avanti con forza dalla leader del governo di Hong Kong, Carrie Lam, la legge prevede la possibilità per le autorità di estradare chi è sospettato di gravi crimini. John Lee, segretario per la sicurezza di Hong Kong, ha precisato che i “gravi crimini” per cui sarà prevista l’estradizione sono tutti i reati punibili con una condanna uguale o superiore ai 7 anni di reclusione.
I messaggi dei manifestanti sul Lennon Wall di Hong Kong

Il procedimento per l’estradizione, previsto dalla legge, è complesso e prevede alcune garanzie. Dopo una prima richiesta formale al governo, in caso di approvazione, è la corte a disporre l’arresto e a pronunciarsi sull’eventuale estradizione. Nel caso decidesse di procedere, l’ultima parola spetterebbe nuovamente allo Chief Executive che può definitivamente disporre l’allontanamento del soggetto accusato. Nella legge è però prevista la possibilità di appellarsi contro tale decisione. In caso di ricorso dopo la pronuncia della corte, è possibile l’annullamento completo della decisione presa e l’interruzione della procedura. L’appello può avvenire anche al momento della decisione finale della governatrice. In tal caso, però, anche se il ricorso dovesse essere accolto la decisione tornerebbe nelle mani della corte che potrà decidere se confermare o meno la propria precedente decisione.

Perché ha scatenato le proteste? – Secondo i partiti di opposizione un ruolo così centrale dello Chief Executive nel procedimento di estradizione presenta degli aspetti problematici. Il rischio è che il leader del governo di Hong Kong, scelto da un comitato elettorale legato a Pechino, si sentirebbe in qualche modo obbligato ad accettare le richieste di estradizione provenienti dalla Cina. Anche le organizzazioni per la tutela dei diritti umani temono che la legge possa diventare uno strumento nelle mani di Pechino per silenziare voci dissidenti ad Hong Kong come già accade in Cina. Questo timore è aumentato dopo che Han Zheng, membro dell’Ufficio politico del Partito comunista cinese, ha annunciato il suo sostegno alla legge dichiarando che questo provvedimento potrebbe riguardare anche i cittadini di Hong Kong “sospettati di aver messo a rischio la sicurezza nazionale della Cina”. Il rischio è dunque che Hong Kong perda gran parte della propria economia diventando schiava del regime cinese, considerato liberticida dai protestanti e con un sistema giudiziario totalmente diverso. In Cina è ancora prevista, come denunciano gli attivisti per i diritti umani, la pena di morte per reati di particolare gravità, ciò non accade invece nell’ex colonia dove l’esecuzione capitale è stata abolita nel 1993.
Contro la legge sull’estradizione si è espresso anche Mike Pompeo, Segretario di Stato degli Stati Uniti, che ha criticato l’emendamento, sostenendo che potrebbe danneggiare lo stato di diritto a Hong Kong. Anche L’Unione Europea, il Regno Unito e numerosi altri stati hanno espresso la loro preoccupazione e i loro dubbi riguardo a tale riforma. La camera di Commercio di Hong Kong ha addirittura diffuso una nota in cui ha affermato che i cambiamenti potrebbero indurre le imprese a riconsiderare la scelta della città come sede regionale.
Due milioni di persone alla manifestazione del 16 giugno
(ph: Bloomberg)
Nonostante siano arrivate condanne unanimi a questa legge, Carrie Lam è comunque decisa a portare avanti la riforma. Nel discorso in cui annunciava il rinvio, oltre ad aver annunciato di non aver intenzione di rassegnare le dimissioni, ha ribadito la necessità di tale documento. Non è un caso, dunque, la manifestazione più imponente si è avuta il 16 giugno, proprio il giorno successivo alle dichiarazioni della governatrice, quando quasi 2 milioni di persone hanno sfilato nella più grande manifestazione della storia di Hong Kong. Se in una situazione del genere sembra inevitabile il ritiro definitivo dell’emendamento, la governatrice non sembra intenzionata a percorrere questa strada. L’impressione è che in questo caso l’autonomia della Chief Executive sia minata dalle pressioni di Pechino che spinge per l’approvazione della riforma. Dall’altra
parte, anche i manifestanti non sembrano per nulla intenzionati a fermare le proteste e in un clima di crescente tensione, giunta all’apice nella giornata di ieri, continuano a scendere in piazza e a chiedere le dimissioni della governatrice al grido di “Carrie Lam! Downstairs!”.