Tag Archives: Pallone Criminale

I tentacoli dei clan sul Foggia Calcio tra estorsioni e pressioni su società e allenatori

Dai recenti processi alla criminalità organizzata foggiana è emerso come i clan avessero allungato i propri tentacoli anche sul calcio tra estorsioni e ricatti alla proprietà e all’allenatore del Foggia Calcio.

Da sempre il mondo del calcio è stato terreno fertile per gli affari delle mafie. Le organizzazioni criminali, italiane e non solo, da decenni hanno allungato i propri tentacoli sullo sport più amato degli italiani alla ricerca di profitto, potere e consenso sociale. Per questo non sorprende che anche la “quarta mafia” foggiana, dimostrando di aver imparato dalle altre organizzazioni criminali italiane, abbia tentato di condizionare la gestione del Foggia Calcio.

I recenti processi “Decima Azione” e “Decimabis” hanno infatti portato alla luce gli interessi della criminalità organizzata foggiana per la società militante in Serie C. I giudici hanno sottolineato come “i membri della Società Foggiana hanno imposto alla società sportiva Foggia Calcio la stipulazione di contratti di ingaggio nei confronti di soggetti vicini all’associazione di cui all’art. 416 bis c.p., pur non disponendo di qualità sportive significative. Al riguardo, si osserva che i dirigenti (Di Bari Giuseppe, direttore sportivo) ed allenatori (De Zerbi Roberto) del Foggia Calcio lungi dal denunciare l’accaduto — come dovrebbe fare ogni vittima di estorsione, affidandosi alla forza dello Stato per sradicare fenomeni di mantenimento parassitario come quello attuato e realizzato dagli odierni imputati — hanno preferito in maniera pavida accettare supinamente le richieste formulate, abiurando anche a quei valori di lealtà e correttezza sportiva che dovrebbe ispirare la loro condotta”. 

Esponenti della criminalità foggiana, dunque, avrebbero fatto pressioni sulla società affinché ingaggiasse giovani affiliati ai clan senza alcun merito sportivo. Pressioni che, in qualche caso, avrebbero effettivamente portato rampolli delle famiglie criminali foggiane ad allenarsi con la squadra rossonera. Come sottolineato dai giudici nella sentenza, infatti, le sempre più insistenti richieste di Francesco “u’ sgarr” Pesante avrebbero fatto crollare l’allora presidente Sannella costringendolo ad assicurare un contratto a Luca Pompilio, cognato di Ciro Spinelli detenuto per omicidio, nonostante fosse completamente privo dei requisiti atletici e tecnici per giocare in una squadra professionistica. Per il giudice “è di meridiana evidenza, dunque, che in disparte ogni facile ironia sulla palese inadeguatezza calcistica del Pompilio, il contratto venne stipulato unicamente per le pressioni esercitate dal Pesante, che aveva anche manifestato la sua determinazione al Sannella, al Di Bari Giuseppe ed allo stesso allenatore De Zerbi Roberto, rappresentando loro di avere libero accesso agli spogliatoi, dove li avrebbe raggiunti con intenzioni non certo amichevoli”. Ma quello di Pompilio, smentito con forza dalla società e dall’allenatore, non sarebbe l’unico caso essendo emerso dalle indagini anche il tentativo di far ingaggiare anche il figlio del boss Rodolfo Bruno, ucciso il 15 novembre 2018 in una faida tra clan.

Arrivare ai vertici del Foggia Calcio, d’altronde, per la criminalità organizzata non è stato difficile. Dalle indagini è emerso come nella lista delle imprese costrette a pagare il pizzo alla mafia foggiana ci fosse anche la “Tamma – Industrie alimentari srl” di proprietà proprio di Franco e Fedele Sannella, i due imprenditori che di lì a poco avrebbero ceduto il Foggia Calcio perché sommersi dai debiti. I due fratelli sarebbero stati costretti dai clan ad un pagamento di tremila euro ogni mese da destinare alla “cassa comune”, una sorta di salvadanaio mafioso utilizzato per mantenere le famiglie dei clan e pagare le spese legali. La disponibilità a pagare senza denunciare da parte dei due imprenditori avrebbe convinto gli uomini dei clan a fare un salto di qualità puntano dritti sul mondo del calcio grazie alla disponibilità dei Sannella.

Nonostante le continue smentite dei fratelli Sannella e degli altri interessati, da De Zerbi a Pompilio, sembra dunque certo il tentativo della “quarta mafia” di seguire le orme delle altre organizzazioni criminali italiane sfruttando le opportunità offerte dal mondo del calcio. L’ingaggio di giovani rampolli dei clan nella squadra simbolo della città avrebbe infatti permesso un rafforzamento significativo di quel consenso sociale di cui le mafie si nutrono aprendo per la mafia foggiana nuovi ulteriori canali da sfruttare all’interno della società. 


Vuoi sapere di più sugli interessi della criminalità organizzata nel mondo del calcio?

Corri a rileggere il nostro speciale “Pallone Criminale”, quattro articoli che ti porteranno alla scoperta della presenza mafiosa nello sport più seguito dagli italiani. Un viaggio nel tempo e nello spazio che dalle serie minori arriva fino alla Serie A dei giorni nostri.
Tutti gli articoli li trovi qui: https://pocketpress.news/pallone-criminale/

Pallone Criminale #4: Le curve nelle mani delle mafie

Il legame tra la tifoseria organizzata della Juventus e clan della ‘ndrangheta è solo il caso simbolo in un mondo, quello ultras, fatto di rapporti pericolosi e criminali. Ma la presenza mafiosa negli stadi non si limita a Torino, è articolata in tutta Italia e sempre più preoccupante.

L’inchiesta “Alto Piemonte”, che ha svelato i rapporti tra la criminalità organizzata e la tifoseria bianconera, ha acceso un importante faro su un fenomeno pericolosamente diffuso in molte curve italiane. Nel microcosmo rappresentato dalla curva sembrano riprodursi i quattro requisiti del modello mafioso. Attraverso l’infiltrazione ai vertici dei gruppi ultras, i clan, riescono ad esercitare un capillare controllo del territorio-curva. Guadagnano un ruolo egemone sui membri della tifoseria organizzata e, sfruttando quella posizione, riescono a creare una rete di dipendenze personali in cui gli appartenenti alle varie compagini risultano essere assoggettati ai capi delle stesse e seguono le loro indicazioni diventando così soggetti funzionali al clan, dentro e fuori lo stadio. La curva può così diventare un bacino di reclutamento per le organizzazioni criminali che possono sfruttare la propensione alla violenza di certi gruppi ultras.

Questo connubio tra criminalità organizzata e mondo ultras sembra aver svolto un ruolo centrale durante le proteste contro l’apertura di una discarica a Pianura, in provincia di Napoli, nel 2008. Nel momento culmine dell’emergenza rifiuti, la protesta legittima dei cittadini che non volevano convivere con i problemi relativi alla riapertura fu affiancata da quella violenta dei gruppi ultras manovrati dai clan. Gli interessi della camorra nel settore dello smaltimento dei rifiuti cozzavano con la riapertura della discarica e dunque l’organizzazione fece intervenire, al fianco dei manifestanti pacifici, gruppi di tifosi arruolati nelle curve del San Paolo con il compito di ingaggiare duri scontri con le forze dell’ordine. Una presenza aliena e combattiva che, come un esercito privato, si mette al servizio della camorra.    

D’altro canto, è noto che la camorra sia presente in maniera pervasiva nelle due curve dello stadio San Paolo sede delle partite casalinghe del SSC Napoli. Lo ha ribadito il sostituto procuratore della Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli Enrica Parascandolo, sentita in audizione dalla Commissione Parlamentare Antimafia nell’aprile 2017, sottolineando come la divisione in due curve (Curva A e Curva B) della tifoseria organizzata partenopea rispecchi una diversa provenienza territoriale intesa, non solo ma anche, come presenza di diversi gruppi camorristici. Mentre la “Curva B” è sotto il controllo del clan Lo Russo, per quanto riguarda la “Curva A” emerge la presenza di diversi clan che vantano un controllo sul centro di Napoli. Proprio la Curva A è stata nel 2015 teatro degli scontri tra il gruppo ultras denominato “Mastiffs”, legato ai clan di Forcella, e quello “Rione Sanità”, legato ai clan dell’omonimo quartiere. Le due fazioni, unite dalla fede calcistica erano però divise da una lotta che stava insanguinando la città e non risparmiò nemmeno lo stadio.

La presenza all’interno dello stadio rappresenta per il soggetto criminale la dimostrazione del suo controllo su un territorio e un modo per accrescere ed affermare il suo potere. Accade, come abbiamo visto, a Napoli ma anche a Palermo dove storicamente tutti gli interessi criminali riguardanti lo stadio Renzo Barbera sono amministrati dai clan del quartiere Resuttana-San Lorenzo dove sorge l’impianto. Così, oltre ad infiltrazione in business collegati al club, si registra la presenza di esponenti del clan ai vertici della tifoseria organizzata rosanero. E proprio grazie a questa penetrazione nella curva dei supporters del Palermo negli anni sono stati esposti striscioni con messaggi che poco hanno a che fare con il mondo del calcio e sembrano piuttosto dettati dagli interessi della criminalità organizzata. Emblematico ad esempio lo striscione esposto durante Palermo – Ascoli il 22 dicembre 2002 con la scritta “Uniti contro il 41bis. Berlusconi dimentica la Sicilia”. La scelta della partita non fu certo casuale, innanzitutto perché il giorno dopo il parlamento avrebbe reso definitivo il regime del 41bis, avente fino ad allora carattere provvisorio, e in secondo luogo perché proprio nel carcere di Marino del Tronto, ad Ascoli, era allora detenuto in isolamento Totò Riina. Un messaggio chiaro ed inequivocabile lanciato all’allora Presidente del Consiglio come ultimo disperato tentativo di far sentire il proprio dissenso verso un regime carcerario così temuto dai clan.    

La presenza di uomini legati ai clan negli stadi, nei territori a naturale insediamento mafioso, è dunque principalmente una dimostrazione di potere ed una conseguenza del controllo del territorio. Essere rappresentati da uno striscione esposto al San Paolo attesta il prestigio di un clan di camorra oltre a ribadire il suo dominio su una parte della città, così come la presenza di esponenti di spicco di Cosa Nostra nella tifoseria palermitana è la dimostrazione del controllo di un quartiere in cui tutto deve essere sotto il controllo criminale e lo stadio non può certo fare eccezione.  

Le recenti inchieste hanno però svelato la presenza di soggetti legati a organizzazioni mafiose anche lontano dai territori tradizionali nelle tifoserie di due squadre tra le più importanti del nostro campionato: la Juventus e il Milan. Ma se quando “giocano in casa” le mafie perseguono soprattutto interessi sociali, in trasferta sembrano puntare principalmente sull’aspetto economico. Questo sembra essere per lo meno il quadro che emerge dalle vicende legate alla tifoseria bianconera dove si registra un totale controllo del territorio-curva da parte di soggetti criminali. La “Relazione su Mafia e Calcio” redatta nel dicembre 2017 dalla Commissione Parlamentare Antimafia evidenzia come per la costituzione di un nuovo gruppo di tifosi nella curva dello Juventus Stadium sia necessaria una doppia autorizzazione: una da parte degli ultras storici e una direttamente dalle cosche calabresi. Figura centrale della vicenda è Rocco Dominello, incensurato ma legato alle famiglie Pesce-Bellocco di Rosarno, il quale grazie al prestigio guadagnato nella curva bianconera si è gradualmente posto come interlocutore tra la tifoseria organizzata e la società. I suoi rapporti con la dirigenza lo portano così a svolgere un doppio ruolo, da una parte mantiene la pace tra i vari gruppi e si fa garante dell’ordine pubblico nella curva, dall’altra si pone come gestore dei tagliandi omaggio rilasciati dalla società ai propri supporters. Ed è proprio la gestione di quei biglietti a garantire ingenti guadagni alle cosche calabresi. Rivenduti a prezzi maggiorati possono portare profitti fino a trentamila euro a partita, come sostenuto dai sostituti Procuratori Toso e Abbatecola. Un business importante e proficuo gestito in un regime di monopolio da Dominello evitando, grazie al controllo totale della curva, le pretese di altri gruppi su quei biglietti.    

Diversa è invece la situazione relativa alla tifoseria del Milan. Nel luglio 2018 i vertici storici della “Curva Sud”, sede della tifoseria organizzata rossonera, dovendo valutare l’ingresso di nuovi gruppi ultras nel settore hanno di fatto aperto le porte del cuore del tifo organizzato a un gruppo denominato “Black devil”. Scorrendo i nomi dei membri di questo gruppo si capisce quanto possa essere pericoloso il loro ingresso nella curva sud. Leader dei “Black devil” è, infatti, Domenico “Mimmo” Vottari, cinquantenne con rapporti e parentele con i clan coinvolti nell’inchiesta “Infinito” e sospettato di aver condizionato le elezioni amministrative del 2009 a Senago, nell’hinterland milanese. Pur non essendo mai stato indagato per mafia sono molti i rapporti dubbi intrattenuti da Vottari tra cui spiccano quelli con Salvatore Muscatello, nipote dell’omonimo Salvatore Muscatello per decenni punto di riferimento per le ‘ndrine del Nord, e con Domenico Agresta imparentato con il capo bastone della locale di Assago. La società si è detta consapevole della caratura di Vottari e di altri membri del gruppo ma, non essendo soggetti a Daspo non ha potuto impedirne l’accesso a San Siro. Allo stesso modo i leader della Curva Sud vedono il nuovo gruppo come una componente non gradita a cui, dopo un iniziale rifiuto, non sono però riusciti a chiudere le porte.   Anche il tifo, dunque, subisce le ingerenze di una criminalità organizzata che pervade il mondo del calcio in ogni suo aspetto. Con il nostro viaggio abbiamo provato a far luce su come le mafie provino ad inquinare lo sport più seguito dagli italiani. Uno sport malato e senza anticorpi in cui proliferano interessi di ogni genere alle spalle di tifosi che non vedono o non vogliono vedere. Una presa di coscienza collettiva deve necessariamente essere il primo passo per ripulire i nostri campionati e tornare a guardare spensierati i nostri beniamini correre dietro un pallone.

Pallone Criminale #3: la Camorra e le scommesse

L’evoluzione del business delle scommesse per l’organizzazione campana rappresenta un esempio paradigmatico della capacità delle mafie di sfruttare situazioni diverse a proprio vantaggio. Dal totonero degli anni ’70 alla gestione dei centri scommessi per adattarsi alla società che cambia.

Sono molti gli studiosi secondo cui il termine camorra deriverebbe dalla morra, gioco diffuso tra il “popolino” in cui vinceva chi indovinava il numero che i due giocatori sommavano aprendo insieme, contemporaneamente, le dita di una mano. Il camorrista, secondo questa visione era colui che dirigeva il gioco, impedendo litigi e risse e guadagnando con esso. Il legame tra la criminalità campana e il gioco d’azzardo risulta dunque essere antico e consolidato e questo interesse non poteva certo risparmiare uno dei settori più ricchi del gioco d’azzardo: il calcioscommesse. Il business delle scommesse non è più gestito in maniera monopolistica dall’organizzazione campana. Molte mafie, la ‘ndrangheta in primis, hanno iniziato a sfruttare questa inesauribile fonte di profitti ma l’analisi dell’interesse dei clan campani ci sembra paradigmatica dell’evoluzione che ha subito questo business in risposta ai mutamenti del contesto.

Un primo avvicinamento della camorra a questo settore è stato l’esercizio del cosiddetto “totonero” ovvero la gestione parallela e clandestina del totocalcio nazionale. Il meccanismo attuato dai clan era semplice, grazie alla presenza di tabaccai collusi, il clan veniva a sapere in tempo reale l’identità dei soggetti vincenti e offriva loro un pagamento immediato e in contanti della vincita, che lo stato avrebbe pagato dopo mesi, in cambio della schedina vincente. Grazie a questo scambio tra mondo criminale e non, le cosche immettevano sul circuito legale i soldi guadagnati dal narcotraffico ottenendo in cambio una somma identica ma perfettamente legale proveniente direttamente dall’Agenzia dei Monopoli di Stato. Era dunque il riciclaggio il motivo che spinse in origine la camorra ad intraprendere questo business: una vincita al totocalcio, il famoso “13”, poteva valere diversi milioni di lire (5 miliardi la vincita massima registrata nella storia del concorso) e garantiva quindi ai clan un importante canale per ripulire i propri soldi.
Lo schema seguito dai clan risultava sicuramente vantaggioso per gli interessi dei gruppi criminali ma aveva anche molti limiti. Innanzitutto era necessaria la presenza di soggetti esterni all’organizzazione disposti a collaborare: rivenditori collusi e soggetti vincenti disposti a incassare la vincita da un canale alternativo. Un’altra criticità era legata alle vincite che, seppur milionarie, non erano certo così frequenti ed erano soprattutto disseminate su tutto il territorio nazionale. Attraverso questo schema i clan erano in grado ripulire i propri soldi solo attraverso le schedine vincenti giocate presso i rivenditori complici, potevano dunque contare su un numero esiguo di cedole e dunque su un giro di affari certamente vantaggioso ma limitato. A partire dagli anni ’80 per tentare di eliminare le criticità di questo sistema si registra un cambiamento radicale nella gestione delle scommesse clandestine. Inizia così il vero e proprio “totonero”, un concorso identico a quello ufficiale ma ad esso parallelo e interamente nelle mani dei clan. Soggetti legati a diversi gruppi camorristici stilavano un palinsesto con le quote per le singole partite e raccoglievano le scommesse pagando eventuali vincite subito ed in contanti con i proventi degli affari illeciti. I principali attori coinvolti in questo settore erano Luigino Giuliano detto “O’ Re”, boss di Forcella, e Salvatore Lo Russo detto “O’ Capitone”, boss di Miano. Proprio quest’ultimo si occupava della creazione del palinsesto su cui scommettere e dell’elaborazione delle quote su cui puntare. Era un business molto più ricco di quello precedentemente sperimentato che, come riferito dal pentito Guglielmo Giuliano, fruttava all’organizzazione guadagni superiori ai due miliardi di lire settimanali.
La crisi del sistema del totonero ha inizio con il decreto 174/1998 che ha aggiornato il quadro normativo in tema di scommesse. Fino a quel momento, infatti, le uniche scommesse legali erano quelle effettuate sulle corse dei cavalli, per tentare la fortuna nel calcio vi era solamente la possibilità di giocare la famosa “schedina”. Con la nuova normativa, invece, si apre un ventaglio quasi infinito di possibili giocate per ogni partita, non più solo i risultati finali ma anche i singoli aspetti della partita: dal numero dei calci d’angolo ai marcatori, da chi batte il calcio d’inizio a chi segna per primo. Quella che poteva essere una battuta d’arresto per i clan si è trasformata però in una nuova enorme opportunità. Giuseppe di Nocera, ex esponente del clan Gallo-Cavalieri ora collaboratore di giustizia, racconta infatti che “quando le scommesse da illecite sono diventate legali anche i gruppi camorristici interessati e coinvolti nel settore delle scommesse clandestine hanno colto l’opportunità di legalizzarsi”.
A partire dagli anni 2000 si apre quindi una nuova era nella gestione illecita delle scommesse da parte della camorra. Attore principale di questa nuova fase, come risulta dall’inchiesta “Golden Gol” della Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli, era Vincenzo D’Alessandro, boss dell’omonimo clan operante a Castellammare di Stabia, con la collaborazione di altri due soggetti: Antonio De Simone, direttore commerciale della società greca Intralot, e Maurizio Lopez, responsabile quote presso la stessa società. Il primo aveva il compito di individuare i gestori delle agenzie Intralot sul territorio, proprio grazie a lui la camorra stabiese aveva ottenuto la gestione di sei ricevitorie ed era in procinto di aprirne altre tre. Il secondo invece, per conto della società greca, stabiliva le quote e ne seguiva l’andamento, era lui a decidere se accettare o rifiutare scommesse di somme elevate. Grazie alla collaborazione dei due il clan riesce ad elaborare un sistema quasi infallibile. Dagli sportelli con il marchio Intralot alcune puntate erano dirottate sul sito http://www.milanobet.com creato appositamente dall’organizzazione e privo di autorizzazione. A questo sito erano destinate soprattutto le scommesse con basse probabilità di vittoria mentre quelle più facilmente realizzabili venivano giocate sul circuito legale. In questo modo le puntate perdenti entravano direttamente nelle casse del clan, se invece la scommessa risulta vincente contro le aspettative del clan la vincita veniva pagata in contanti con i soldi sporchi della camorra e non tramite bonifico come dovrebbe avvenire da regolamento. Un “sistemone perfetto” che garantiva al clan un guadagno in qualsiasi caso, o in termini di riciclaggio o di profitto economico.
La genesi della gestione clandestina delle scommesse sembra dimostrare una incredibile capacità di adattamento da parte dei clan. Gli interventi normativi che avrebbero dovuto arginare il problema sono stati colti dall’organizzazione come nuove opportunità da sfruttare. La camorra si è dimostrata in questa vicenda un passo avanti rispetto alle autorità ed ha utilizzato a proprio favore i cambiamenti apportati proprio per contrastarla: nel calcio come nelle altre attività, dunque, si registra una grossa capacità di trarre vantaggio da situazioni che sembrerebbero tutt’altro che favorevoli.

_______________________________________________

FONTI:
  • Cantone Raffele – Di Feo GianlucaFootball Clan, Best BUR, Milano, 2014
  • Romani Pierpaolo, Calcio criminale, Rubettino, Soveria Mannelli, 2012

Pallone Criminale #2: i club nelle mani delle mafie

La colonizzazione ai vertici delle società calcistiche offre alla criminalità organizzata vantaggi importanti trasformando il club in uno strumento nelle mani dei clan. I numeri dimostrano come, dai club di provincia fino alla Serie A, le mafie nel calcio siano sempre più presenti

A partire dagli anni ’90 il calcio è diventato qualcosa più di un semplice sport. Sotto la spinta di sempre maggiori interessi economici il calcio professionistico è diventato un business miliardario che ha generato nel 2015 un giro d’affari di 3,7 miliardi, pari a 5,7 punti del PIL nazionale. La distribuzione di questa cifra è però fortemente polarizzata verso le squadre professionistiche che hanno originato circa il 70% dei ricavi totali. È evidente quindi come si possano individuare due mondi quasi paralleli: da una parte le squadre professionistiche con introiti importanti e un giro d’affari enorme, dall’altra le squadre dilettantistiche lontane dai riflettori e con poche risorse economiche. Sono proprio le società della Lega Nazionale Dilettanti, vera e propria base del calcio italiano con quasi quindicimila società e circa un milione di giocatori, quelle maggiormente esposte alle mire della criminalità organizzata. Seguendo dinamiche simili alla penetrazione in altri settori economici le cosche individuano i soggetti con problemi finanziari e, sfruttando i controlli superficiali del calcio minore, si offrono come soluzione attraverso la vendita della squadra a una nuova proprietà spesso nascosta dietro un prestanome.  

Una volta acquistata la proprietà di un club esso diventa uno strumento nelle mani del clan che lo utilizza per perseguire i propri interessi economici e sociali. Spesso accade che una volta rilevata la proprietà di una squadra il sodalizio criminale si disinteressi delle sorti sportive della squadra. È accaduto ad esempio alla SSC Giuliano società campana posta sotto sequestro in seguito all’operazione “Arcobaleno”, condotta nel 2010 dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli, perché riconducibile al latitante Giuseppe Dell’Aquila esponente apicale del clan camorristico Mallardo. Questa vicenda, come evidenziato dalla Commissione Parlamentare Antimafia, dimostra il disinteresse del clan alle sorti della squadra che in tre anni precipitò dalla C2 fino al campionato Eccellenza. Il sodalizio mafioso al vertice del club aveva infatti interessi di tipo puramente economico e sfruttava il club per imporre ai commercianti locali la sponsorizzazione della squadra garantendosi importanti introiti perfettamente leciti.

Diversi erano invece gli interessi nel calcio della cosca di ‘ndrangheta Pesce per cui nel 2011 la Direzione Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria ha disposto il sequestro di tre squadre: l’AS Rosarno e la ASD Cittanova Interpiana, in Calabria, e il Sapri Calcio, in Campania. Attraverso la gestione dei tre club Francesco e Marcello Pesce avevano costruito un disegno criminale complesso ed articolato. Oltre ad una legalizzazione del pizzo operata, come nel caso del Giuliano Calcio, attraverso l’imposizione di sponsorizzazioni ai commercianti locali il clan aveva altri molteplici interessi di carattere diverso. La gestione del club di Rosarno, feudo della famiglia Pesce, era allo stesso tempo emanazione di un controllo totale del territorio e strumento per consolidare e accrescere il consenso sociale grazie alle vittorie sul campo che davano lustro ai suoi proprietari. Il Sapri, riuscito ad iscriversi al campionato 2005/2006 solo grazie ad una importante immissione di liquidità da parte di Marcello Pesce, era invece un avamposto del clan per investimenti in una terra, il Cilento, da tempo finita nelle mire della criminalità calabrese soprattutto per il settore alberghiero e dello smaltimento dei rifiuti. Attraverso la gestione della squadra Marcello Pesce puntava ad aprire un canale diretto tra la cosca e il territorio campano in modo da essere avvantaggiato in futuri affari. Il ruolo dell’Interpiana è stato invece chiarito dal collaboratore di giustizia Salvatore Facchinetti il quale ha dichiarato che l’interesse dei Pesce per la gestione delle squadre era collegata ai contatti garantiti dalla frequentazione di giocatori provenienti da territori diversi. Sfruttando la rete di contatti e il loro legame con il territorio d’origine il clan era riuscito a creare una rete che permetteva di sfruttare nuove aree di sviluppo per le attività illecite.

Ma se la presenza della criminalità nelle divisioni inferiori è sempre più diffusa, non mancano tentativi di scalata ai club del massimo campionato italiano. È quanto accaduto nel 2005 alla SS Lazio, vincitrice in quegli anni di uno scudetto e due coppe Italia, finita al centro di un tentativo di acquisto da parte del clan dei Casalesi. Un primo approccio si ebbe attraverso l’imprenditore Giuseppe Diana proprietario della “Diana Gas”, azienda specializzata nella distribuzione di bombole e combustibili operante in Campania, con stretti legami con il boss dei casalesi Michele Zagaria e con la famiglia Schiavone. La proposta portata al presidente biancoceleste Lotito prevedeva la sponsorizzazione della squadra durante le gare europee per un compenso di due milioni di euro. La dirigenza, pur riconoscendo l’offerta come vantaggiosa, decise di rifiutare. Ad insospettire Lotito infatti vi erano due aspetti: un primo dubbio riguardava l’interesse che poteva avere una società operante solo in Campania a sponsorizzare una squadra romana per le sole partite internazionali, ma ancora di più lo allarmò una particolare clausola introdotta da Diana nella trattativa: il pagamento sarebbe avvenuto in contanti.

Il gruppo criminale però, dopo questo rifiuto, non si diede per vinto e contattò Chinaglia, ex bandiera biancoceleste, convincendolo a porsi come volto della cordata che tenterà l’acquisto della società. Contemporaneamente prese contatti con la frangia più calda della tifoseria laziale che, scontenta della gestione del presidente Lotito, iniziò una feroce contestazione alla dirigenza spingendo per un ritorno al vertice della società del mai dimenticato idolo. A guidare la rivolta dei tifosi fu in particolare il gruppo ultras denominato ‘Irriducibili’ guidato da Fabrizio “Diabolik” Piscitelli. L’ultras, ucciso giovedì in un agguato a Roma, fu condannato nel 2015 per aver condotto una campagna intimidatoria verso il presidente biancoceleste per convincerlo a cedere il club. Nel frattempo la cordata iniziò a muoversi prendendo contatti con i vertici della attraverso il paravento di una fantomatica holding farmaceutica ungherese disposta ad acquistare subito la proprietà del club e ad immettere nuovi capitali nel bilancio societario.

I capitali vantati dalla cordata in realtà non erano altro che i proventi delle attività illecite trasferiti all’estero e, una volta ripuliti, fatti rientrare in Italia attraverso istituti bancari Svizzeri, Tedeschi e Ungheresi. Le oscillazioni del titolo in borsa e gli strani movimenti di capitali allarmarono le autorità competenti e a tal punto da rendere necessario il blocco dell’operazione e l’arresto degli attori coinvolti. Chinaglia si dichiarò sempre all’oscuro di questa vicenda e, raggiunto da un mandato di arresto internazionale, morì latitante negli Stati Uniti nel 2012.   L’obiettivo della cordata, in questo caso, non era il profitto ma il potere. L’acquisto di questa squadra non avrebbe certo portato ad ingenti guadagni ma avrebbe aperto le porte dello Stadio Olimpico al clan di Casal di Principe. Ogni domenica, infatti, il cuore della “Tribuna Monte Mario” si popola di figure di spicco, la Roma che conta è riunita per novanta minuti sulle 230 poltroncine della tribuna autorità: parlamentari, ministri, uomini d’affari, imprenditori, persino il Presidente della Repubblica assiste a qualche partita. Avere un posto in quel settore, per di più entrandoci da protagonista, avrebbe assunto un valore incalcolabile per il clan. Non solo un prestigio enorme per i soggetti criminali coinvolti, ma anche e soprattutto una serie di frequentazioni con personaggi difficilmente avvicinabili in altro modo. Se si fosse concretizzato il progetto di Diana il clan avrebbe avuto a disposizione un esercito di potenziali pedine da muovere al momento giusto nel suo complesso gioco criminale.

Pallone Criminale #1: le mafie tra business e conquista sociale

Dalla Juventus al Milan, dal Napoli alla Lazio passando per le serie minori e i club di provincia. I clan hanno allungato i loro mani anche sul mondo del calcio. Si sono silenziosamente infiltrati nelle dirigenze dei club, nelle tifoserie, nella gestione delle scommesse: tutto quello che può portare vantaggi deve essere sfruttato. Il nostro viaggio parte da qui, un analisi introduttiva degli interessi mafiosi che intaccano la più grande passione degli italiani.

Certo non sorprende che le organizzazioni mafiose provino a penetrare un settore così ricco di opportunità. Dal canto suo, il mondo del calcio presenta complessità e debolezze che agevolano l’inserimento di attori criminali. Negli ultimi vent’anni l’importanza economica del calcio è cresciuta a dismisura. Sponsor, diritti televisivi e merchandising garantiscono ai principali club europei milioni di euro ogni anno. Il mercato dei trasferimenti si è globalizzato aumentando la concorrenza e le cifre spese dalle società per acquistare giocatori. Le squadre sono ormai diventate vere e proprie imprese, spesso addirittura quotate in Borsa, esasperando così le implicazioni economiche. È in questo contesto che si evidenziano, però, sempre maggiori difficoltà per i club, costretti a fare i conti con i bilanci della società nel rispetto dei vincoli imposti. Chi non riesce a far quadrare i bilanci incorre in sanzioni fino a rischiare il fallimento e la conseguente scomparsa del club.

A portare nuovi fondi nelle casse di società in difficoltà spesso ci pensano personaggi opachi, prestanome o affiliati dei clan. I presidenti, pur di salvare il club dal baratro, sono pronti ad accettare la liquidità garantita dai nuovi investitori senza farsi domande sulla provenienza. I clan riescono dunque a infiltrarsi nelle società inserendosi così in un mondo che offre loro opportunità importanti dal punto di vista sia economico sia sociale. Sotto il profilo economico le attività delle organizzazioni mafiose sono molteplici. Innanzitutto il riciclaggio: ripulire nell’economia legale i proventi delle attività illecite è una delle maggiori preoccupazioni delle mafie. Non sorprende quindi che sfruttino anche il pallone per farlo. A Corigliano Calabro la squadra locale, la Schiavonea ’97, secondo gli inquirenti era utilizzata, per mascherare le estorsioni ai danni dei commercianti locali. Fabio Barillari, presidente del club, emetteva infatti fatture per operazioni inesistenti che venivano immediatamente pagate dai commercianti locali: I soldi in quel modo risultavano puliti, frutto di sponsorizzazioni e altre operazioni legate al club, ma non venivano reinvestiti per la squadra bensì andavano a ingrossare la cosiddetta “bacinella”, ossia la cassa del clan.    

Dal punto di vista sociale, invece, il calcio rappresenta un mezzo per raggiungere un altro grande obiettivo della criminalità organizzata mafiosa: la costruzione di relazioni di potere e di consenso sociale. Vittorie e promozioni infatti fanno sognare i tifosi e accrescono la popolarità e il supporto ai dirigenti delle squadre. E quando a gestire  queste ultime vi è un soggetto legato ai clan questo può trasformarsi in consenso sociale, e quindi accettazione, aumentando il suo potere criminale. Sui campi di provincia, poi, la passione è altissima. Lontane dai riflettori, senza radio e pay-tv a raccontare le partite, le tribune diventano ogni domenica il fulcro della vita di un intero paese. Mosse dall’attaccamento per i colori della città, centinaia di persone si mobilitano per sostenere la loro squadra. Su quelle gradinate, per novanta minuti, si annulla ogni differenza: sindaci, imprenditori, cittadini e dirigenti formano un unico blocco che soffre e gioisce insieme a ogni azione. Un rito collettivo e ripetuto che crea e consolida un forte senso di appartenenza e identità cittadina. Le mafie hanno colto l’opportunità offerta, comprendendo la centralità di quelle squadre nella vita di paese e trasformandole in strumenti nelle mani dei clan.    

Un caso emblematico è, ad esempio, quello della Mondragonese, club campano militante in serie D e amministrato nei primi anni ‘90 da Renato Pagliuca, reggente del locale clan durante la reclusione del boss Augusto La Torre. Attraverso la gestione della squadra Pagliuca perseguiva un duplice obiettivo: la creazione di un ampio consenso nella comunità e la creazione di relazioni con amministratori e imprenditori. Grazie alla forza economica garantita dal clan Pagliuca riuscì infatti a riaccendere la passione dei tifosi di Mondragone attraverso piani di crescita precisi e un calciomercato stellare culminato con il tentativo di acquisto di Toninho Cerezo, centrocampista brasiliano che con la Roma vinse due Coppe Italia. E mentre i tifosi lo idolatravano come un moderno eroe in grado di realizzare i sogni di un’intera comunità, il suo potere criminale cresceva di domenica in domenica. La sua immagine ripulita diventò così simbolo di vittoria e furono proprio i tifosi i primi a difendere strenuamente la sua autorevolezza da chi provò a far emergere la caratura criminale del soggetto. Ed è proprio grazie a questa sua nuova legittimazione sociale che Pagliuca riuscì ad addentrarsi nei salotti cittadini dai quali sarebbe rimasto altrimenti escluso. Ne approfittò dunque per stringere relazioni con esponenti del mondo politico ed imprenditoriale. E proprio allo stadio Pagliuca riuscì ad “avvicinare” Mario Landolfi, parlamentare casertano e futuro Ministro del Governo Berlusconi nel 2005, al quale avrebbe proposto un consistente aiuto elettorale in cambio dell’intervento sulle vicende giudiziarie di La Torre. La fama e il potere guadagnati con la Mondragonese costarono però caro a Pagliuca che venne ucciso il 14 agosto 1995 su ordine dello stesso La Torre, intimorito dalla sua nuova caratura criminale.  

Altro vantaggio offerto dal mondo del calcio alla criminalità sono le frequentazioni con i giocatori. Sono numerosi i casi di campioni dei nostri campionati fotografati insieme ai boss mafiosi. Iconica è ad esempio l’immagine di Maradona immortalato in una vasca a forma di conchiglia con i boss di Forcella, Carmine e Luigi Giuliano. Ma non è certo un caso isolato. Da Marek Hamsik, capitano del Napoli, immortalato con il latitante Domenico Pagano, al campione del mondo Fabio Cannavaro fotografato a Madrid con un soggetto vicino ai clan, sono molti gli esempi di giocatori ritratti con esponenti della criminalità organizzata. Ma c’è chi si è addirittura spinto oltre, si tratta di Mario Balotelli. Guidato da due esponenti dei clan Lo Russo e degli Scissionisti, l’attaccante bresciano è stato protagonista di un vero e proprio tour della periferia napoletana passando da Scampia e dai quartieri spagnoli. Frequentare mafiosi, farsi fotografare con un boss e addirittura visitare luoghi tristemente noti come feudi dei clan più sanguinosi certamente non è reato. Ma se dal punto di vista giuridico queste frequentazioni non rappresentano un problema, dal punto di vista sociale possono essere estremamente pericolose. Per migliaia di giovani infatti i calciatori sono modelli da seguire, persone a cui ispirarsi. È innegabile che i calciatori abbiano, al giorno d’oggi, un ruolo pubblico che va oltre le loro prestazioni sul campo. Essi dovrebbero quindi apparire come un esempio positivo per i ragazzi che a loro si ispirano nella vita quotidiana. Dovrebbero, insomma, essere ben consci che intrattenere relazioni con capi criminali possa trasmettere un messaggio di accettabilità del potere mafioso.