Tag Archives: Colpo di stato

Gli Stati Uniti e il rischio concreto di una nuova Guerra Civile

Il blitz dell’FBI di settimana scorsa è tornato ad infiammare gli animi dei sostenitori estremisti di Trump, vittima secondo loro di un uso politico della giustizia, facendo di nuovo temere per una crisi sociale e politica che potrebbe sfociare in qualcosa di più grave.

Sono bastati pochi minuti. È bastato che Donald Trump mettesse in rete la notizia della perquisizione della sua residenza a Mar-a-Lago da parte dell’FBI e immediatamente il popolo dei suoi supporter si è mobilitato. Una folla di irriducibili trumpiani si è radunata a Palm Beach davanti alla casa dell’ex presidente, che in quel momento però si trovava a New York, per proteggerlo da quello che a loro modo di vedere è l’ennesimo sopruso. Una valanga di post e commenti hanno invaso i social network: “Questo è un attacco politico orchestrato da Biden”, “Non avremo mai più elezioni libere” o ancora “io ho già comprato le munizioni”. Proprio così, perché bastano pochi minuti perché tra i temrini più cercati su Google finiscano “guerra civile” e “lock and load”, termine utilizzato nel gergo militare per indicare un’arma da fuoco carica e pronta per essere usata. D’altronde è dall’assalto al congresso del 6 gennaio scorso che gli Stati Uniti d’America, la più grande democrazia occidentale, temono quello che sulla carta sembra impensabile ma che nella realtà sembra sempre meno impossibile: una nuova guerra civile.

Se questa volta, dopo la notizia delle perquisizioni a casa di The Donald, la violenza è stata solo minacciata con centinaia di post su social e forum di estrema destra, la sensazione è che la rabbia sociale seminata da Trump dopo la sconfitta elettorale stia continuando a dare i suoi frutti. La sua narrazione di uomo vittima di un uso politico della giustizia volto a toglierlo di mezzo per permettere al solito establishment di governare sta continuando ad infiammare gli animi con la conseguenza che parte dell’opinione pubblica americana prende per vere le parole dell’ex presidente condividendone il rancore verso chi governa. Si è venuta così a creare una crisi di legittimità senza precedenti per cui ogni decisione politica o giudiziaria diversa da quelle auspicate da dai sostenitori dell’ex presidente devono essere considerate come prese per fermare Trump e dunque per scardinare la democrazia a favore dei soliti potenti. E di conseguenza, ogni decisione invisa ai trumpiani potrebbe scatenare ondate di violenza e ribellione come accaduto il 6 gennaio con l’assalto al campidoglio e come ha rischiato di avvenire settimana scorsa dopo le perquisizioni a casa di Trump.

Nel libro “How Civil Wars start” la politologa Barbara F. Walter sostiene che a scatenare le guerre civili tendono ad essere gruppi sociali precedentemente dominanti non più soddisfatti dello stato delle cose che, per ritornare allo status quo precedente, fomentano disordini e violenze istigando gli altri a fare lo stesso. Una definizione che sembra calzare a pennello per tutti quei movimenti estremisti legittimati da Donald Trump durante il suo mandato ed ora ritornati ai margini della società democratica. Le milizie paramilitari di estrema destra, infatti, dopo aver vissuto anni di centralità grazie alla presidenza di The Donald ora sono relegati a un ruolo marginale, osteggiati da istituzioni e forze dell’ordine. Il loro legame con l’ex presidente, che per tutto il suo mandato li ha coccolati e alimentati, sembra indissolubile e gruppi come gli “Oath Keepers” o i “Proud Boy” sembrano adesso disposti a tutto per sostenere la sua causa. La loro causa.

A ciò si aggiunge la stagione caotica in cui si trovano gli Stati Uniti stretti tra vendette incrociate, scollamento tra gli stati con quelli a guida repubblicana che rivendicano il diritto di disubbidire alle disposizioni federali o, addirittura, minacciano la secessione, come hanno appena fatto 13 deputati trumpiani del New Hampshire. Una situazione la cui gravità è stata sottolineata anche in una recente intervista da Noam Chomsky, linguista e più importanti attivista politico statunitense, secondo cui i repubblicani fedeli a Trump avrebbero sfruttato le spaccature sociali e culturali per alimentare una guerra alla democrazia che possa permettere al partito Repubblicano di controllare le prossime elezioni. Si tratta della teoria dello “Slow Motion Coup”, letteralmente “colpo di stato al rallentatore”, sempre più diffusa tra studiosi e intellettuali americani e che sostiene che Trump e i suoi sostenitori stiano già lavorando nell’ombra per tornare al potere nel 2024. Le prove a sostegno di questa tesi sono molte: diversi candidati repubblicani, che ancora negano la sconfitta elettorale di Trump, sono ora in corsa per aggiudicarsi posizioni chiave dalle quali inclinare a proprio piacere l’ago della bilancia nelle prossime elezioni. Non solo: nell’ultimo anno sono stati almeno 19 gli Stati americani a guida repubblicana a varare provvedimenti restrittivi volti a limitare il diritto di voto: ad esempio riducendo le tempistiche per richiedere il voto per corrispondenza o rendendo più complicato l’accesso ai seggi. A fare le spese, sebbene nessun provvedimento legislativo citi direttamente alcuna categoria, sono sicuramente le minoranze razziali, i poveri e gli anziani, così come denunciato dallo stesso presidente Biden.

Gli stati uniti sembrano dunque sempre più sull’orlo di una crisi sociale e politica che potrebbe tramutarsi, nello scenario peggiore, in una vera e propria guerra civile armata fomentata dalle milizie paramilitari di estrema destra. Milizie che ad oggi sarebbero già pronte all’azione, come dimostra la rapida mobilitazione a sostegno di Trump la settimana scorsa, ma che fino ad ora sembrano essersi trattenute in attesa forse di un segnale. Visto come andò con l’assalto al campidoglio il 6 gennaio 2021, però, la domanda sorge spontanea: Cosa accadrebbe se fosse lo stesso Trump a chiedere di iniziare a combattere?

La generazione sbagliata che vuole salvare il Myanmar

Assentire o dissentire è prerogativa di chi vive in un sistema democratico.
In un regime autoritario, dissentire può essere considerato un crimine.

– Aung San Suu Kyi –


Il 1° febbraio i militari arrestano Aung San Suu Kyi e gli altri leader del partito di governo dichiarando lo stato di emergenza. Doveva essere un cambiamento rapido, quasi impercettibile. Un golpe lampo senza ripercussioni sul sistema. Il generale dell’esercito Min Haung Hlain si era subito dato da fare incontrando i rappresentanti del mondo economico e degli affari promettendo stabilità politica e una rapida ripresa economica grazie ad importanti interventi. Ma il generale golpista non aveva fatto i conti con la popolazione birmana. Se i militari si aspettavano una risposta passiva da parte della popolazione, infatti, si sbagliavano. I birmani sono scesi in piazza nel più grande moto di proteste mai visto nel paese. Della stabilità politica promessa non c’è nemmeno l’ombra, della ripresa economica men che meno. E ora la Birmania si trova sempre più in un vortice.

Le proteste – In tutto il paese la risposta al colpo di stato è stata immediata. Milioni di persone in tutta la Birmania sono scese in piazza per dimostrare la loro contrarietà al ritorno di una giunta militare ed il loro supporto alla leader democratica Aung San Suu Kyi. Operai, studenti, attivisti, imprenditori ma anche monaci buddisti. Tutti sono scesi in piazza a testimonianza di come la popolazione sia compatta nel voler dire no a questo regime. A Rangoon, addirittura, tutte le minoranze del paese hanno manifestato pacificamente insieme in una scena di unità che non si era mai vista prima. Si sono organizzati tramite internet e social network, replicando quanto fatto negli anni scorsi dai giovani di Hong Kong, e per venti giorni sono scesi in piazza pacificamente sfidando l’esercito schierato. “Avete fatto arrabbiare la generazione sbagliata” recitava uno slogan scandito dai giovani birmani con tre dita rivolte verso l’alto ad imitare il gesto di “Hunger Games” diventato simbolo delle proteste. Ma poi qualcosa è cambiato.

Il 25 febbraio, per la prima volta, l’esercito ha risposto a quella rabbia. Ma se quella dei manifestanti era una rabbia pacifica e colorata, quella dei militari è stata violenta e spietata. Uomini di diverse legioni, tra cui le unità di controguerriglia utilizzate nel 2016 per la pulizia etnica dei rohingya, hanno iniziato a reprimere ogni tipo di protesta. Una risposta spietata. I lacrimogeni e i manganelli hanno ben presto lasciato spazio ad armi da fuoco e cecchini sui tetti. Internet è stato più volte bloccato per impedire l’organizzazione delle manifestazioni. Le irruzioni negli ospedali per trascinare via o uccidere chi era stato ferito durante le manifestazioni sono diventate sempre più frequenti. Sono oltre 250 le vittime accertate, oltre duemila gli arresti. Ieri il giorno più buio e mentre il regime celebrava la festa delle forze armate la popolazione è stata letteralmente presa di mira: 114 morti in meno di 24 ore. Il più piccolo aveva quattro anni ed era in braccio a suo papà, a casa sua, quando è stato raggiunto da un proiettile sparato attraverso la finestra.

Crisi Umanitaria – E con la popolazione che da quasi due mesi protesta senza sosta, oltre a quella di una stabilità politica, si è infranta anche l’illusione di una ripresa economica. Già prima del golpe militare la Birmania era il paese asiatico più povero con oltre un terzo della popolazione in stato di povertà e la quasi totalità senza la possibilità di richiedere assistenza sanitaria. Oggi, con le proteste che stanno paralizzando il paese, la situazione è sprofondata verso un punto di non ritorno. Le banche sono chiuse, i settori produttivi principali si sono fermati causando un aumento vertiginoso dei beni primari come riso e olio, il settore tessile in cui sono impiegati 1,5 milioni di birmani è in ginocchio. In tutto ciò non è mai partita una campagna vaccinale, i test anti-covid sono sospesi così come le importazioni di farmaci di qualunque genere. L’impennata dell’inflazione sta rendendo sempre più difficile l’approvvigionamento di cibo e beni di prima necessità e presto la crisi politica ed economica si potrebbe trasformare in un’enorme crisi umanitaria con più della metà della popolazione che rischia di trovarsi in uno stato di povertà assoluta.

In questo contesto la risposta dei paesi occidentali è stata blanda e discontinua. L’attenzione mediatica, altissima nei primi giorni post-golpe, si è via via affievolita e la situazione birmana trova ora spazio solo in caso di fatti eclatanti come quello di ieri. Le istituzioni hanno più volte condannato quanto accade nel paese asiatico senza però muoversi in alcun modo. L’unica azione intrapresa finora dall’Unione Europea è stato il ritiro dei visti e il congelamento dei beni ad undici persone coinvolte nel golpe. L’unico paese ad essere attivo in modo significativo è la Cina, preoccupata per gli sviluppi della situazione in un paese che reputa strategico. Così il popolo birmano è abbandonato a sé stesso e si ritrova a combattere da solo la propria battaglia per la democrazia. E ora, sotto il fuoco incessante dei militari, i birmani si trovano ad un bivio: accettare una dittatura senza fine o continuare nella propria rivoluzione fino a quando cambierà qualcosa. La strada intrapresa, per ora, sembra ben chiara. Hanno fatto arrabbiare la generazione sbagliata.