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“Gridava e chiedeva aiuto”. L’ombra di un pestaggio degli agenti dietro la morte in cella di Scalabrin

Si infittisce il mistero dietro la morte Emanuel Scalabrin. Secondo un testimone, interrogato dagli inquirenti, il 33enne fermato per droga e deceduto dopo una notte in cella avrebbe gridato in cerca di aiuto lasciando intendere la possibilità di un pestaggio ad opera degli agenti.

Nessun malore, ne una tragica fatalità. Secondo alcune nuove testimonianze la morte di Emanuel Scalabrin, deceduto in cella ad Albenga dopo un fermo per droga, sarebbe stata causata da un pestaggio ad opera di alcuni agenti. Se fino ad oggi le ricostruzioni non avevano chiarito a pieno le dinamiche che avevano portato alla morte del 33enne lasciando aperte diverse possibilità, le dichiarazioni rilasciate da un testimone interrogato dagli inquirenti che stanno indagando sulla vicenda potrebbero aprire una nuova fase dell’inchiesta. Secondo la testimonianza di Pietro Pelusi, infatti, Scalabrin sarebbe stato vittima di un violento pestaggio.

Fermato anche lui per questioni di droga e portato nel penitenziario di Albenga, Pelusi ha raccontato di aver sentito più volte Emanuel urlare chiedendo aiuto. “A metà pomeriggio” ha raccontato Pelusi “sono stato prelevato dalla mia cella e portato in una sala d’attesa. Mi ero convinto che mi volessero rilasciare. A un certo punto ho sentito delle urla provenire dalla cella di Scalabrin. Diceva: “Aiuto! Aiuto! Basta!”. Non ho visto cosa gli succedeva ma lui chiedeva aiuto”. La testimonianza, tanto delicata quanto scottante, è ora al vaglio delle forze dell’ordine che ne stanno valutando l’affidabilità. Pelusi è infatti un testimone facilmente smontabile in un eventuale contenzioso: tossicodipendente, pluripregiudicato, per di più era stato arrestato con Scalabrin nell’ambito della stessa indagine. Insomma, sarebbe fin troppo facile reputarlo inaffidabile. Ma proprio il suo essere pluripregiudicato lo rende un soggetto attento alle dinamiche e ai rapporti con le forze dell’ordine e dunque ben consapevole di come una falsa accusa di omicidio a un militare potrebbe avere ripercussioni pesantissime su di lui. Ripercussioni che lo avrebbero certamente dissuaso dal testimoniare il falso.

La testimonianza di Pelusi si aggiunge così ad un quadro estremamente confuso e pieno di elementi che non tornano. Verso le 21 Scalabrin si sente male, la dottoressa che lo visita riscontra tachicardia e pressione alta e consiglia “l’accompagnamento al pronto soccorso per somministrazione metadone e monitoraggio delle condizioni cliniche”. I carabinieri lo accompagnano al pronto soccorso ma proprio questo rimane uno dei punti da chiarire della vicenda. Il referto segnala l’ingresso alle 22.57, l’apertura della cartella clinica alle 22.59 e la chiusura della cartella clinica alle 23.02. In soli tre minuti, riferisce il referto, gli vengono somministrati 90 millilitri di metadone e viene sottoposto a “visita pronto soccorso”. Dopo i tre minuti al pronto soccorso, Sclabrin viene riportato nella sua cella intorno alle 23.30. Passano quasi dodici ore e alle 10.30 del mattino seguente i carabinieri che provano a svegliarlo ne constatano la morte. Alle 11.20 il medico certifica il decesso. Sul referto la possibile causa di morte viene indicata in “abuso di sostanze, accertamenti da esperire”. Nei giorni successivi emerge il secondo punto oscuro della vicenda: i tecnici della procura non sono riusciti a recuperare i video di sorveglianza della cella di Scalabrin perché i filmati di quella notte non sono stati salvati sull’hard disk. Nessuna immagine, dunque, di quello che è accaduto quella notte nella cella di Albenga. Rimangono solo le testimonianze e un’autopsia che parla di un “arresto cardiocircolatorio” senza però chiarire i dubbi intorno ad una vicenda opaca.

“Anche se si è trattato di una morte naturale, bisognerebbe capire che cosa ha originato il decesso e se c’è qualcosa di innaturale che lo ha provocato” aveva commentato l’avvocato della famiglia di Scalabrin chiedendo chiarezza sulla vicenda. Chiarezza che a distanza di quasi due mesi dal decesso, ancora non è stata fatta. Sono anzi aumentati i dubbi e resta costante una domanda: cosa è successo ad Emanuel Scalabrin?

Fermato per droga muore in caserma: dubbi e sospetti in Liguria

Ancora troppi gli elementi da chiarire intorno alla morte di Emanuel Scalabrin, il 33enne di Albenga fermato la sera del 4 dicembre e trovato morto nella cella della caserma dei carabinieri la mattina dopo. L’autopsia esclude segni di violenza ma troppe domande sono ancora senza risposta.

Non presenterebbe segni di violenza e secondo il medico legale la causa della morte sarebbe un arresto cardiaco. Ma attorno alla morte di Emanuel Scalabrin, 33enne deceduto mentre si trovava in una cella della stazione dei carabinieri di Albenga, rimane un alone di mistero e parecchi dubbi. Arrestato per droga il 4 dicembre è deceduto durante la notte ed il suo corpo senza vita è stato ritrovato dai militari il mattino seguente. Ma i risultati dell’autopsia, resi noti in questi giorni, non hanno placato le richieste di verità dei familiari e della Comunità San Benedetto che ha inviato una interrogazione al ministro dell’Interno Lamorgese.

La vicenda ha inizio nel pomeriggio del 4 dicembre quando, in quello che sembra un vero e proprio blitz, quattro agenti fanno irruzione nell’appartamento dove Scalabrin viveva con la moglie Giulia e il figlio di nove anni. Secondo il racconto della donna, Emanuel avrebbe aperto la porta d’ingresso per andare a controllare il contatore dopo che la corrente era saltata all’improvviso e senza un apparente motivo. Davanti a sé sulla soglia ha però trovato i militari in borghese che lo avrebbero fatto rientrare e per perquisire la casa dove hanno rinvenuto dosi di cocaina e hashish. Le fasi dell’arresto sarebbero durate circa mezzora anche a causa delle resistenze di Scalabrin che si sarebbe dimenato nel tentativo di non farsi ammanettare. Spinto sul letto è stato immobilizzato per alcuni minuti, ammanettato e portato via. Una volta arrivato in caserma, però, Emanuel inizia a sentirsi male. La pressione sale (175 su 95) e inizia ad avere attacchi di tachicardia con una frequenza cardiaca di 107. Trasportato in ospedale, arriva al pronto soccorso di Pietra Ligure alle 22.59 e ne esce alle 23.02. Nemmeno cinque minuti in cui, secondo le prime ricostruzioni, gli sarebbe stato somministrato del metadone. Alle 23.30 è di nuovo nella cella della stazione dei carabinieri di Albenga da dove, la mattina seguente avrebbe dovuto essere trasferito nel carcere di Genova. Nel capoluogo ligure, però, Emanuel non ci è mai arrivato. Il mattino dopo, alle 11.40, i militari incaricati del trasferimento lo ritrovano a terra senza vita.

Sulla dinamica e su eventuali responsabilità dei militari ora indaga la procura di Savona, ma alcuni interrogativi sorgono spontanei. Dubbi che non riguardano tanto le fasi dell’arresto, seppur concitate, quanto le tempistiche relative ai soccorsi. Se l’autopsia sembra infatti aver escluso l’ipotesi di un pestaggio, rimane da capire come sia possibile che il corpo senza vita di un soggetto che dovrebbe essere costantemente sorvegliato, a maggior ragione dopo le sue resistenze e dopo il malore della sera prima, possa essere ritrovato solamente alle 11.40 del mattino seguente. Un orario che, secondo la famiglia della vittima, risulta essere particolarmente sospetto e incompatibile con la vita di una caserma dove, solitamente, i detenuti vengono svegliati ore prima di un trasferimento. Altro particolare che risulta poco chiaro è quello relativo alle telecamere di sicurezza presenti nella cella dove Emanuel ha perso la vita. I militari di turno quella notte hanno infatti affermato di averlo sorvegliato costantemente dai monitor della sala controllo ma quando la ditta specializzata ha cercato di recuperare le registrazioni per consegnarle agli inquirenti ha fatto l’ennesima strana scoperta della vicenda: l’hard disk era sparito portando con sé ogni traccia dei video di quella notte.

Incongruenze e dubbi che alimentano i sospetti della famiglia e della Comunità di San Benedetto, da sempre vicina ai detenuti e subito in prima fila per chiedere verità sul caso. Perché il corpo senza vita è stato trovato solo il mattino seguente? Dove sono finite le registrazioni? E soprattutto perché, se è vero che è stato sorvegliato tutta la notte, nessuno ha chiamato i soccorsi? Le domande senza risposta sono ancora molte. A scoprire il perché e ad accertarne le responsabilità ci penseranno i magistrati. Intanto Emanuel, però, non c’è più.