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L’eredità di Bill Russell, la leggenda NBA pioniere dei diritti civili

Il 1 agosto è morto a 88 anni Bill Russell, iconico giocatore NBA in grado di rivoluzionare la pallacanestro americana. Ma la sua eredità più che alle sue gesta sportive sarà per sempre legata al suo impegno quotidiano contro il razzismo in un contesto ben diverso da quello odierno

Da ora in poi nessun giocatore della NBA, il massimo campionato di basket americano, potrà mai più indossare una canotta con il numero 6. È questo l’omaggio della lega alla stella dei Boston Celtics Bill Russell scomparso a 88 anni il 1 agosto il cui nome rimarrà così per sempre legato al numero che ha indossato nelle tredici stagioni da professionista. Una decisione senza precedenti con cui la NBA vuole celebrare la memoria di un giocatore che ha rivoluzionato il gioco ma non solo.

La grandezza del Bill Russell giocatore è probabilmente nota ai più, anche a chi di pallacanestro capisce poco o nulla. Dopo l’oro olimpico vinto a Melbourne nel 1956, quando ancora non potevano essere convocati giocatori professionisti, Russell si dichiarò elegibile per il Draft e venne chiamato con la seconda scelta da Atlanta che lo girò immediatamente ai Boston Celtics in cambio di Hagan e Macauley. Da quel momento iniziò una carriera formidabile che lo ha reso una leggenda del basket: 11 titoli NBA vinti in 13 stagioni, cinque volte MVP della lega, 12 volte selezionato per l’All-Star Game. Tra il 1966 e il 1968 ha ricoperto anche il ruolo di allenatore dei Boston Celtics diventando così il primo allenatore afroamericano nella storia della NBA e vincendo due titoli da giocatore-allenatore. Con la sua suprema abilità atletica, la sua abilità difensiva e l’implacabile propensione a vincere Bill Russell ha rivoluzionato il gioco della pallacanestro tanto da essere considerato, fino all’arrivo di Michael Jordan, il più forte giocatore della storia di questo sport. “Pensava che qualsiasi squadra in cui giocasse dovesse vincere ogni singola partita”, ha detto il compagno di squadra dei Celtics di Russell Tom “Satch” Sanders. “Quindi quel tipo di mentalità ha permeato l’intera squadra. Questo è stato il dono di Bill Russell”.

Ma l’eredità di Bill Russell non è solo sportiva, anzi. Attivista per i diritti civili, Bill Russell è stato il primo atleta ad esporsi utilizzando la sua fama e per denunciare episodi di razzismo e battersi per una società più giusta. Se nell’epoca del Black Lives Matters siamo ormai abituati ad atleti che utilizzano la loro popolarità per lanciare messaggi politici e sociali, negli Stati Uniti degli anni ‘50 e ’60 le posizioni di Russell erano viste come qualcosa di inimmaginabile. Nato nel 1934 a Monroe, in Louisiana, ha dovuto affrontare sin dall’infanzia il problema del razzismo vivendo i primi dieci anni della sua vita in un contesto caratterizzato da una forte segregazione razziale e proprio dalla sua infanzia ha preso la forza per combattere per tutta la vita per i diritti degli afroamericani. Nel 1961 organizzò una protesta che coinvolse decine di giocator NBA dopo che ai giocatori neri dei Boston Celtics fu rifiutato il servizio nella caffetteria dell’hotel di Phoenix dove alloggiavano per una partita. Nei primi anni ’60 lavorò a stretto contatto con Martin Luther King ma quando il compagno di battaglie gli chiese di salire sul palco insieme a lui il 28 agosto 1963 al termine della “Marcia su Washington” Russell rifiutò. Non voleva rubare la scena a Martin Luther King, che da quel palco avrebbe pronunciato il suo storico discorso “I have a dream”, e a chi aveva lavorato giorno e notte per organizzare quella marcia. “Mi basta un posto in prima fila per assistere al tuo discorso” gli rispose. E così fu.

Con il suo instancabile lavoro per una società più giusta, sempre condotto all’ombra dei riflettori, Bill Russell è diventato pioniere dei diritti civili negli Stati Uniti. Non ha mai piegato la testa e non è mai indietreggiato, nemmeno davanti minacce e violenze razziste nei suoi confronti e nei confronti della sua famiglia. Nemmeno quando nel 1960 un gruppo di razzisti fece irruzzione in casa sua rompendo tutto ciò che trovava e scrivendo con una bomboletta “negro” sui muri. Ma i un’esitazione, mai un dubbio su quale fosse la parte giusta. Su quali fossero i valori per cui lottare. “Un altro uomo nero è stato aggiunto alla lista delle migliaia di neri uccisi dalla brutalità della polizia, l’ennesima vita rubata da un paese spezzato da pregiudizi e fanatismo.” Aveva detto commentando la morte di George Floyd nel maggio 2020 “Quando ero bambino, ho imparato a scappare dalla polizia perché ti arrestavano, o ti prendevano a calci, o ti uccidevano se fossi nero.” E proprio in occasione della morte di Floyd è emersa, in modo dirompente, l’eredità di Bill Russell. La sua lotta per una società più giusta a partire dallo sport ha influenzato in modo significativo la battaglia del movimento Black Lives Matter spingendo gli atleti ad esporsi in prima persona per rivendicare il loro orgoglio. “Grazie a te, oggi va bene essere un attivista e un atleta”, ha detto la guardia dei Celtics Jaylen Brown in un recente video tributo a Russell. “Grazie a te, bambini di colore possono sognare di essere vincenti. Grazie a te, oggi va bene essere più di un semplice giocatore di basket. Grazie a te, sono orgoglioso di essere un giocatore dei Celtics”.

Questa è l’eredità di Bill Russell, eterno numero 6. 

“Permettetemi di ricordarvi quella promessa non mantenuta. Quella promessa contenuta nella nostra Dichiarazione di Indipendenza: «Tutti gli uomini sono uguali e sono dotati di diritti inalienabili come il diritto alla Vita, alla Libertà e alla ricerca della felicità». Ho atteso per tutta la mia vita che l’America fosse all’altezza di quella promessa ma in America l’uccisione sistematica di persone di colore continua a non essere nulla di fuori dall’ordinario. Non vedo l’ora che questi strani giorni possano essere per sempre alle nostre spalle e che un cambiamento reale e duraturo si possa finalmente realizzare”

La lezione di Genova a vent’anni dal massacro

“E allora tu non puoi dimenticare
il soffio del respiro soffocato
l’idea di resistenza e ribellione
e del suo fiore che hanno calpestato”


A Genova, tra il 19 e 21 luglio 2001, andò in scena “la più grave sospensione dei diritti umani in Europa dopo la Seconda Guerra Mondiale”. Parlare di quello che accadde in quei quattro, drammatici giorni, significa fare memoria di un movimento represso come mai si era visto fare nella storia democratica del nostro paese. Un movimento, mosso dall’utopia di un mondo fatto di pace e uguaglianza, radunato dietro uno slogan semplice quanto potente: “Voi G8, noi 6.000.000.000”. Uno slogan che gridava al mondo l’indignazione per quel manipolo di 8 capi di stato riunito nel capoluogo ligure per decidere il destino di 6 miliardi di persone.

Il movimento – Spesso quando si parla di Genova e di quei giorni maledetti si riduce tutto a due parole: No Global. Erano stati etichettati così i movimenti che in quegli anni avevano deciso di battersi per un mondo più equo e senza guerre, contro il FMI che elargiva prestiti a tassi altissimi ai paesi in via di sviluppo, contro la Banca Mondiale che sosteneva una sanità privata a scapito di quella pubblica, contro l’Organizzazione mondiale del commercio (Omc) che impediva ai Paesi africani di proteggere attraverso i dazi le proprie colture, ma permetteva all’Unione europea di sostenere con ingenti sussidi le grandi multinazionali europee del settore agricolo. Tutto ridotto dai media in due parole: No Global. Contro la globalizzazione e, di conseguenza, contro il progresso. Un movimento che per questo era ritenuto pericoloso e da fermare e che per questo fu represso sin dalle origini: Seattle nel 1999 dove nacque; Praga, settembre 2000, in occasione del meeting di Fmi e Bm; Napoli, marzo 2001, durante il Global forum; Goteborg, giugno 2001, dov’era in corso un vertice Ue. E infine Genova, luglio 2001, il momento più buio e la fine di quel movimento.

Ma anche se per anni, e spesso ancora oggi, si è cercato di ridurre il tutto a quella dicitura la realtà era profondamente diversa. A Genova nel 2000 venne inaugurato il “Genoa Social Forum” una rete di 1300 realtà provenienti da tutto il mondo che per un anno ha lavorato ininterrottamente per pensare un mondo nuovo slegato da quelle logiche che sembravano imprescindibili. Non un rifiuto totale alla globalizzazione ma un rifiuto a una globalizzazione che lascia indietro gli ultimi e dà poco a tanti per dare tanto ai pochi. La consapevolezza di quanto fosse complicato cambiare la realtà quando ci si scontra con istituzioni finanziarie e politiche che dispongono di poteri immensi, unita alla necessità di evitare un confronto che era stato integralmente trasferito sul terreno della repressione, della delegittimazione mediatica e delle aule dei tribunali, indusse negli anni molte realtà del movimento a tornare nel proprio specifico ambito d’impegno. Il movimento dopo Genova iniziò a morire ma quegli ideali rimangono vivi.

I fatti – Quello che accadde nel capoluogo ligure tra il 19 e il 21 luglio, poi, è cosa ben nota. Dopo mesi di terrorismo mediatico, con i principali quotidiani italiani che alzarono la tensione all’inverosimile. Il Corriere della Sera in un articolo del 20 maggio parla di manifestanti finanziati da Osama Bin Laden e in possesso di armi non convenzionali. Il 23 giugno Repubblica, riportando fonti del SISDE, descrisse uno scenario secondo cui i manifestanti sarebbero stati pronti a rapire agenti di polizia e carabinieri ed usarli come scudi umani. La città venne blindata per resistere a quello che, stando ai proclami di media e politici, sarebbe stato uno scenario da guerra. Reti alte cinque metri delimitavano il centro cittadino e la cosiddetta “Zona Rossa” inaccessibile a tutti se non residenti. Batterie antiaeree e antimissili vennero disposte in varie zone della città mentre lo spazio aereo su Genova venne chiuso per evitare attacchi da parte dei manifestanti che, sempre stando a quanto lasciato trapelare dai servizi segreti, sarebbero stati pronti a usare droni per sganciare sacche di sangue infetto procurato da non meglio precisati manifestanti tedeschi su obiettivi sensibili.

Quello che accadde, come ben sappiamo, fu l’esatto opposto. Manifestanti pacifici, se non per un centinaio di blac block pesantemente infiltrati dalle forze dell’ordine italiane, vennero caricati e massacrati per due giorni da polizia e carabinieri. Un precipitare di eventi che portò, dopo una prima manifestazione pacifica cui presero parte il 19 luglio 2001 circa 50mila persone, a iniziative diffuse in città e a un secondo corteo il 20 luglio, seguito da un terzo il 21 luglio, tutti caricati e repressi anche lungo il percorso autorizzato. Tre i momenti che per sempre segneranno la storia del nostro paese. La morte di Carlo Giuliani, ragazzo di 23 anni ucciso con un colpo di pistola dal carabiniere Mario Placanica alle 17.27 del 20 luglio in piazza Alimonda. La “macelleria messicana” della scuola Diaz con centinaia di studenti disarmati e con le braccia alzate pestati selvaggiamente dalle forze dell’ordine. L’orrore di Bolzaneto e quelle torture subite dai manifestanti presi in custodia da uomini dello stato che avrebbero dovuto tutelarli.

L’eredità – Troppo spesso in questi anni si è parlato del G8 di Genova solo con riferimento alle violenze e agli scontri. Troppo spesso si è dimenticato che a Genova in quei giorni scendeva in strada il “movimento dei movimenti”. Sotto i colpi dei manganelli finì quella galassia altromondista mossa da ideali così all’avanguardia da essere attuali anche vent’anni dopo. Puntare i riflettori sulle violenze e non sui contenuti ha fornito ai governi un alibi perfetta per sorvolare su quei problemi, reali e urgenti, sollevati dalle centinaia di migliaia di persone scese in piazza in quei giorni. C’era l’idea di un mondo senza frontiere e senza razzismo, promossa dal corteo dei migranti che aprì quei giorni di lotta il 19 luglio 2001, che oggi sta alla base del movimento Black Lives Matter. C’era il tema del femminismo e le prime lotte per i diritti omosessuali. C’era il tema dell’ambiente e, addirittura, c’era già un sentore della gravità dei cambiamenti climatici come testimoniano le parole di Walden Ballo intervenuto in quei giorni a Genova: “la crisi è relativa al capitalismo e alla sua tendenza a trasformare ogni risorsa in un prodotto da vendere, un sistema antitetico all’interesse della biosfera. La crisi dei cambiamenti climatici si è acuita drasticamente e la contrapposizione tra economia capitalista ed ecologia è evidente”. C’era in quei giorni e in quella generazione una voglia, non di anti-politica come qualcuno ha interpretato, ma di una politica nuova. Una politica fatta di ideali e che puntasse al miglioramento della società attraverso il riconoscimento dei diritti e dell’altro. 

In quei giorni nelle piazze di Genova c’era la ricetta per anticipare le più grandi crisi di questi anni.
A Genova in quei giorni c’era già tutto. Ma tutto quello che c’era è stato coperto di sangue.