Monthly Archives: aprile 2022

25 Aprile: storia della “Banda Mario” e di come gli africani si unirono alla Resistenza

La storia della “Banda Mario” e dei partigiani africani fuggiti dalla Mostra dei Territori d’Oltremare per combattere insieme alla resistenza in un battaglione internazionale. Cadendo in battaglia o nelle rappresaglie naziste per la libertà di un paese diverso dal loro. 

Il suo nome di battaglia era Carletto. Un nomignolo affettuoso scelto da compagni e cittadini comuni per via della sua corporatura esile e della sua statura minuta. D’altronde il suo vero nome, Abbabulgù Abbamagal, era al contempo troppo difficile da ricordare e troppo semplice da identificare. Troppo difficile per i compagni e i fiancheggiatori che nelle campagne marchigiane nascondevano i partigiani per salvarli dai rastrellamenti della Wehrmacht. Troppo facile per i tedeschi che un nome del genere lo avrebbero riconosciuto in qualsiasi conversazione. Così, Abbabulgù Abbamagal, divenne Carletto e con quel nome convisse fino al 24 novembre 1943 quando venne ucciso da alcuni soldati tedeschi ad un posto di blocco. “Nato ad Addis Abeba, morto sul Monte San Vicino.” Si legge sulla sua lapide nel cimitero di San Severino Marche “Etiope partigiano del ‘Battaglione Mario’. Insieme ad altri uomini e donne provenienti da tutto il mondo, caduto per la libertà d’Italia e d’Europa”.

Uomini e donne provenienti da tutto il mondo. Perché la resistenza italiana, anche se spesso viene dimenticato in un paese fondato sulla rimozione del passato coloniale, non è stata una guerra combattuta solo da italiani antifascisti. Tra le foto dell’epoca spesso capita di trovarne alcune in cui posano tutti insieme: italiani, croati, serbi, inglesi ma anche e soprattutto somali, eritrei ed etiopi. E furono proprio loro, gli africani provenienti dalle colonie italiane, a rendersi protagonisti della guerra di Liberazione nelle Marche. Si tratta della cosiddetta “Banda Mario”, uno dei primi gruppi della resistenza marchigiana, operante alle pendici del Monte San Vicino, tra San Severino e Matelica, sotto la guida dell’ex prigioniero istriano Mario Depangher. L’origine della brigata, però, va ricercata ben prima dell’inizio della resistenza italiana e addirittura nel 1940 quando per volontà di Mussolini un centinaio di donne e uomini provenienti dalle colonie vennero portati a Napoli per la “Mostra delle Terre Italiane d’Oltremare” ideata dal regime fascista per dare lustro alla propria immagine di potenza coloniale e in un certo senso lavare l’onta subita all’esposizione di Parigi del 1931, a cui l’Italia aveva partecipato senza potere però esibire la sua supremazia nel Corno d’Africa. Un vero e proprio zoo umano che, per fortuna, ebbe vita breve e venne smantellato pochi mesi dopo l’inaugurazione a causa dell’ingresso in guerra dell’Italia a cui seguì, nel 1943 lo spostamento di tutti gli africani come prigionieri a Villa Spada, nell’entroterra marchigiano.

E proprio nelle Marche, dunque, prenderà vita la prima banda partigiana internazionale. Dopo la firma dell’armistizio tre etiopi, Abbagirù Abbauagi, Scifarrà Abbadicà e Addisà Agà, fuggirono da villa Spada e percorsero oltre 30 chilometri a piedi per unirsi alla brigata partigiana più vicina: la “Banda Mario”, appunto. L’arrivo dei tre etiopi diede un nuovo slancio al gruppo che, grazie alle informazioni ottenute dai nuovi arrivati, organizzò un assedio a Villa spada che non solo permise ai partigiani di guadagnare fucili, mitragliatori e bombe a mano custodite nell’armeria della villa divenuta prigione, ma portò alla liberazione dei prigionieri africani molti dei quali si unirono immediatamente al gruppo. Così, intorno alla fine di ottobre, la “banda Mario” poteva contare sulla presenza di almeno una decina di africani provenienti dalle colonie e sfuggiti alla prigionia nazifascista. Delle imprese partigiane degli africani del battaglione Mario non si sa molto. Certo è che presero parte a tutte le rappresaglie del gruppo che per dieci mesi fu uno dei più attivi nell’entroterra maceratese. Tra queste anche la battaglia di Valdiola, tra il 23 e il 24 marzo 1944 quando, quasi accerchiati da centinaia di tedeschi e fascisti, i partigiani riuscirono ad evitare la dispersione del gruppo continuando i sabotaggi al nemico.

“Per tutti loro l’ingresso nella resistenza non va letto come un calcolo utilitaristico. Pur nella cornice data dalla legislazione razziale e le richiamate restrizioni sulla circolazione, fino ad allora somali, eritrei ed etiopi avevano vissuto in una condizione di semilibertà”, osserva lo storico Matteo Petracci, che ha ricostruito la vicenda in diversi studi. Non avevano insomma la necessità di schierarsi. Non rischiavano la deportazione, non erano prigionieri di guerra. Avrebbero potuto aspettare il passaggio degli alleati per tornare a casa. E molti di loro, in particolare quelli che avevano bambini piccoli, in effetti fecero così. Chi rimase a combattere, insomma, lo fece per scelta. Lo fece perché aveva conosciuto l’orrore del fascismo, in patria prima ed in Italia poi, e non voleva che capitasse a nessun altro.Per i dieci partigiani neri della “Banda Mario”, il minimo che possiamo fare oggi è ricordarne il nome: erano Mohamed Raghe, Thur Nur, Macamud Abbasimbo, Bulgiù Abbabuscen, Cassa Albite, tale “Gemma fu Elmi”, Abbagirù Abbauagi, Scifarrà Abbadicà e Addisà Agà e Abbabulgù “Carletto” Abbamagal. Perché il loro esempio e le loro storie non vadano perdute.

Quattro attentati e una nuova ondata di repressione. Cosa sta succedendo in Israele?

I quattro attacchi in quattro diverse città israeliane tra il 22 marzo e il 9 aprile rappresentano la più letale ondata di violenza dal 2016 ad oggi con quattordici vittime. Ma la situazione sembra essere più complicata di come sembra e non si può ridurre all’eterno conflitto tra Israele e Palestina.

L’attuale ondata di attacchi terroristici in Israele è stata inquadrata da partiti palestinesi e gruppi militanti come una logica conseguenza del radicamento dei 55 anni di occupazione israeliana della Cisgiordania, del controllo israeliano su siti religiosi sensibili a Gerusalemme e della diminuzione dell’impegno di alcuni leader arabi chiave per la creazione di uno stato palestinese. Ma la situazione appare essere più complessa e non riconducibile esclusivamente alle rivendicazioni dei grandi gruppi palestinesi su Israele.

Gli ultimi due attacchi, che hanno provocato un totale di sette vittime a Tel Aviv e Bnei Brak, sono stati condotti da palestinesi provenienti da territori occupati della Cisgiordania ma gli attentati non sono stati rivendicati ufficialmente da nessun gruppo politico palestinese e, pur elogiandone l’azione, hanno negato ogni legame con gli attentatori. Ancor più complesso il quadro dei primi due attacchi, effettuati da tre membri della minoranza araba israeliana che negli ultimi mesi si erano radicalizzati ed erano ritenuti vicino all’ISIS, che ha prontamente rivendicato l’attacco. Non sembra dunque emergere una regia comune dietro gli attacchi che ad oggi appaiono più come i gesti estremi di soggetti radicalizzati senza spinte di gruppi o movimenti politici. Attacchi come quelli delle ultime settimane, anzi, sembrano essere inutili per la causa palestinese e la reazione della popolazione della Cisgiordania con la mancata rivendicazione degli attacchi sembrano indicare proprio la consapevolezza della scarsa utilità di questi atti terroristici. Ogni palestinese ha senza dubbio molti motivi per desiderare che gli israeliani provino dolore perché nella loro visione sono tutti, e non solo il loro governo, responsabili della drammatica situazione dei palestinesi. E probabilmente proprio da qui nasce il desiderio degli attentatori di colpire quanti più israeliani possibili. Ma la maggior parte dei palestinesi si discosta da questo pensiero e sa che gli attacchi di singoli individui spinti dalla disperazione o dalla vendetta non sono mai serviti, non servono e non serviranno a ottenere niente. Non cambieranno l’equilibrio di potere.

Ed è per questo che, pur comprendendo e talvolta condividendo le motivazioni degli attentatori, la maggior parte dei palestinesi resta indifferente agli attacchi e non si registrano particolari tentativi di seguire quella strada da parte di una fetta più ampia della popolazione. E non perché sarebbe impossibile. Migliaia di palestinesi senza un permesso di lavoro entrano ogni giorno in Israele attraverso le numerose brecce nella barriera di separazione. Succede da anni, e polizia ed esercito ne sono al corrente. Come tutti sanno, tra i palestinesi in Israele e in Cisgiordania c’è abbondanza di armi e munizioni. Quindi si sarebbero potuti verificare molti più attacchi individuali che non sarebbero potuti essere sventati in anticipo. Tutti i palestinesi avrebbero buoni motivi per desiderare d’incrinare la falsa normalità dei cittadini israeliani, che per lo più ignorano il fatto che il loro stato agisce instancabilmente, giorno e notte, per spogliare un numero sempre maggiore di palestinesi delle loro terre e dei loro storici diritti collettivi in quanto popolo e società. Ma non lo fanno perché lo reputano inutile per la causa se non addirittura dannoso.

Nonostante il tradizionale sostegno emotivo per la resistenza armata, la maggioranza sa che per il momento, anche se questa lotta riprendesse in modo strutturato e ampio e anche se fosse pianificata meglio rispetto quanto avvenuto nella seconda intifada, non potrebbe sconfiggere Israele né migliorare la sorte dei palestinesi. La falsa normalità di Israele, certo, in qualche modo si è incrinata. Pur non essendoci un collegamento diretto tra gli attentati e la popolazione palestinese, infatti, Israele ha colto l’occasione per intensificare la propria repressione nei territori occupati in Cisgiordania con una serie di rappresaglie anche simboliche, come l’abbattimento di ulivi e il danneggiamento di case e auto palestinesi. Giovedì 31 marzo almeno due palestinesi sono rimasti uccisi durante un raid nel campo profughi di Jenin, un terzo su di un autobus. Il 30 marzo due fratelli palestinesi, accusati dai poliziotti israeliani di star preparando un attentato, sono stati arrestati nella Gerusalemme ovest dopo che la polizia ha sparato loro alle gambe. I media palestinesi denunciano decine di arresti tra la popolazione. Come se non bastasse, in seguito agli attacchi, il primo ministro israeliano Naftali Bennett si è rivolto alla popolazione con un video nel quale ha affermato “Cosa ci si aspetta da voi cittadini israeliani? Vigilanza e responsabilità. A chi ha il porto d’armi dico che questo è il momento di tenere sempre le armi a portata di mano”. Un netto incitamento alla violenza accompagnato da una militarizzazione totale delle strade con oltre un migliaio di soldati schierati nelle città pronti a colpire la popolazione palestinese. Una reazione che, però, non sembra avere degli obiettivi specifici ma appare più come una ritorsione. Una violenza estrema contro obiettivi casuali che possa agire da deterrente per chiunque volesse provare ad imitare gli attentatori delle ultime settimane.