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Verso il voto: cosa dicono i programmi dei partiti sul contrasto alle mafie

In vista del voto del 25 settembre abbiamo analizzato i programmi dei quattro principali schieramenti politici per verificare se e come il contrasto alla criminalità organizzata venga trattato dai partiti che compongono i cosiddetti quattro poli. 

“Dignità è un Paese libero dalle mafie, dal ricatto della criminalità, libero anche dalla complicità di chi fa finta di non vedere.” Era il 3 febbraio quando, davanti al Parlamento che lo aveva appena rieletto, il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella pronunciava queste parole. Non aveva fatto in tempo nemmeno a finire la frase che dai banchi del parlamento senatori e deputati si erano alzati ad applaudire quell’affermazione. Per quasi venti secondi, applausi bipartisan avevano incorniciato quella frase costringendo il Presidente Mattarella a fermarsi e osservare quel pieno sostegno alla propria affermazione. Sei mesi dopo, però, quella simbolica presa di impegno sembra essere svanita nel nulla con programmi elettorali in cui la parola mafia fatica a comparire mentre il tema del contrasto alla criminalità organizzata trova sempre meno spazio.

Centrosinistra (PD, Verdi-Sinistra Italiana, Impegno Civico, +Europa) – Il centrosinistra sembra essere la coalizione che, almeno da programma, presta maggior attenzione al tema delle mafie. Il Partito Democratico indica nel proprio programma la volontà di “costruire una nuova cultura della legalità, che faccia della lotta alle mafie e alla criminalità organizzata una priorità”. Il PD sottolinea l’urgenza di un “piano nazionale contro le mafie che definisca obiettivi condivisi per tutte le amministrazioni dello stato per accompagnare la nuova stagione di investimenti pubblici”. Un riferimento implicito ai soldi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza che viene esplicitato in un passaggio successivo in cui si ribadisce l’importanza di “vigilare affinché i fondi del PNRR ed in particolare gli appalti ad essi legati siano tenuti al riparo dai rischi di infiltrazione mafiosa”. A ciò si aggiunge la volontà, espressa come vedremo da più parti, di riformare la legge sullo scioglimento dei comuni per rafforzare il contrasto alle infiltrazioni mafiose nella pubblica amministrazione. Proposte certo condivisibili ma prive di qualsiasi indicazione sui tempi e i metodi per attuarle al punto da farle sembrare slogan più che reali impegni. Unico passaggio “concreto” sul tema nel programma del Partito Democratico è la proposta di legalizzare l’autoproduzione di cannabis per uso personale vista come un tassello importante “nell’ambito delle politiche di contrasto alle mafie”. Un tema, quello della legalizzazione e regolamentazione della cannabis che condivide anche +Europa che l’unica volta che cita la parola “mafia” nel proprio programma lo fa proprio per sottolineare come una regolamentazione della cannabis in Italia aiuterebbe nel “contrasto ai profitti delle narco-mafie”.

Decisamente più articolato e concreto il programma sul tema di Verdi e Sinistra Italiana. L’alleanza rossoverde dedica ampio spazio al tema nel suo programma, anche se penultimo tra i punti programmatici, individuando anche alcune proposte concrete da attuare in caso di governo di centrosinistra. Anche in questo caso, in linea con quanto proposto dagli alleati, si ha una netta apertura alla legalizzazione delle droghe leggere come strumento di contrasto alla criminalità organizzata. A ciò si aggiunge la volontà di “affermare sempre più la legalità attraverso processi formativi ed educativi e prima ancora che per la propria sicurezza, per la propria dignità e per poter affermare la nostra libertà” e di facilitare le procedure per il riutilizzo sociale dei beni confiscati ai mafiosi. Rispetto agli alleati, e coerentemente con la natura dell’alleanza, Verdi e Sinistra Italiana affrontano poi nel dettaglio il contrasto alle cosiddette ecomafie con un elenco di venti proposte volte a ostacolare il fenomeno. A livello normativo si segnala la volontà di aggiornare la normativa sul piano cave, teatro da sempre di sversamenti e tombamento di rifiuti, e “un rafforzamento delle misure cautelari del sequestro preventivo e della confisca” oltre all’inserimento dei reati ambientali nel novero di quei delitti per cui non scatta l’improcedibilità. Tra gli altri punti importanti appaiono quello relativo all’attivazione di un sistema di tracciamento GPS dei rifiuti, già previsto per legge ma mai realmente attivato, oltre a una mappatura di impianti autorizzati allo smaltimento e di aree dismesse potenzialmente a rischio perché utilizzabili per stoccare illegalmente rifiuti.

Il programma di centrosinistra, come vedremo, è quello che dedica maggior spazio al tema. In linea con quanto visto per le questioni ambientali, però, ancora una volta le proposte appaiono essere fumose e poco concrete ad eccezione del programma dell’alleanza rossoverde, unica realtà in grado di mettere nero su bianco proposte concrete per il contrasto ad un fenomeno specifico come quello delle ecomafie.

Centrodestra (Fratelli d’Italia, Lega, Forza Italia, Noi Moderati) – “Lotta alle mafie e al terrorismo”. È questo l’unico passaggio sul tema nel programma comune della coalizione di centrodestra. Una singola frase all’interno del capitolo dedicato a “sicurezza e contrasto all’immigrazione illegale” senza alcun approfondimento o proposta concreta. Una situazione che ricalca quanto si verifica anche nei singoli partiti con, ad esempio, Fratelli d’Italia che nel suo “programma per risollevare l’Italia” nel capitolo dedicato a sicurezza e immigrazione parla genericamente di “lotta senza tregua a tutte le mafie, al terrorismo e alla corruzione”. Lo stesso avviene nel programma di Forza Italia in cui si parla di una generica “riforma degli strumenti di lotta alle mafie per conferire loro maggior efficacia”.

All’interno della coalizione il partito che dedica maggior spazio al tema, anche se in modo schematico e a nostro parere confuso, è la Lega che dedica due slide nel proprio “programma di governo” al tema del contrasto alle mafie. Tra le proposte emerge la volontà di espandere gli organici delle forze di Polizia per garantire “un controllo e una prevenzione sul territorio maggiormente capillare” e la proposta di potenziare il ruolo dell’Agenzia Nazionale dei Beni Confiscati e Sequestrati. Per quanto riguarda i beni confiscati la Lega rilancia poi la proposta di aprire alla possibilità di vendere i beni confiscati, già emersa in passato durante il governo Lega-M5S e duramente contestata dal movimento antimafia che ne ha sottolineato i rischi. Sul tema della formazione il programma del partito di Matteo Salvini sottolinea la necessità di istituire protocolli con le scuole per lo svolgimento di “incontri e percorsi formativi volti alla promozione della cultura della legalità e al contrasto alle mafie”. A far discutere, come già emerso nelle scorse settimane, è però il punto riguardante lo scioglimento dei comuni per mafia: “Attualmente” si legge nel documento “quando in un Comune la commissione prefettizia accerta che la collusione con una organizzazione criminale sia di un singolo consigliere e/o funzionario pubblico, quasi sempre viene sciolto il Comune. Proponiamo invece che la decadenza riguardi solo la persona collusa”. Si tratta però di una narrazione semplicistica che che non tiene conto del fatto che per lo scioglimento del comune non basta la presenza di un singolo funzionario o consigliere colluso ma di un ampio sistema in gradi di “determinare un’alterazione del procedimento di formazione della volontà degli organi elettivi ed amministrativi e da compromettere il buon andamento o l’imparzialità delle amministrazioni comunali e provinciali”.

Movimento 5 Stelle – Timido appare anche il programma del Movimento 5 Stelle che sul tema non porta proposte concrete se non quella, già avanzata dal centrosinistra, di legalizzare e regolamentare la coltivazione della cannabis per uso personale “al fine di contrastare il business della criminalità organizzata”. Per il resto, nel breve paragrafo dedicato al tema, si parla di un generico “potenziamento degli strumenti di contrasto già esistenti” e del “completamento delle riforma in tema di ergastolo ostativo” con l’esplicita volontà di tutelare i “principali presidi antimafia come il 41bis e le misure di prevenzione personali e patrimoniali”.

Si tratta di un programma evidentemente scarno e privo di qualsiasi proposta concreta che poco sembra avere a che fare con lo slogan “Onestà, Onestà” su cui ha basato la propria ascesa il Movimento 5 Stelle delle origini. La scarsa attenzione al tema di mafie e criminalità organizzata sembra oggi confermare la tendenza del M5S a staccarsi sempre più da quell’idea di anti-partito da cui era nata l’esperienza pentastellata.

Terzo Polo (Italia Viva, Azione) – Quasi assente, invece, la parola mafia dal programma di Azione – Italia Viva. Nel testo depositato dal cosiddetto Terzo Polo, oltre a sottolineare con frasi di circostanza l’ovvia necessità di contrastare il fenomeno, l’unica proposta che emerge è la volontà di modificare la legge sullo scioglimento dei Comuni per infiltrazioni mafiose “garantendo risorse adeguate e strumenti efficaci per evitare il fenomeno degli scioglimenti ripetuti.” Si segnala inoltre la presenza della parola mafia utilizzata anche in relazione al contrasto all’immigrazione clandestina che sarebbe “un danno sia per i migranti sia per i paesi di destinazione” e “favorisce lo sviluppo di mafie transnazionali e di politiche ricattatorie”.

La flat tax è incostituzionale?

La protagonista assoluta della campagna elettorale del centrodestra e la Flat Tax, una tassazione con aliquota uguale per tutti che, secondo analisti e avversari politici, rischia di essere incostituzionale. Proviamo a capire perché e se è realmente così.

Manca meno di un mese alle elezioni politiche del 25 settembre e nella fase più delicata di questa inedita campagna elettorale agostana il centrodestra lavora per convincere gli indecisi rilanciando un tormentone della scorsa campagna elettorale: la Flat Tax. D’altra parte il taglio delle tasse è da sempre cavallo di battaglia del centrodestra ed in particolare dell’ex premier Silvio Berlusconi che già promette agli elettori di attuare la riforma del fisco nei primi cento giorni di governo. Ma in questi giorni molti analisti e avversari politici stanno sottolineando come la proposta fiscale del centrodestra possa risultare incostituzionale in quanto contraria all’art. 53 della Costituzione che recita: “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”.

Per capire se sia realmente così bisogna far chiarezza innanzitutto su cosa prevede la riforma fiscale inserita nel programma di centrodestra. Il sistema attuale è progressivo e prevede quattro diverse aliquote in base al reddito imponibile annuo: chi, ad esempio, ha un reddito fino ai 15.000 euro si trova così nel primo scaglione e dovrà versarne il 23% in tasse, mentre chi guadagna oltre 50.000 euro annui si trova nell’ultimo scaglione dovrà versarne il 43%. Si tratta, come evidente, di un sistema che punta alla redistribuzione delle ricchezze, come previsto dalla Costituzione, con tassazioni più elevate per chi ha redditi maggiori. Con la riforma fiscale pensata dal centrodestra e basata su una flat tax, invece, sparirebbero i quattro scaglioni previsti attualmente e si applicherebbe la stessa aliquota a tutti i redditi. In questo modo, dunque, chi ha un reddito annuo inferiore ai 15.000 euro pagherebbe la stessa percentuale di chi ha un reddito superiore ai 50.000 euro.  È evidente come il sistema sin qui descritto non sia né progressivo né in grado di tenere conto della capacità contributiva dei singoli nuclei ed apparirebbe assolutamente incostituzionale.

La Flat Tax, quindi, è irrealizzabile senza modifiche alla costituzione? La risposta è no. Nonostante le parole del senatore di Fratelli d’Italia Massimo Mallegni che nel corso di un dibattito ha sottolineato come sia necessaria una modifica della Carta costituzionale, la realtà è che la flat tax può essere introdotta con legge ordinaria senza intaccare la Costituzione. Anzi, la flat tax in Italia già esiste: il reddito dei lavoratori a partita IVA, infatti, è già tassato al 15% senza distinzioni sul reddito annuo. Per estendere questo sistema a tutti i contribuenti senza renderlo incostituzionale, però, sarà necessario introdurre dei correttivi che rendano meno “piatta” la Flat Tax avvicinandola il più possibile a quella progressività richiesta dalla Costituzione. Qualche indicazione su come i partiti di centrodestra intendano impostare la riforma fiscale ci arriva dal disegno di legge presentato dalla Lega nel maggio 2020, a firma del senatore Siri, per l’introduzione e l’implementazione di una tassa piatta. Nella proposta del carroccio per superare i dubbi di costituzionalità erano stati inseriti una “no tax area”, volta a salvaguardare i redditi più bassi esentando dal versamento delle imposte i contribuenti con reddito inferiore a 10.000 euro, e una serie di detrazioni e deduzioni graduate in base al reddito ed alla situazione familiare mirate a rendere più equa la tassazione. Se dunque senza correttivi sarebbe improponibile, impostata in questo modo la Flat Tax non risulterebbe incostituzionale e potrebbe rispettare il criterio della progressività fiscale. 

Ma se costituzionalmente un sistema fiscale come quello proposto dal centrodestra può essere accettabile, è evidente come questa riforma sia espressione di un momento politico-sociale caratterizzato da un forte individualismo e da una scarsa coesione. Sembra assai lontana quella “nuova stagione dei doveri” più volte richiamata nella storia repubblicana, e ripresa anche dal Presidente Mattarella negli ultimi anni, perché necessaria a salvare l’Italia da pericolose derive. La Flat Tax proposta dal centrodestra è la fine di quel principio di solidarietà di cui parla l’art. 2 della nostra Costituzione auspicando “l’adempimento di doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. Il dovere di concorrere alle spese pubbliche, come stabilito da dottrina e giurisprudenza, è un dovere di solidarietà economica e sociale che richiede una tassazione progressiva basata su un sistema che riconosca la capacità contributiva di ciascuno. L’eliminazione, seppur attraverso correttivi, di un fisco progressivo mina quei principi stabiliti dalla Carta pur non violandoli espressamente. Ma al di là di una questione meramente astratta e sociologica come quella relativa all’art. 2, c’è anche una questione pratica che rende la tassa piatta inadeguata alla situazione in cui versa il nostro paese. Come si può pensare di mantenere i conti in ordine imponendo un’aliquota al 15% (o al 23% come proposto da Forza Italia), più bassa cioè anche dell’aliquota minima prevista dal sistema attuale che tassa al 23% i redditi inferiori ai 15.000 euro? È evidente come le entrate sarebbero nettamente inferiori. E, in un paese in cui il sommerso è di oltre 80 miliardi ogni anno, a poco valgono le parole dei leader del centrodestra che sostengono che con una tassazione del genere anche ci oggi evade le tasse inizierebbe a pagarlo. L’unica cosa certa è che alle condizioni attuali, una flat tax al 15% non potrebbe garantire le coperture necessarie. Forse bisognerebbe, prima di rivedere il sistema fiscale, occuparsi in modo serio e concreto del problema dell’evasione fiscale in Italia.

Gli Stati Uniti e il rischio concreto di una nuova Guerra Civile

Il blitz dell’FBI di settimana scorsa è tornato ad infiammare gli animi dei sostenitori estremisti di Trump, vittima secondo loro di un uso politico della giustizia, facendo di nuovo temere per una crisi sociale e politica che potrebbe sfociare in qualcosa di più grave.

Sono bastati pochi minuti. È bastato che Donald Trump mettesse in rete la notizia della perquisizione della sua residenza a Mar-a-Lago da parte dell’FBI e immediatamente il popolo dei suoi supporter si è mobilitato. Una folla di irriducibili trumpiani si è radunata a Palm Beach davanti alla casa dell’ex presidente, che in quel momento però si trovava a New York, per proteggerlo da quello che a loro modo di vedere è l’ennesimo sopruso. Una valanga di post e commenti hanno invaso i social network: “Questo è un attacco politico orchestrato da Biden”, “Non avremo mai più elezioni libere” o ancora “io ho già comprato le munizioni”. Proprio così, perché bastano pochi minuti perché tra i temrini più cercati su Google finiscano “guerra civile” e “lock and load”, termine utilizzato nel gergo militare per indicare un’arma da fuoco carica e pronta per essere usata. D’altronde è dall’assalto al congresso del 6 gennaio scorso che gli Stati Uniti d’America, la più grande democrazia occidentale, temono quello che sulla carta sembra impensabile ma che nella realtà sembra sempre meno impossibile: una nuova guerra civile.

Se questa volta, dopo la notizia delle perquisizioni a casa di The Donald, la violenza è stata solo minacciata con centinaia di post su social e forum di estrema destra, la sensazione è che la rabbia sociale seminata da Trump dopo la sconfitta elettorale stia continuando a dare i suoi frutti. La sua narrazione di uomo vittima di un uso politico della giustizia volto a toglierlo di mezzo per permettere al solito establishment di governare sta continuando ad infiammare gli animi con la conseguenza che parte dell’opinione pubblica americana prende per vere le parole dell’ex presidente condividendone il rancore verso chi governa. Si è venuta così a creare una crisi di legittimità senza precedenti per cui ogni decisione politica o giudiziaria diversa da quelle auspicate da dai sostenitori dell’ex presidente devono essere considerate come prese per fermare Trump e dunque per scardinare la democrazia a favore dei soliti potenti. E di conseguenza, ogni decisione invisa ai trumpiani potrebbe scatenare ondate di violenza e ribellione come accaduto il 6 gennaio con l’assalto al campidoglio e come ha rischiato di avvenire settimana scorsa dopo le perquisizioni a casa di Trump.

Nel libro “How Civil Wars start” la politologa Barbara F. Walter sostiene che a scatenare le guerre civili tendono ad essere gruppi sociali precedentemente dominanti non più soddisfatti dello stato delle cose che, per ritornare allo status quo precedente, fomentano disordini e violenze istigando gli altri a fare lo stesso. Una definizione che sembra calzare a pennello per tutti quei movimenti estremisti legittimati da Donald Trump durante il suo mandato ed ora ritornati ai margini della società democratica. Le milizie paramilitari di estrema destra, infatti, dopo aver vissuto anni di centralità grazie alla presidenza di The Donald ora sono relegati a un ruolo marginale, osteggiati da istituzioni e forze dell’ordine. Il loro legame con l’ex presidente, che per tutto il suo mandato li ha coccolati e alimentati, sembra indissolubile e gruppi come gli “Oath Keepers” o i “Proud Boy” sembrano adesso disposti a tutto per sostenere la sua causa. La loro causa.

A ciò si aggiunge la stagione caotica in cui si trovano gli Stati Uniti stretti tra vendette incrociate, scollamento tra gli stati con quelli a guida repubblicana che rivendicano il diritto di disubbidire alle disposizioni federali o, addirittura, minacciano la secessione, come hanno appena fatto 13 deputati trumpiani del New Hampshire. Una situazione la cui gravità è stata sottolineata anche in una recente intervista da Noam Chomsky, linguista e più importanti attivista politico statunitense, secondo cui i repubblicani fedeli a Trump avrebbero sfruttato le spaccature sociali e culturali per alimentare una guerra alla democrazia che possa permettere al partito Repubblicano di controllare le prossime elezioni. Si tratta della teoria dello “Slow Motion Coup”, letteralmente “colpo di stato al rallentatore”, sempre più diffusa tra studiosi e intellettuali americani e che sostiene che Trump e i suoi sostenitori stiano già lavorando nell’ombra per tornare al potere nel 2024. Le prove a sostegno di questa tesi sono molte: diversi candidati repubblicani, che ancora negano la sconfitta elettorale di Trump, sono ora in corsa per aggiudicarsi posizioni chiave dalle quali inclinare a proprio piacere l’ago della bilancia nelle prossime elezioni. Non solo: nell’ultimo anno sono stati almeno 19 gli Stati americani a guida repubblicana a varare provvedimenti restrittivi volti a limitare il diritto di voto: ad esempio riducendo le tempistiche per richiedere il voto per corrispondenza o rendendo più complicato l’accesso ai seggi. A fare le spese, sebbene nessun provvedimento legislativo citi direttamente alcuna categoria, sono sicuramente le minoranze razziali, i poveri e gli anziani, così come denunciato dallo stesso presidente Biden.

Gli stati uniti sembrano dunque sempre più sull’orlo di una crisi sociale e politica che potrebbe tramutarsi, nello scenario peggiore, in una vera e propria guerra civile armata fomentata dalle milizie paramilitari di estrema destra. Milizie che ad oggi sarebbero già pronte all’azione, come dimostra la rapida mobilitazione a sostegno di Trump la settimana scorsa, ma che fino ad ora sembrano essersi trattenute in attesa forse di un segnale. Visto come andò con l’assalto al campidoglio il 6 gennaio 2021, però, la domanda sorge spontanea: Cosa accadrebbe se fosse lo stesso Trump a chiedere di iniziare a combattere?

Fratelli di ‘ndrangheta: i guai giudiziari nel partito di Giorgia Meloni

L’esponenziale crescita nei sondaggi del partito di Giorgia Meloni ha portato negli ultimi anni ad una migrazione di massa di esponenti di partiti di centrodestra verso Fratelli d’Italia. Un’arma a doppio taglio con cui FdI ha spalancato le porte a soggetti con legami pericolosi con cosche mafiose

Mancano meno di due mesi alle prime elezioni politiche autunnali della storia repubblicana e qualcuno già la incorona vincitrice. Giorgia Meloni, in testa a tutti i sondaggi, sta spingendo Fratelli d’Italia verso vette di consenso che nessuno poteva immaginare qualche anno fa. Nato nel dicembre del 2012 da una costola dell’allora Popolo delle Libertà, fino agli ultimi mesi era stato il partito minore all’interno della coalizione del centrodestra, utilizzato da Forza Italia e Lega per attrarre i voti delle frange più estreme della destra ed ampliare così il bacino elettorale di una coalizione orientata più al centro. Ma negli ultimi anni qualcosa è cambiato.

Radicato a Roma e provincia e fondato su una solida base di nostalgici e orfani della vecchia fiamma tricolore, Fratelli d’Italia ha scalato le gerarchie all’interno della coalizione diventando il primo partito sia nel centrodestra che nel paese. Grazie alla sua linea dura di forte opposizione a tutti i governi che si sono succeduti in questa legislatura, il partito di Giorgia Meloni è passato dal 4,4% delle politiche del 2018 ad un potenziale 23% alla prossima tornata elettorale. Un’ascesa quasi miracolosa che ha però portato ad una serie di problemi collaterali all’interno del partito in termini di legalità. Con la crescita dei consensi diversi politici, soprattutto al sud, sono migrati in modo quasi incontrollato da Forza Italia e dalla Lega verso il partito di Giorgia Meloni portando a Fratelli d’Italia importanti pacchetti di voti che hanno contribuito ad alimentare la crescita nei sondaggi. Ma questa continua “campagna acquisti” si è rivelata un’arma a doppio taglio: se da un lato ha ingrossato le fila del partito e contribuito alla crescita dei consensi, dall’altro ha spalancato le porte a soggetti in odor di mafia.

Uno smacco non indifferente per Giorgia Meloni che da sempre ricorda di aver iniziato a far politica dopo la morte del giudice Paolo Borsellino e di voler mettere al primo posto la legalità proprio per questo suo legame con il giudice antimafia. Parole che troppo spesso stridono, però, con i fatti. Fratelli d’Italia, ad oggi, sembra infatti essere il partito con più legami con i clan e con il maggior numero di esponenti arrestati. Per questo, anche se ha destato particolarmente clamore essendo arrivato in piena campagna elettorale, non sorprende il caso di Terracina scoppiato pochi giorni fa. Nel feudo nero di Fratelli d’Italia, dove la stessa leader del partito si era candidata per essere certa di essere rieletta in Parlamento, era stato ideato un vero e proprio sistema fatto di corruzione e gestione opaca degli appalti pubblici. Un sistema su cui ora indaga anche l’antimafia per le violenze e le intimidazioni in pieno stile mafioso ai danni di chi minacciava di opporsi. L’inchiesta, che vede coinvolto tra gli altri anche Nicola Procaccini fedelissimo di Giorgia Meloni già sindaco del comune pontino ed europarlamentare nelle file di Fratelli d’Italia, è la prosecuzione di quella che solo pochi mesi fa aveva portato all’arresto del vicesindaco Marcuzzi, anche lui meloniano della prima ora e in procinto di candidarsi alle prossime regionali.

E pensare che nel 2020, in piena campagna elettorale per le amministrative, era stata proprio la leader di Fratelli d’Italia a osannare il “modello Terracina” affermando di volerlo esportare anche a livello nazionale. “Io vi prometto” aveva detto durante un comizio “che prenderemo questo laboratorio, questo esempio di democrazia e politica, e lo porteremo al governo della nazione”. Ma se dopo gli arresti appare difficile immaginare la Meloni che, fiera e decisa, promette di portare il sistema Terracina in tutta Italia, in molti tra i suoi compagni di partito sembrano averla presa in parola riproducendo in tutta Italia quel tessuto di relazioni pericolose che ha portato alla fine della giunta del comune pontino.

È il caso, ad esempio, di Francesco Lombardo. Candidato alle amministrative di Palermo con Fratelli d’Italia è stato arrestato a pochi giorni dal voto per aver chiesto voti al boss mafioso Vincenzo Vella in cambio di favori. Una vicenda da cui Fratelli d’Italia ha subito preso le distanze dichiarandosi parte offesa. Così come aveva a suo tempo preso le distanze da Roberto Russo, assessore regionale in Piemonte, condannato nei giorni scorsi a 5 anni per voto di scambio politico mafioso. E ancora Alessandro Niccolò, capogruppo di FdI in Calabria arrestato per associazione mafiosa. O Giancarlo Pittelli, ex europarlamentare calabrese di Forza Italia passato a Fratelli d’Italia nel 2017 ed arrestato nell’ambito dell’inchiesta “Rinascita-Scott” perché considerato anello di congiunzione tra la politica e i clan di ‘ndrangheta. O ancora Domenino Creazzo, già sindaco di sant’Eufemia d’Aspromonte, arrestato tra l’elezione e l’insediamento in consiglio regionale per i suoi rapporti con la cosca Alvaro. E si tratta solamente di alcuni degli esponenti di Fratelli d’Italia arrestati o indagati negli ultimi anni per rapporti opachi con i clan. Una lista lunghissima che non fa sconti a nessuno, da nord a sud, da semplici eletti a dirigenti del partito.

“Io non posso conoscere personalmente tutte le migliaia di candidati che ha Fratelli d’Italia in tutto il paese” si era difesa Giorgia Meloni ai microfoni della trasmissione Report ribadendo il suo impegno per ripulire il partito da figure del genere. Un’affermazione sacrosanta e, a tratti, anche condivisibile. Difficile però immaginare che la leader di quello che oggi è il primo partito a livello nazionale non sapesse degli affari di Pasquale Maietta, astro nascente del partito e tesoriere del gruppo di Fratelli d’Italia alla Camera dei Deputati. Secondo le indagini condotte nel 2016 Maietta avrebbe avuto rapporti stabili e di reciproco interesse con il boss Costantino “cha cha” Di Silvio, elemento di spicco della criminalità organizzata nell’agro pontino che avrebbe garantito tramite Maietta il sostegno elettorale a Fratelli d’Italia nei territori controllati dal clan.

Si tratta di un quadro desolante che contrasta con le parole della candidata premier che da giorni ripete in lungo e in largo che “la classe dirigenti di Fratelli d’Italia è pronta per governare il paese”. Ma questo è il momento che Giorgia Meloni aspetta da una vita ed ora che si prepara a ricoprire la carica più importante di Governo ha deciso di eliminare tutti gli ostacoli tra lei e la premiership tra cui anche i problemi giudiziari legati che contribuiscono ad accostare il nome di Fratelli d’Italia alle cosche mafiose. Da giorni Giovanni Donzelli, responsabile organizzativo di FdI, è al lavoro per fare pulizia all’interno del partito eliminando dalle liste tutti i soggetti che negli anni hanno dimostrato una certa familiarità con gli ambienti criminali di tutta Italia. Un tentativo in extremis di ripulire la facciata per scongiurare polemiche e attacchi da parte degli avversari. Sarà sufficiente a portare la legalità non solo a parole ma anche nei fatti? 

Gino Bartali e l’impresa al Tour che salvò l’Italia dalla guerra civile

Era il 1948 e a tre mesi dalle prime elezioni della storia Repubblicana, l’Italia era sull’orlo di una guerra civile con milioni di persone scese nelle strade dopo l’attentato a Togliatti. La situazione sembrava irrimediabilmente compromessa ma l’impresa di Bartali cambiò l’inerzia della storia.

14 luglio 1948, Roma. Sono da poco passate le 11.30 quando in tutta Italia si diffonde a macchia d’olio una notizia che getta il paese nello sconcerto: “Hanno sparato a Togliatti”. Il leader del Partito Comunista, raggiunto da quattro colpi di pistola mentre usciva da Montecitorio con Nilde Iotti, viene trasportato d’urgenza in ospedale. La natura politica dell’attentato è immediatamente evidente con l’arresto di Antonio Pallante, studente di giurisprudenza e fervente anticomunista spaventato dagli effetti che la politica del PCI avrebbe potuto avere sul paese. La reazione è immediata e feroce. La CGIL proclama uno sciopero generale e in tutta Italia milioni di persone manifestano la loro rabbia e il loro sconforto per il ferimento del leader comunista. A Torino gli operai della FIAT occupano la fabbrica e sequestrano nel suo ufficio l’amministratore delegato Vittorio Valletta. La circolazione ferroviaria si ferma e i telefoni smettono di funzionare mentre i manifestanti si scontrano sempre più ferocemente con le forze dell’ordine. La sera del 14 luglio il bilancio è di 14 morti e centinaia di feriti. L’Italia sembra a un passo dalla guerra civile.

14 luglio 1948, alpi francesi. È in corso il “Tour de France” ma quel giorno, festa nazionale per i transalpini, non si corre. I corridori trascorrono la giornata al fresco in attesa delle prime grandi salite che potrebbero decidere la Grand Boucle, ma per gli italiani le speranze sono poche. Lo sa anche Gino Bartali che un Tour de France lo ha vinto esattamente dieci anni prima ma che ora, a 34 anni, fatica a tenere il passo degli avversari più giovani. Bartali in quel Tour era partito bene conquistando la prima maglia gialla a Trouville sur Mer, ma tappa dopo tappa ha perso un minuto dopo l’altro e a 9 tappe dall’arrivo a Parigi è settimo con un ritardo di oltre 21 minuti dal leader della classifica generale Louis Bobet. Ma la sera di quel 14 luglio qualcosa sta per cambiare.

A questo punto la leggenda si intreccia con la storia confondendone i confini. L’unica certezza è che, intorno alle 21 di quel 14 luglio, nell’hotel della squadra italiana arriva una chiamata per Gino Bartali. È il Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi, amico ed estimatore del campione toscano. “Caro Gino, qui c’è una gran confusione. Abbiamo bisogno anche di lei. La prego vinca domani! Vinca il Tour de France!”. La telefonata spiazza Ginaccio, come era soprannominato da amici e tifosi. “Presidente” gli rispose “domani c’è la prima tappa di montagna ma è durissima. Non posso garantirle che vincerò il Tour, ma domani ce la metterò tutta”. Il giorno dopo fu di parola. Sapeva che se in Italia fosse scoppiata una guerra civile sarebbe dovuto tornare in patria e allora corse come se fosse l’ultimo giorno. Un attacco grandioso sulle salite alpine staccando uno dopo l’altro tutti gli avversari fino a d arrivare solo al traguardo. L’Italia, ancora scossa da tumulti e scontri, si ferma ad ammirare incredula l’impresa del suo campione in terra francese. Si fermano i tumulti, gli scontri, i morti e i feriti. Tutto si congela. Il paese rapito rimane a guardare l’impresa del suo campione in terra francese. Il tifo per quel 34enne che scala le alpi con la sua bicicletta sostituisce l’odio e la rabbia che da un giorno e mezzo dilagavano in tutta la penisola. Al termine di quella tappa Bartali guadagnò venti minuti riducendo ad un solo minuto il suo ritardo dalla maglia gialla. Al traguardo, prima ancora di scendere dalla sua bicicletta, si avvicina allo staff della squadra italiana: “Come sta Togliatti” chiede. “Sta migliorando, è quasi fuori pericolo”. “E allora adesso miglioro io” rispose Gino. E migliorerà per davvero, il giorno seguente un’altra vittoria stratosferica sulle alpi gli consente di guadagnare la maglia gialla. In Italia, mentre Bartali scala leggero le impervie salite transalpine, la rabbia lascia il posto alla gioia. La gioia per un Togliatti che lentamente migliora. La gioia per un campione ritrovato che sta domando tutto e tutti.

Alla Camera dei deputati ancora disorientata, agitata, indignata per l’attentato di piazza Montecitorio, il clamore discorde viene placato dalla altissima voce di un deputato che gridava: “Attenzione! Una grande notizia. Bartali ha vinto la tappa e forse la maglia gialla. Viva l’Italia”. E nello stupore che seguì, gli animi si rasserenarono. E così avvenne nelle piazze. Le manifestazioni si interruppero e per la prima volta la gente smise di chiedere i bollettini degli scioperi e iniziò a leggere quelli del tour. E mentre la vittoria di Bartali rasserenava gli animi, dall’ospedale arrivarono anche le prime parole di Togliatti: “Sono fuori pericolo. Non fate pazzie. Assicuro a tutti i compagni che a suo tempo sarò nuovamente al mio posto di lavoro”. 

La guerra civile è ormai scongiurata. Ma per qualcuno non basta. Bartali il 25 luglio vince il Tour de France. Il trentaquattrenne spinto da una carica emotiva fatta di passione ma anche senso del dovere verso il proprio Paese riesce a salire sul gradino più alto del podio parigino. L’Italia lo acclama a gran voce. Sono giorni di festa e di gioia in tutte le nostre città, l’inizio della fine è ormai superato. Rientrato in Italia fu accolto da tutti gli onori, ricevuto dal Papa e dal Presidente della Repubblica oltre che dal presidente del Consiglio Alcide de Gasperi che gli permise di chiedere qualsiasi cosa come ricompensa per la sua impresa. “Mi basterebbe non pagare le tasse per un anno” rispose Bartali. Non sappiamo se venne accontentato. Come non sappiamo quanto fu determinante l’impresa di Bartali per scongiurare una guerra civile che forse non sarebbe scoppiata in ogni caso. Ma il potere dello sport fu straordinario anche in questo caso. D’altra parte, era stato lo stesso Togliatti a teorizzarlo con una sua celebre frase: “Come puoi pensare di fare la rivoluzione senza sapere quanto ha fatto ieri la Juventus?”.

Transizione Ecologica: abbiamo un piano ma potrebbe non bastare

Il termine “Transizione Ecologica” è ormai entrato nelle agende politiche di tutti i principali leader mondiali con l’obiettivo di correre ai ripari per scongiurare una catastrofe climatica. Anche il nostro paese, a modo suo e con i suoi tempi, sta provando a mettersi al passo.

“L’ambiente e la transizione ecologica sono l’essenza stessa di questo governo. È nato su questo programma. Quindi continuiamo su questa strada” Così, durante un question time alla Camera a inizio marzo, il premier Mario Draghi aveva ricordato ai deputati come l’esecutivo da lui guidato ha tra le priorità la questione ambientale. La crisi climatica che stiamo attraversando, tornata di stretta attualità dopo la tragedia della Marmolada e il caldo record di questi giorni, costringe infatti i governi ad assumersi la responsabilità di trovare una via d’uscita ad una situazione che rischia di aver conseguenze devastanti sul mondo che viviamo. Così nelle agende politiche dei principali paesi del mondo è presente un piano per la Transizione Ecologica, termine utilizzato per indicare il passaggio o la trasformazione da un sistema produttivo intensivo e non sostenibile dal punto di vista dell’impiego delle risorse, a un modello che invece ha il proprio punto di forza nella sostenibilità, ambientale, sociale ed economica. Quando si parla di “Transizione Ecologica”, dunque, si intende quel processo di cambiamento che possa portare al rilancio dell’economia e di interi settori produttivi all’interno di un modello che metta al primo posto la tutela ed il rispetto dell’ambiente.

Ma se a parole sembra semplice e di bon senso, l’attuazione o l’avvio di un reale percorso volto a modificare interamente il sistema produttivo di un paese incontra difficoltà non indifferenti. Un primo passo in questa direzione nel nostro paese è stato fatto il 26 febbraio 2021 quando con la nascita del Governo Draghi è stato istituito il primo Ministero della Transizione Ecologica nella storia del nostro paese. Tale ministero, che ha sostituito il Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Mare, opera in stretto raccordo con il Ministero dello Sviluppo Economico con l’obiettivo di trovare un punto di incontro tra le esigenze economico-produttive e la necessità di una riconversione green del sistema. Ma se fino ad ora l’impegno del Governo non si era concretizzato in altro se non nelle dichiarazioni di Draghi e Cingolani, adesso l’Italia ha un piano. Nel vero senso della parola. 

Nel mese di giugno è stato infatti pubblicato il “Piano per la Transizione Ecologica” (PTE), uno strumento di programmazione nazionale volto a indirizzare le future decisioni in modo da coniugare le esigenze economiche e lavorative con quelle ambientali definendo un quadro concettuale anche per gli interventi previsti dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR). Nelle sue premesse, il Pte enuncia l’intenzione di perseguire un “approccio sistemico, orientato alla decarbonizzazione ma non solo; caratterizzato da una visione olistica e integrata, che include la conservazione della biodiversità e la preservazione dei servizi ecosistemici, integrando la salute e l’economia e perseguendo la qualità della vita e l’equità sociale”. Nell’individuare nella decarbonizzazione, nella mobilità sostenibile e nell’abbassamento della soglia di inquinamento come priorità assolute da perseguire, il piano evidenzia tre presupposti necessari affinché si attivi realmente una transizione ecologica: il consenso, la partecipazione e un approccio non ideologico alle questioni; la centralità della ricerca scientifica; la semplificazione delle regole che governano l’attuazione dei progetti. Senza il verificarsi di queste tre condizioni la transizione ecologica è destinata ad esaurirsi in un nulla di fatto. Per raggiungere gli obiettivi contenuti nel piano, l’Italia si è data tempo fino al 2050, “”anno in cui il nostro paese deve conseguire l’obiettivo, chiaro e ambizioso, di operare “a zero emissioni nette di carbonio” e cioè svincolandosi da una linearità tra creazione di ricchezza e benessere con il consumo di nuove risorse e/o aumento di emissioni”. Un tempo evidentemente lungo, vista l’impossibilità di raggiungere obiettivi così ambiziosi nel breve periodo, che rende necessaria una continua revisione del PTE per renderlo il più possibile attuabile nel corso degli anni. Quella presentata a giugno, infatti, altro non è che una prima versione che funga da quadro generale e punto di partenza per l’elaborazione di una strategia concreta. Come esplicitato nel documento, infatti, “l’attuazione degli interventi previsti dal Piano per la transizione ecologica e dal PNRR necessitano di una efficiente pubblica amministrazione e di una accurata e precisa metodologia, basata sulla quantificazione in termini di emissioni, lavoro e flussi finanziari secondo la prospettiva del ciclo di vita […] Ulteriori elementi, dati quantitativi e cronoprogrammi saranno contenuti in una secondo documento”.

Vista l’impossibilità di pianificare interventi concreti su un periodo di tempo così lungo, dunque, sarà necessaria una costante revisione delle misure previste dal piano per renderle quanto più possibile attuali e realizzabili. Ma se quello descritto sin qua sembra essere uno scenario quasi idilliaco, con un programma di massima per arrivare ad una piena transizione entro il 2050, nella realtà nasconde diverse insidie. Su tutte vi è una questione strettamente politica data dalle diverse sensibilità sul tema dei vari partiti che potrebbe influire, e non poco, sull’attuazione del piano. Come stabilito nel PTE, infatti, ogni 31 maggio dovrà essere presentata una relazione sullo stato dell’arte e l’attuazione del piano per ricalibrare gli obiettivi e immaginare misure concrete da adottare per raggiungerli entro l’anno successivo. Una revisione annuale in un paese in cui temi, urgenze e priorità dei partiti vengono stravolti da un giorno all’altro rischia di esporre in modo irrimediabile un argomento così importante alle oscillazioni politiche che caratterizzano il nostro sistema. Se il 31 maggio prossimo al governo ci dovesse essere una forza politica che ha a cuore l’ambiente allora il piano potrebbe diventare centrale nella programmazione dei lavori. Se, al contrario, al governo ci fosse un partito (o una coalizione) poco interessata a questi temi si potrebbe creare uno stallo con l’implementazione della transizione ecologica ferma in attesa di risposte. E così per tutti gli anni successivi, fino al 2050.

Il rischio è dunque che il tema della transizione ecologica, la cui importanza è sotto gli occhi di tutti oggi più che mai, diventi una carta politica come tante altre da utilizzare per fare pressione sugli avversari e ottenere quello che si vuole. L’elaborazione di un piano è un punto di partenza fondamentale ed imprescindibile che il nostro paese stava aspettando da tempo ma potrebbe non essere sufficiente. Ora è necessario che quel piano venga attuato e che da oggi fino al 2050 tutte le forze in campo si adoperino affiche gli obiettivi stabiliti da questo governo vengano raggiunti il prima possibile. Non è immaginabile che ogni governo che si insedierà da qui al 2050 possa riconsiderare il PTE per questioni ideologiche o partitiche. Ne va del futuro di tutti.